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Autore: _Frame_    17/09/2011    1 recensioni
Mio padre morì il 28 gennaio 2010. Era un poliziotto. Mia madre il 14 febbraio 2011. Lei era un'ex attrice e modella. Entrambi erano seppelliti nel cimitero a due passi da casa. Questo era tutto ciò che sapevo dei miei genitori all'età di cinque anni. Anzi, questo era tutto quello che volevano farmi sapere.
Genere: Dark, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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15. FIORI (RYUZAKI)

 
Mio padre morì il 28 gennaio 2010.
Era un poliziotto.
Mia madre il 14 febbraio 2011.
Lei era un’ex attrice e modella.
Entrambi erano seppelliti nel cimitero a due passi da casa.
Questo era tutto ciò che sapevo dei miei genitori all’età di cinque anni.
Anzi, questo era tutto quello che volevano farmi sapere.
 
14 febbraio 2015
 
Il 14 febbraio di ogni mese mi recavo al cimitero con i miei zii, per portare i fiori ai miei genitori e a mio nonno.
Non mi ci portavano mai il 28 gennaio, quando ricorreva l’anniversario della morte di mio padre, perché quello era, ed è tuttora, il giorno della mia nascita, e mia nonna voleva ricordarlo solo come un giorno di festa.
Lei non mi accompagnava quasi mai sulla collinetta.
E, quelle poche volte che era venuta, non aveva fatto altro che piangere.
Così, ero stato io, ad un certo punto, a consigliarle di rimanere a casa.
Non mi piaceva vederla soffrire.
Quel giorno, mi venne a prendere lo zio Aizawa.
Strana abitudine, la mia, di chiamare i miei zii per cognome.
Ma, a quel tempo, non ero nemmeno a conoscenza dei loro nomi di battesimo.
A loro non dava fastidio e, per me, era un modo originale per dimostrare affetto alle persone che mi erano state affianco fin dalla nascita.
Non appena varcai l’uscio, lo vidi mentre mi sorrideva, con le mani nella tasca del cappotto impermeabile.
Quando i nostri sguardi si incrociavano, percepivo sempre un lampo di esitazione, nei suoi occhi.
Ma, a questo particolare non davo la benché minima importanza.
L’affetto, che sentivo perennemente provenire dai loro animi, riusciva a coprire e a cancellare qualsiasi altro sentimento che avrebbero potuto provare nei miei confronti.
-Sei pronto, Ryuzaki?
-Certo, zio!
Mi precipitai fuori dalla porta con un grosso mazzo di fiori bianchi tra le dita.
-Caro, non dimentichi qualcosa?
Mi voltai in direzione di mia nonna, ferma sull’uscio di casa, che mi sorrideva con le braccia conserte.
-Ah, già! Scusa!
La raggiunsi con un balzo e le stampai un bacio sulla guancia.
-A dopo!

Quel pomeriggio, in cielo splendeva un sole insolitamente caldo, ed io iniziavo a sudare sotto la maglia di lana che mia nonna si era assicurata che indossassi.
-Ci sei solo tu, oggi?
-No. Ide…ehm, lo zio Ide ci aspetta direttamente sul posto.
Dopo pochi minuti, giungemmo alle porte del cimitero, e da lontano potevo già scorgere le tombe dei miei parenti, illuminate dai caldi raggi solari.
Davanti alla lapide di mio nonno, distinguevo nitidamente una sagoma scura, che ci dava le spalle, ed io accelerai il passo, andandole incontro, sventolando in aria la mano.
-Zio Ide!
L’uomo si voltò, e ricambiò il saluto con un sorriso.
-Ryuzaki!
Dopo pochi secondi, mi ritrovai avvolto dalle sue braccia, ancora annaspante per la breve corsa, affrontata con addosso ingombranti e costringenti abiti invernali.
I suoi occhi si posarono sul candido bouquet floreale, gelosamente custodito dalle mie piccole, seppur ancora paffute, manine infantili.
-Hai portato molti fiori, quest’anno.
-Si. L’anno scorso, dividendoli per tre, erano risultati quasi insufficienti, così non ho voluto correre rischi.
 Cominciai subito a distribuire i fiori, partendo da mio nonno, per poi passare a mio padre e, infine, a mia madre, che era sepolta qualche lapide più indietro.
Saltellavo, nel percorso tra una tomba e l’altra.
Aspettavo sempre con ansia il 14 febbraio.
Non la vedevo come la data della fatidica morte di mia madre, ma solo come “il giorno in cui si andava a trovare mamma, papà e il nonno”.
Ripensandoci, mi viene quasi da sorridere.
Un po’ invidio quel lato ingenuo ed infantile di me stesso.
Però, non è con l’innocenza, che si va avanti nella vita.
Ma, questo lo scoprii solo in seguito.
-Ciao, mamma! Hai visto? Ti ho portato i tuoi preferiti, quelli bianchi.
Li sistemai accuratamente sul vaso di vetro, che copriva in parte l’incisone “Misa Amane”.
Io avevo pochi ricordi di lei.
Ero troppo piccolo quando morì.
Nessuno aveva mai accennato al suo suicidio, non mi avevano rivelato la causa della sua morte, e lo stesso valeva per mio padre.
Ma io, in fondo al mio cuore, conservavo ancora l’orrore di quel giorno, e i ricordi delle mie dita insanguinate tra i suoi capelli.
Rosso.
Rosso.
Rosso.
E ancora rosso.
E l’odore del sangue, che mi toglieva il respiro.
Realizzai da solo l’ipotesi del suicidio.
Non immaginavo il perché del suo gesto, e non osavo chiederlo a nessuno.
Di mio padre sapevo ancora meno.
Un poliziotto.
Ecco, tutto quel che conoscevo sul suo conto.
Con mia nonna, non volevo mai sollevare l’argomento.
L’avrei fatta solo soffrire ulteriormente.
Credo di aver ricevuto un dono, alla mia nascita.
Io sapevo, e so tuttora, percepire in maniera straordinariamente precisa ciò che la gente accanto a me sta provando.
I loro stati d’animo, in poche parole.
Può sembrare strano, che un bimbo di cinque anni sia in grado di immedesimarsi nelle altre persone e che, soprattutto, possa comprendere le emozioni da loro emanate.
A volte quasi mi spaventava, questo dono, o maledizione.
Dipende dai punti di vista.
Comunque, non mi piaceva che le persone soffrissero.
Io volevo che tutto il mondo fosse felice.
Potrà suonare come un desiderio infantile, irraggiungibile.
Un’utopia.
E, magari, anche lo è.
Ma ero stanco di vedere i visi delle persone a me care sempre bagnati dalle lacrime.
Perché…?
Perché la gente soffre?
È a causa del male che ristagna nel mondo?
Ed è la stirpe umana a generarlo, questo male?
Ma, allora, se sul pianeta esistono questi uomini che piantano il seme della malvagità, ce ne saranno altri che provvedono ad estirparlo.
Questo era, per me, la vera missione dell’agente di polizia.
E questo era mio padre.
Un’ombra sfuocata in lontananza.
Un puzzle di cui avevo composto solo i primi miseri pezzi con le tasselle ricevute da quei pochi parenti che mi ritrovavo.
Oppure, semplicemente una lapide.
Un freddo blocco di pietra con un nome scavato sulla sua dura superficie.
Le sue foto, mi vennero mostrate solo qualche anno dopo, dai miei zii.
All’inizio, l’unica maniera in cui sapevo identificarlo, era in quel sepolcro.
A volte, venivo persino deriso per questo, dai miei compagni d’asilo.
Una volta, ci era stato assegnato un compito.
Un compito semplice, di quelli che fanno eseguire ai bambini durante i primi anni della loro carriera scolastica.
Disegna la tua famiglia.
Sul mio foglio, avevo scarabocchiato il mio ritratto, con gli arti rappresentati da una semplice linea dalla direzione irregolare, un rettangolo al posto del busto, e qualche dita di troppo sulle mani.
Mia madre, al contrario, era risultata molto più bella e proporzionata, dipinta dall’inchiostro di pennarello.
Il suo sorriso, però, lo avevo tracciato in maniera molto più contenuta, rispetto al mio, che si estendeva per tutta la faccia, arrivando quasi a toccare le orecchie.
Sullo sfondo, il verde del cimitero.
E il grigio delle lapidi.
Ed una scritta, inchiostrata sul sepolcro più grande, in cima alla collina.
Papà.
Gli altri bambini si presero gioco di me per almeno una settimana, e i ripetuti richiami da parte delle maestre non servirono a molto.
Anzi, quasi a niente.
Le loro risate strisciavano come vipere nelle mie orecchie e le parole di scherno mi tagliavano l’animo come una lama rovente.
A volte… gli esseri umani sanno davvero, come essere crudeli.
Anche se si tratta di individui estremamente giovani.
Ma io non reagivo.
Me ne stavo lì, in un angolino, a capo chino, consolato da quei pochi amici che ero riuscito a conquistarmi.
Però non piansi.
Questo mai.
Non potevo permettermi, di dargliela vinta.
Io ero più forte di loro, e sapevo rialzarmi, andando avanti a testa alta.
Forse, è stata proprio la mia condizione di orfano, che mi ha permesso di farmi le ossa per riuscire a sopravvivere in questo mondo di merda.
 
Se l’argomento “papà” con mia nonna non veniva sfiorato per volontà  mia, con i miei zii il discorso era l’esatto opposto.
Loro non provavano tristezza o sofferenza al suono del nome di mio padre.
Loro avevano paura.
Ogni singolo poro della loro pelle straboccava ansia ed agitazione.
Ma, qualsiasi individuo sarebbe stato in grado di leggere e decifrare il terrore che si rifletteva nei loro occhi.
Non ne comprendevo la causa.
Centrava con il suo lavoro?
Centrava con qualcosa che aveva fatto?
Centrava con la sua morte?
Forse.
Ma, per il momento sapevo accontentarmi delle informazioni che erano già in mio possesso.
Tuttavia, col passare del tempo, non mi feci più bastare le risposte confuse, balbettate allo scopo di acquietare un bimbo di cinque anni.

   
 
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