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Autore: Ely79    20/09/2011    3 recensioni
Qeni e Alimad, bambini donati al Tempio della Dea. Un amore nato sotto gli occhi di una divinità. Un amore che non doveva essere.
Storia prima classificata al contest "Not strong enough - Rinunciare all'amore" indetto da visbs88.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Epilogo

1 posto cruelty

Epilogo

Neali era nascosta dietro i vetri della finestra e guardava il cortile con lo sguardo velato di lacrime. Un grande cabo dalla pelliccia grigia era legato agli anelli infissi nel muro di cinta ed intorno vi si affaccendavano Niza e Vara. La ragazza si teneva a debita distanza dalle corna dell’animale, passando le bisacce al fratello maggiore con movimenti lenti e rigidi che scatenavano la sua ilarità. Udire le sue risate la riportava a quando era solo un bambino e la guerra e l’odio non l’avevano ancora toccato. Lo rivedeva piangere per reclamare una poppata; mentre si reggeva a malapena sulle gambe paffute; comparire sulla porta coperto di fango per essere caduto nella palude; furioso mentre azzuffava con i figli dei vicini, o beatamente addormentato tra le braccia di Qeni, dopo una giornata trascorsa ad apprendere l’arte della metallurgia.
«Non voglio che parta, Qeni. Fermalo. Convincilo a restare qui con noi» singhiozzò.
Il fabbro terminò di allacciare gli spessi stivalacci da lavoro e le si avvicinò. Anche lui avrebbe preferito che Niza rimanesse con loro, ma per ragioni differenti. Temeva che l’alone di gloria di cui era stato circondato gli fosse d’intralcio nel suo servizio presso la corte, abbagliandolo ed impedendogli di distinguere gli amici dai presunti tali. Erano rischi in cui lui stesso era inciampato e da cui l’aveva messo in guardia più volte.
Posò una mano sul fianco della donna, attirandola a sé.
«Sai che non potrei farlo nemmeno se volessi. Il suo posto è al fianco del generale».
Lei sospirò voltandosi e nascondendo il viso contro il suo petto.
«Ma Niza… Niza prima deve andare al Tempio. E se… quella donna…».
Indovinava quale fosse il suo vero timore. Andare in quel luogo sacro significava, con ogni probabilità, dover incontrare nuovamente Chana Alimad. Neali l’aveva vista solo per un attimo quel giorno, ma aveva provato un’istintiva repulsione per quella donna. Poteva essere singolarmente bella e potente, essere la sola intermediaria con il volere della Dea stessa, eppure l’aveva trovata vuota e fredda, crudele. Nonostante fosse al corrente del deprecabile passato di suo marito, continuava a domandarsi come potesse la rappresentante di una divinità, che rappresentava la concordia e la comprensione, essere incapace di perdonare. Erano passati più di trent’anni da allora, come poteva serbargli rancore? Qeni aveva redento il suo peccato ogni giorno, possibile che lei non avesse compreso il proprio e fatto di tutto per purificarsi?
«Non gli farà nulla» la rassicurò.
«Come puoi esserne certo?»
«È la stessa devozione di Niza a metterlo al sicuro da qualunque capriccio della Chana. Tutti conoscono la storia del giovane che ha superato le schiere avversarie per recuperare la reliquia e che ha preferito gli tagliassero una mano per farlo precipitare dal dorso di un lag’ni in volo, piuttosto che restituirla ai profanatori. Il Borgomastro non fa che raccontarla, giù alla taverna, ed ogni volta mi pare aggiunga dettagli di cui neppure Niza era a conoscenza».
Un accenno di sorriso curvò le labbra della donna. Per quanto suo marito fosse incapace di provare sentimenti, gli riusciva di suscitarne negli altri.
«Neali, il suo gesto l’ha reso un eroe di prima grandezza. Una difesa più che sufficiente contro una tempesta di malevolenza e invidia. Lo lascerà in pace».
Dal cortile giunsero altre risate. Guardarono oltre la finestra e videro che Niza aveva fatto avvicinare Vara al cabo, che l’annusava con la lingua verdastra a penzoloni mentre Duliane si dondolava appesa al sottopancia della cavalcatura.
«Quella donna ti odia e ti odierà sempre. Non voglio che gli faccia del male per vendicarsi di te» disse, tornando a fissare il marito negli occhi.
«La Chana è venuta qui pensando di sputarmi addosso il veleno che si portava dentro, per infliggermi una punizione che non ha mai potuto mettere in atto e di cui non ha goduto i frutti. La realtà, è che in questi anni si è lasciata schiavizzare da quello stesso veleno ed ora non è più in grado di vivere senza. È diventata una serpe senza zanne: può far male solo a sé stessa».
«Ma quella donna vuole vendicarsi di te! Cosa le impedirà di accanirsi su nostro figlio? La fede non è uno scudo che protegga da una lancia!» esclamò terrorizzata.
La mano ruvida del fabbro si posò sul suo viso.
«Il suo ruolo di Chana glielo impedirà» spiegò. «Il suo operato è sotto gli occhi di tutti. Se si accanisse contro chi ha dato una così grande prova di devozione, la gente dubiterebbe di lei e del suo giudizio. E soprattutto, del fatto che la Dea la consideri ancora la sua favorita. I credenti smetterebbero di elargire fondi e doni al Tempio. Lei non può permetterselo, perché il Tempio vive di offerte. Senza contare che le sacerdotesse anziane sovrintendono al suo operato, oggi come quando era solo una ragazzina capricciosa. Confido nel loro buon senso e nelle leggi segrete che regolano la vita della Voce della Nostra Signora».
Neali si strinse a lui, quasi che il suo corpo e le parole appena dette fossero lo scoglio a cui aggrapparsi in quel mare di timori.
«Qeni… pensi sul serio che la gente vedrebbe l’ingiustizia nelle azioni di quella donna?»
«Posso solo augurarmelo. E confidare nella protezione della Dea e nel senso di responsabilità di nostro figlio» rispose accarezzandole i capelli.

***

Niza controllò il sottopancia del cabo, strattonando con forza la cinghia fino a sentire una fitta dolorosa al braccio. Si raddrizzò e, slacciata la manica, esaminò i lacci che assicuravano la protesi al polso. Faticava ad usare il guanto di metallo che suo padre aveva forgiato per nascondere la mutilazione, ma a forza d’insistere avrebbe imparato a gestirla e il dolore sarebbe diventato un ricordo. Se c’era una cosa che aveva imparato durante i mesi di battaglie, era che il dolore era un nemico che poteva essere affrontato e superato.
«Devi proprio andare?» chiese Vara, preoccupata.
Il giovane sorrise, scrollando le spalle. Gli faceva quella domanda ogni giorno da quando il messo reale aveva bussato alla porta di casa, annunciando il raduno delle truppe.
«Sei peggio di nostra madre» sorrise.
«E tu vedi di non essere peggio di nostro padre» gli rinfacciò.
Il volto di Niza si fece serio. Sapeva a cosa stava alludendo: in famiglia tutti erano a conoscenza del passato del genitore e del fardello che si portava appresso sin da ragazzo. Sua sorella condivideva i timori della madre riguardo il desiderio di rivalsa di Chana Alimad e gliene aveva parlato: la paura che cadesse in qualche tranello era palpabile.
«Perché voi due non riuscite a fidarvi di quel che vi abbiamo detto?» domandò, sentendosi offeso da quella mancanza di fiducia. «D’accordo, Vara, sono giovane e digiuno degli intrighi di corte, ma non sono uno stupido. Ho avuto buoni maestri e ottimi consigli, che voglio seguire alla lettera. Quello che nostro padre ha fatto non si ripeterà con me».
L’ottimismo del giovane luogotenente risollevò un poco il morale della sorella, che però non riusciva a rasserenarsi del tutto.
«Ti faranno andare al Tempio? Non possono andarci solo i Guardiani?»
«Ci concedono di arrivare alla statua della Dea, per tributare gli onori dovuti e porgere i nostri doni. Potremo sostare sulla piazza ai piedi del Tempio solo per il tempo necessario alla celebrazione. Nient’altro».
«Niza?» chiamò Duliane, tirandolo per il farsetto.
La piccola di casa sbucava da tutti gli angoli, quando uno meno se l’aspettava. In quel momento, per esempio, era sgusciata fra le zampe del cabo per sorprendere il fratello.
«Quando torni mi porti un regalo? Uno bello, però!» pigolò.
Lui rise, sollevandola da terra con il braccio sano.
«Ti ho mai fatto regali brutti?»
«No, perché non me li hai mai fatti» ribatté piccata.
«E va bene, ti prometto che al mio ritorno ti porterò un regalo bellissimo. Più bello ancora di quello che porterò al Tempio» rise, scompigliandole i capelli biondi.
A quelle parole, Duliane si rabbuiò.
«Perché porti un regalo alla signora che è venuta a trovarti? È stata cattiva, è andata via senza salutare nessuno e ha rotto il fiore che avevo preso per lei!» protestò mettendo il broncio.
Aveva scoperto la campanula calpestata tra le mani del padre ed aveva dato il tormento a tutti perché le spiegassero il motivo di quel gesto. Aveva cercato il fiore più bello, perché l’aveva accettato per poi gettarlo via a quel modo? Non le era piaciuto, forse? Qeni le aveva detto che la Chana si era comportata male per colpa sua, che era arrabbiata con lui e che non doveva prendersela. Duliane però non aveva creduto a quella spiegazione e, col passare dei giorni, la delusione si era trasformata in rabbia.
«Chana Alimad ha molte cose a cui pensare, Iane» le spiegò Niza, ben sapendo di mentire. «Le responsabilità possono far fare cose che non ci piacciono o non piacciono agli altri. Doveva andarsene per non litigare più con nostro padre e non deve essersi accorta di quel che ha fatto».
Dopo la venuta della sacerdotessa, aveva parlato a lungo con suo padre di ciò che poteva aspettarlo ed avevano convenuto che fosse bene muoversi con discrezione e rispetto. Non doveva darle la possibilità di recriminare ulteriormente. Nessun altro doveva pagare per l’errore di Qeni.
«Sei pronto?»
La voce della madre lo distolse dai suoi pensieri. La donna lo guardava, cercando di nascondere dietro ad un sorriso tirato l’ansia e la tristezza che l’attanagliavano.
«Sì. Mancano solo un paio di cose e potrò avviarmi» e l’abbracciò, stringendola forte.
Sentiva le sue lacrime bagnargli la guancia e vedeva quelle che Vara tratteneva a stento. Allungò la mano e fece avvicinare anche lei. Tranquillizzarle a parole sarebbe servito a poco, lo sapeva, abbracciarle era l’unica cosa che potesse dar loro un po’ di conforto fino al loro prossimo incontro.
In quel momento vide i fabbri uscire dal laboratorio. Davanti erano suo padre e Igraf, seguiti da Malves e Corvan. I due apprendisti più giovani trasportavano il dono che avrebbe portato al Tempio, in segno della propria devozione.
Con un groppo in gola per l’emozione, Niza li guardò rimuovere il drappo che l’avvolgeva. Fu una grande emozione afferrare l’elsa e sfoderare l’arma. Questa tracciò un arco nell’aria, lasciandosi dietro solo un lieve sibilo ed una scia luccicante. Tutti i presenti rimasero a bocca aperta.
«È davvero bellissima! Non ho mai vista una spada più bella!» esclamò rapito il luogotenente.
La lama di cristallo era stata lavorata in maniera tale che il filo seguisse una linea ondulata, per catturare la luce del sole e rifletterla in centinaia di minuscoli arcobaleni. La superficie della spina centrale era decorata da minuscole striature; inclinandola verso l’alto si aveva l’impressione che il metallo divenisse liquido. La parte più stupefacente era l’elsa, dove un complesso intreccio di rune e simboli, realizzati a sbalzo in filigrana, creava una protezione attorno all’impugnatura vera e propria. Minuscole gemme scintillavano nelle commessure, come stelle vive e pulsanti.
«Avete fatto un lavoro… indescrivibile! Rischiamo un’altra guerra!» rise, sinceramente colpito.
«Cosa?!» urlò terrorizzato Igraf, pentito del tanto impegno messo nella sua prima opera.
Aveva passato giorni e notti intere nella cernita del materiale, discutendo con il padre dei propri dubbi, pensando e ripensando alla sequenza delle lavorazioni, alla resa finale che desiderava ottenere. L’idea di aver prodotto un qualcosa di tanto pericoloso lo spaventava. A lui era parsa solamente molto ben riuscita, una lode di cristalli e metallo.
«È talmente bella, fratellino, che qualunque Sovrano pretenderà di muovere guerra ai servi della Dea per poterla possedere! Sempre che non vengano a cercare l’artigiano che l’ha forgiata. Allora la guerra la scatenerei io per difenderti» e aggiunse: «Hai davvero mantenuto la parola, Igraf».
Igraf arrossì un poco, colpito da quell’affermazione. Molti nella Corporazione l’avevano lodato per la sua bravura, ma le parole del fratello avevano un valore ben più alto.
«Le abbiamo dato un nome degno di lei. Questo compito spettava ancora al Maestro, ma mi ha concesso di… dare l’idea» mormorò l’apprendista, fissando orgoglioso il genitore che chiamava sempre col titolo di Maestro quando c’era di mezzo il lavoro.
«Il nome più appropriato per un’arma che dovrà ricordare a tutti come la Dea vegli su coloro che la amano e implorano il suo aiuto» spiegò Qeni.
Così dicendo rinfoderò la spada, allacciò le fibbie della custodia e gliela porse. Niza l’appese con cura alla sella del cabo.
I fratelli e le sorelle gli si strinsero intorno, facendolo barcollare mentre mormoravano saluti e auguri a mezza voce. Ciascuno pretendeva di essere il primo ad esprimere ciò che provasse nell’animo, col risultato di produrre solo un gran baccano.
Infine abbracciò il padre.
«Convincete Iane a perdonarmi, quando sarò partito. Non potrò mantenere la promessa di portarle un regalo più bello di quello che offrirò alla Dea» bisbigliò.
«Farò il possibile, ma Duliane è ancora molto piccola, dubito capirà. Chiederò a tua madre di aiutarmi».
Finalmente, Niza ritenne di aver portato a termine ogni preparativo per il viaggio.
«Con che nome la farò consacrare?» chiese, una volta issatosi in sella.
Qeni fece avvicinare Igraf, prese la sua mano e la poggiò su quella di metallo del figlio maggiore, facendo in modo che impugnassero insieme l’elsa, prima di pronunciare il nome:
«La Mano della Dea».

   
 
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