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Autore: Aleena    26/09/2011    2 recensioni
Due fazioni, diverse tra loro come il Giorno e la Notte, un'antica tregua infranta.
Due eroi.
Due mondi divisi dalla luce.
Benvenuti nelle Terre Rare.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La testa di Takrin era pesante; pulsava dolorosamente all’altezza dell’occhio sinistro, infondendole un malessere profondo, persistente. Cercò di indagarne la causa, ma la sua mente andava a rilento: un attimo era in una strada buia, un ronzio nelle orecchie, l’attimo dopo risaliva le scale della sua casa, mentre sua madre le urlava dietro di aver fallito, che era finita.
Finita? Si chiese, ma quando tentò di concentrarsi la sua mente svanì di nuovo, lasciandole nella retina impressa della nebbia perlacea.
Per un istante troppo lungo sognò di trovarsi sulla riva di una spiaggia infinita –o forse sull’orlo del deserto che circondava la Città- e che nevicasse. Solo quando si rese conto che nel Giorno non era permesso altro clima che il sole maledetto, la coscienza tornò, allontanando parte del tepore.
C’era dell’argenteo impresso sulla retina, l’assenza di colore del nubifragio del suo sogno. Ma cosa..? pensò distrattamente, aprendo gli occhi e trovandosi lo stesso bianco davanti. Per un attimo, il cuore andò a mille, mentre la jalil sbatteva le palpebre un paio di volte, timorosa di aver perso la vista.
Cos’è questo bianco? Dove sono?
Le ci vollero meno di due minuti per rendersi conto di alcuni particolari significativi: la sua infravisione attiva, per esempio, segno che doveva trovarsi al buio ed essere tornata alla sua forma originaria.
Il calore di qualcosa poggiato sulle sue gambe.
Un rumore sordo e lontano, di acqua.
Il peso di chissà cosa che le impediva di aprire completamente l’occhio sinistro.
Realizzò questi particolari accorgendosi di essere stesa su di un fianco, qualcosa di morbido sotto di se.
Come colta da una sorta di intuizione, Takrin mosse le mani verso il bianco, osservando il nero delle sua pelle stagliarsi contro quella visione lattescente, un dito affusolato toccare la vernice tiepida della parete. Sospirò piano, lasciando che le labbra si piegassero in una sorta di sorriso di scherno rivolto alla sua stessa stupidità.
«Il tuo sangue è velenoso, lo sai, ragazza?» una voce maschile, bassa e melodiosa, le congelò sorriso e movimento, mentre un fruscio di vestiti e lo scricchiolare di legno le annunciava che qualcuno si era appena alzato.
«Velenoso? È dire poco, fratellino! C’ho rimesso i miei guanti migliori, di capriolo. E pensare che li avevo appena presi ad un maledetto Reo. Trova il modo di ripagarmeli, Jalil» si lamentò un'altra voce, maschile ed aspra, e Takrin realizzò cosa le bloccasse le gambe, o meglio, chi.
Un uomo ed un elfo… per tutti gli inferi luminosi, dove sono finita?
«Levati di dosso, umano, chiunque tu sia» scattò la femmina, tentando di puntellarsi su di un braccio per guardare in faccia i suoi carcerieri.
«E’meglio che tu stia fer…» cominciò la prima voce, ma Takrin era già ricaduta indietro, il capo che le girava e la vista improvvisamente, nuovamente sfocata; una leggera nausea la prese, assieme alle prime avvisaglie di un forte mal di testa. «…ma. Hai preso una bella botta, drow.» concluse la voce ora divertita, dando in una bassa risatina soddisfatta che innervosì Takrin più di quanto già non fosse. Odiava essere derisa.
«Smettila di ridere, idiota! O giuro che il tuo prossimo respiro sarà l’ultimo.»
«Frena la lingua, vipera del sottosuolo, o finirai per mordertela da sola. Non sei nella posizione di far minacce.» rispose l’elfo, sempre tenendo quel tono melodioso ed ironico. Ci fu uno scatto, come di uno sportellino che venisse sollevato, indi l’elfo le si avvicinò un poco e Takrin dovette socchiudere gli occhi, accecata dalla luce della lanterna che il maschio le accostò al volto. Dopo tutti quegli anni, ancora mal sopportava le fonti di luce.
«Levami quella roba di dosso e fatti vedere, codardo d’un elfo. E tu togliti dalle mie gambe» sibilò Takrin con quel suo tono misto di alterigia e comando, mentre la mano scendeva al collo, le dita che frugavano fra la stoffa delle coperte ed i suoi argentei capelli in cerca del ciondolo d’onice nero.  Non lo trovò, e questo anche par divertire l’elfo, che le si avvicinò, andandole a sfiorare una guancia con il pollice.
«Non mi toccare! Non osare mai più toccarmi con quelle tue… sudicie… indegne dita, maledetto!» urlò Takrin, perdendo il controllo. Era troppo, e non poteva sopportarlo. Socchiuse gli occhi dando uno strattone per voltarsi, ottenendo solo un aumento della stretta agli arti inferiori; a quanto pareva, il suo rapitore umano si era messo più comodo, spostando tutto il peso sulle gambe sottili dell’Arcimaga. Takrin riuscì comunque a voltare il busto e, socchiudendo gli occhi, a mettere a fuoco il volto divertito di un elfo biondissimo, che agitava una mano nell’aria, come se si fosse scottato.
«Vi fanno con lo stampo a voi elfi? Biondi e sottili, uno identico all’altro. Una razza di femminei idioti» commentò acida Takrin cercando con un respiro di trovare la calma, il corpo incendiato dall’ira; aveva il fiato corto, e questo pure l’innervosiva: odiava perdere il controllo, la trovava una debolezza.
«Il ragnetto vuole mordere?» domandò l’elfo, ma fu l’uomo a rispondere.
«Ti abbiamo salvato la pelle, ragazzina. A quest’ora potevi essere nel letto di chissà quale Reo, costretta al suo piacere. O morta. Dovresti esserci grata»
«I Drow sono lascivi di natura, e le Drow femmine ne fanno un vanto. Fidati Siryo, le sarebbe piaciuto starsene nel letto di quel nano»
«Non…» cominciò l’uomo, ma un gesto imperioso della femmina gli fece morire le parole in gola; nuovamente la voce della jalil si sollevò, alta, non badando ella minimamente al fatto d’interromperlo.
«Spiegatevi, dannazione! Di che parlate? Quali Rei, che nani! Cosa andate farneticando? Spiegatevi, per gli Dei caduti!» il tono di Takrin era a metà fra il comando e la supponenza, la sua rabbia così forte da accenderle le iridi di un rosso più intenso. La femmina strinse i denti, guardando con odio l’elfo che le era dinnanzi, ogni tentativo d’autocontrollo gettato al vento.
«Non urlare, bimba. Nostro padre ti spiegherà ogni cosa fra poco. Noi siamo solo le tue guardie» i toni dell’uomo erano calmi, rilassati; non pareva sconvolto dall’ira sorda che pulsava sulla pelle di Takrin e nella sua voce, limitandosi a far scattare il meccanismo di qualcosa.
«Non darmi ordini! Non osare! Non sai chi sono, cosa potrei farti! Se voles…» cominciò la jalil, ma una fitta la bloccò, congelandole le parole in gola.
Troppa rabbia, poco controllo. Sei un’Arcimaga, per gli Dei caduti! Pensò la femmina, ma non era suo costume seguire i consigli, nemmeno quelli ragionevoli.
Takrin inspirò a fondo nel tentativo di fermare il vorticare della stanza.
«Non troverai un momento migliore, fratellino.» l’elfo si era avvicinato nuovamente alla jalil quasi priva di sensi e le aveva poggiato una mano sulla fronte e sul collo, come per assicurarsi che nonostante il colpo fosse ancora viva, sebbene sotto le palpebre socchiuse gli occhi le si muovessero ancora, pigri e quasi privi di luce.
« No, credo di no. Eppure avrei preferito evitare…» cominciò l’uomo, ma venne bloccato con uno sbuffo d’impazienza dall’elfo.
«Le avevo detto di non muoversi. La colpa è sua, o meglio, della boria e della stupidità della sua razza. Comunque, o adesso o dovrò stordirla come si deve, e sai che non mi dispiacerebbe farlo. Non collaborerà, Siryo. Non con noi, almeno»
«Sia. Dammi una mano, Edhel.»


 
« Rigel» si presentò l’uomo, allungandole una mano callosa con fare pratico e sbrigativo.
Takrin l’aveva squadrato, osservandone una creatura in là con gli anni ma dall’aspetto forte, di chi abbia lavorato per una vita intera. Aveva tratti semplici e modellati, come se il vento salmastro che sbatteva contro le imposte glieli avesse levigati e scolpiti nel corso degli anni; i corti capelli scompigliati, più bianchi che fulvi ormai, davano ancor più l’impressione che l’umano fosse appena uscito da una tempesta. Muscoli pronunciati regalavano un’idea del vigore fisico che, nonostante l’aspetto, l’umano doveva ancora possedere; aveva addosso l’odore della salsedine ma, rifletté Takrin, poteva essere solo quel posto ad esserne impregnato, od i suoi abiti, sui quali aloni bianchi si aprivano.
«Takrin» rispose la jalil, e poi «Cryso» aggiunse, sollevando il mento in un gesto di contengo sdegnoso, a sottolineare il fatto che lei potesse vantare un cognome. Qualunque segno di superiorità pareva essere un valido appiglio per la femmina.
«Takrin, bene» riprese l’uomo Rigel, ritirando la mano quasi distrattamente e mettendosi a passeggiare per la stanza, un piccolo studio ingombro di carte, con un camino sulla sinistra, un piccolo salotto composto da tre divanetti, un tavolo basso nel mezzo ed una scrivania sull’unico angolo libero della stanza, vicina alle finestre. Nonostante lo scarso mobilio la stanza, illuminata solo dalla luce del fuoco, era piuttosto ingombra, claustrofobica. «Sarai affamata. Serviti pure» riprese Rigel, indicando distrattamente un piatto pieno di quelli che sembravano piccoli pesci arrostiti, che l’uomo aveva tolto dalla griglia poco dopo l’ingresso della femmina.
Takrin osservò il cibo, vagamente nauseata –la stanza non aveva ancora smesso di tremarle intorno, di tanto in tanto; nonostante tutto, il suo stomaco fece un borbottio lieve. Takrin non si mosse, riflettendo.
Era stata portata nella stanza quasi di peso dai tirapiedi –no, dai figli!- di Rigel, che ora la guardavano con aria di sfida dai lati del padre. A quanto pareva, l’elfo doveva averla colpita nuovamente con l’impugnatura dell’arma di metallo che ora teneva riposta alla cintura: una pistola dall’aspetto usurato, con una lunga canna.
Takrin non sapeva riconoscere quell’arma, sebbene ne avesse sentito parlare più d’una volta durante la sua vita; non ne aveva mai viste, eppure una sorta di primitivo istinto di autoconservazione le diceva di evitarla.
«Mi spiace che sia stato necessario stordirvi per condurvi qui, Takrin» esordì l’uomo più anziano, prendendo un pesce dal piatto e masticandolo con calma prima di riprendere «Non vi offenderete se vi chiamo per nome, spero. È molto più pratico da queste parti. Capirete.» Rigel aveva occhi neri attenti, e nella voce la decisione di chi sia abituato a dar ordini e vederli eseguiti.
«Queste parti, dite? Dove siamo?»
«Nella Notte. Ma non risponde alle vostre domande, immagino.» il vecchio umano annuì, senza attendere la risposta della femmina; aveva preso a camminare lentamente per la stanza «Ebbene, siete stata sorpresa a violare il Vostro» e sottolineò delicatamente la parola con un mezzo sorriso, del tutto indecifrabile «coprifuoco. Come stabilito dalle Leggi Naturali successive allo Scisma, siete stata contesa e prelevata e, fra poco, sarete arruolata. Servizio a vita, senza riscatto alcuno. Comprendete?» concluse, contemporaneamente fermando voce e passo davanti al camino.
«No. Né mi interessa: il mio ciondolo! Dov’è? Ridatemelo immediatamente»
«Non sei nella posizione di dare ordini, ragazzina, pensavo che l’avessi capito» rispose brusco il giovane umano.
«Il tuo Catalizzatore l’abbiamo noi, maga. Si, sappiamo cosa sei» fece l’elfo, piegando ancora le labbra ad un sorriso a metà fra il canzonatorio e il furbesco alla vista dell’espressione in parte sorpresa in parte scocciata della jallil «e per fortuna non hai magia innata, o adesso te ne staresti legata ed imbavagliata, troppo intontita dalle erbe perfino per capire chi sei»
«Sai chi sono…» cominciò Takrin, ma venne nuovamente interrotta dall’elda.
«Ci credi degli stupidi, ragazzina? Sono sopravvissuti tomi e memorie, perfino qualche testimone, dallo Scisma. E per difendersi occorre conoscere il proprio nemico. Cosa che voi Attinidi sembrate ignorare, giacché non sai chi o cosa siamo.»
«Provi per caso una sorta di piacere sadico ad interrompermi, elfo? Se hai tanta voglia di ciarlare a vuoto, allora concentrati, se ci riesci, e dimmi: Chi sei? Chi siete! E dove sono?»
«La ragazza ha ragione, Edhel. Taci e lasciaci. Anche tu, Siryo. Ho intenzione di parlarle da solo» ordinò Rigel, prelevando un ferro dal lato del camino ed usandolo per muovere le braci, per poi lasciarvelo a contatto. Solo allora si voltò ad incrociare lo sguardo dell’elfo.
«Come preferisci, padre.» rispose Edhel, sottomettendosi suo malgrado. Erano quasi usciti, l’uomo giovane e l’elfo, che Takrin rise piano, senza divertimento.
«I membri della tua razza si rivelano gli stupidi che sono sempre stati, elfo! Prendere ordini da un vecchio umano… patetico! Ricorda le mie parole, rimpiangerai quello che mi stai facendo, ogni cosa. Tu, lui, tutti voi» sussurrò Takrin, ma nella sua lingua natia, cavernosa e sibilante. A giudicare dall’espressione, l’elfo aveva compreso, ma non ribatté.
«Non è cortese parlare in lingue che non possono essere comprese da tutti, ma immagino che il tatto non sia per nulla presente nel vostro sangue. Siete arrogante, ragazza, per essere qualcuno che ha appena perso tutto. E, con franchezza, lasciatevi dire che è da sciocchi lanciare minacce quando si è in una posizione precaria come la vostra»
Takrin non rispose, né Rigel parve aspettarsi che lei ribattesse: si era infatti voltato verso la finestra, intento ad osservare un chiarore lontano, come immerso in una qualche sorta di pensiero, o forse semplicemente nel rumore della risacca, più forte adesso nonostante la tempesta della notte si fosse placata da almeno un’ora. Rimase assorto per quasi cinque minuti buoni, quindi si volse verso la ragazza, uno sguardo serio e privo di comprensione nel volto.
«Ora, lasciate che vi risponda. Chi siamo, avete chiesto. Bene, è un’informazione che saprete a tempo debito. Conoscete i nostri nomi, e tanto vi basti al momento; fra poco sarete informata nello specifico e quando questo accadrà, comportamenti come quello di qualche istante fa non vi saranno più scusati. Non ammetto questo genere di… bhe, capirete, ragazza. Dovrete. Per quanto concerne il dove, sappiate che siete sulla costa, negli alloggi adiacenti il Porto» concluse, rimanendo con lo sguardo fisso in quello della jalil.
Takrin era allo stremo, visibilmente provata e tesa allo spasmo, con la testa che le mandava fitte dalla tempia alla base della nuca; non avrebbe altrimenti lasciato correre quello sguardo. Era vietato a qualunque maschio incrociare gli occhi di una jalil, soprattutto se nobile come lo era Takrin e, sebbene lei concedesse ai suoi maestri i privilegio di non essere redarguiti –o peggio, attaccati- in tempi più felici non avrebbe mai permesso ad un umano a lei inferiore di incrociarle lo sguardo.
«Questa è una delle nostre basi, all’interno della quale potrete fra poco muovervi con liberà. Vedete, ragazza, sebbene per le leggi voi siate già una Lantanide, agli occhi di Attinidi, Rei e Puri siete ancora -passatemi il termine- immacolata. Il cambiamento…»
«Cambiare?» la testa di Takrin vorticava; confusa, la jalil si voltò, come cercando una spiegazione razionale. Poi «No! Non sarò mai una Lantanide» urlò, comprendendo infine quello che il vecchio umano le diceva, o forse tentando solo di accettarlo «Devo diventare una dei Grandi, sono stata scelta» spiegò, col tono di chi parli ad un ritardato.
«Dovete diventare una Neutra, ragazza»
«Ma lo sono, nel Giorno. Sono Arcimaga, e sarò…»
«Una Neutra, arruolata nella ciurma della Notte» il tono era deciso, perentorio: l’umano non ammetteva repliche o dubbi. «ma ora…. L’alba si avvicina, ragazza, e c’è bisogno delle tenebre perché sia vero»
«Vero cosa?» domandò Takrin, ma Rigel le aveva già voltato le spalle, incamminandosi verso l’uscio, al quale batté due colpi veloci.
L’elfo e l’uomo rientrarono silenziosamente, e ad un cenno di Rigel si disposero ai due lati di Takrin, che tentò una ribellione, troppo fiacca –troppe emozioni e troppe ferite la rendevano debole, e lei odiava esserlo.
«Ogni Lantanide porta su di sé il segno della sua scelta, che questa sia volontaria o meno. Rallegratevi ragazza, fra poco sarete una di noi.» disse Rigel con solennità, afferrando il lungo arnese di metallo dalle braci ormai morenti del caminetto.
L’uomo chiamato Siryo afferrò il collo della veste dell’Arcimaga, tirando con forza tale che questa, già provata, si lacerò, scoprendole parte del petto fino al seno sinistro. Così esposta la pelle di Takrin fremeva, conscia che il rovente arnese nelle mani di Rigel stava per toccarla.
Uno scintillio rosso, la fugace immagine di una U allungata incrociata con una V rovesciata, il dibattersi, il terrore.
L’ultima cosa che Takrin ricordò fu il dolore, lancinante ed immenso, ed il timore che quel ferro le si facesse strada fin nella pelle, nelle ossa, bruciandola interamente. Poi la sua mente cedette, e fu solo la pace illusoria di un oblio senza dolore. 
  
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