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Autore: Dk86    27/09/2011    6 recensioni
“Sappiamo tutti perché siamo qui, no?”.
A quelle parole seguì un lungo silenzio.[...] Solo Kurt scattò in piedi a sua volta, una luce spiritata negli occhi. “Lycra!”, esclamò.
Altro imbarazzante momento di silenzio. “Che?”, domandò Finn, la fronte corrugata.
“Mi servirà della lycra. Tanta lycra. Ho già delle idee meravigliose per i costumi, e…”, rispose Kurt, prima di essere interrotto da Puck.
“Ehi, frena! La lycra è da gay!”, esclamò. “Io voglio qualcosa di molto più cazzuto, una cosa alla Ghost Rider!”.
“Certo, Puckerman, perché pelle nera e borchie non sono
per niente omosessuali…”, rispose Kurt con un ghigno.
“No, no, sentite!”, intervenne di nuovo Finn. “Non è questo il punto! Insomma, possibile che nessuno qui pensi che quello che ci è successo sia totalmente assurdo?”.
Puck fissò l’amico. “Certo che lo penso… Mi hai preso per uno stupido? Ma per quanto possa sembrare assurdo, è quello che ci è successo: quel fumo tossico di ieri ci ha dato dei superpoteri, bello”.

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WhatIf/AU ambientata dopo l'episodio 2x20. Come se la vita delle Nuove Direzioni non fosse già abbastanza bizzarra...
Genere: Azione, Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO SETTIMO – DIFFERENTIA



Nonostante mancasse ormai poco più di una settimana alla data prevista per la partenza per le nazionali, quel martedì pomeriggio le Nuove Direzioni non si riunirono per provare tutti insieme: la missione “convinci Rachel che può ancora cantare” aveva priorità su tutto. La cosa, ovviamente, ebbe svariate, interessanti conseguenze…


“Non verrà, me lo sento”, stava piagnucolando Rachel. “Kurt mi ha abbandonato, come tutti gli altri… e d’altronde perché dovrebbe aiutarmi a controllare il mio potere? Con me fuori dai giochi, i suoi assoli aumenteranno esponenzialmente…”.
“Oh, ma fammi il favore!”, sbottò Mercedes. Le due ragazze si erano rifugiate nell’aula di spagnolo altrimenti deserta. “Guarda che lui non è…”.
“Me?”, la interruppe Rachel. “Nel senso che stai pensando che io non vi aiuterei, se voi foste nella mia posizione?”.
“Stavo per dire ‘così meschino’, ma se vuoi usare te stessa come metro di paragone, accomodati”, la rimbeccò l’altra. “In ogni caso, la situazione non è il massimo neanche per me, sai? Dato che posso sentire ciò che provi in questo momento, non sono certo la persona più felice della Terra”.
Rachel si raggomitolò sulla sedia, le gambe raccolte al petto e la faccia appoggiata contro le ginocchia. “Mi dispiace che il mio profondo tormento interiore per te sia solo un fastidio… Se vuoi sei liberissima di andartene anche tu”, si lamentò nel tono più patetico possibile.
Spero che Kurt si dia una mossa, pensò Mercedes. Ancora cinque minuti da sola con Rachel e non riuscirò a trattenermi dallo staccarle la testa…


Kurt era sì in ritardo, ma quantomeno non soltanto per colpa sua: mentre stava raggiungendo l’aula di spagnolo, percorrendo i corridoi semi-deserti del McKinley con passo rilassato e nessun pensiero in testa, aveva svoltato un angolo e – come da più bieco cliché da commedia scolastica – era andato a sbattere contro qualcuno.
Quel qualcuno era Dave Karofsky.
Il ragazzo fissò Kurt con aria sgomenta, come se fosse appena stato testimone di un atterraggio alieno. “Oh”, disse poi. “Sei… tu”.
“Già”, ribatté Kurt. “Sono io. Perché, chi pensavi di poter incontrare, Glinda la Strega Buona del Nord?”. Sul volto di Karofsky la confusione fu così palese che sembrava che un enorme punto interrogativo gli avesse sostituito i connotati. “Ah, ma con chi credevo di parlare? E’ ovvio che tu non abbia mai visto Wicked, men che meno Il mago di Oz”.
Karofsky assunse un’aria quasi colpevole. “N-no, quello l’ho visto. Una volta, quando ero piccolo. Mi stava simpatico l’uomo di latta…”.
Il ragazzo iniziò a gettare occhiate nervose intorno a sé, cosa che ovviamente non sfuggì a Kurt. “David, non preoccuparti, nessuno ti sta spiando per vedere con chi parli. Inoltre siamo pur sempre il Re e la Regina del ballo, anche se secondo il regolamento sono abbastanza sicuro che tu abbia abdicato al tuo titolo quando ti sei rifiutato di ballare… E se qualcuno dovesse interrogarci in stanze separate, sosterrò la tesi secondo cui mi stavi soltanto facendo da scorta per proteggermi dai bulli invisibili nascosti negli armadietti e pronti a gridare ‘checca’ al mio passaggio”.
Kurt aveva premuto sul pedale del sarcasmo giusto perché sperava di suscitare l’ennesima reazione irata nell’altro: a quelle, ormai, ci aveva fatto il callo. Ciò che però non si aspettava era che Karofsky abbassasse lo sguardo sul pavimento e borbottasse: “N-non è divertente”, in tono quasi imbarazzato. “E poi non ho indosso la mia uniforme”, aggiunse dopo qualche secondo.
“Oh, andiamo, non sei Clark Kent… La gente non ti scambierà per qualcun altro anche se non indossi quel baschetto rosso di pessimo gusto”. Kurt attese la replica dell’interlocutore, che però non sembrava voler arrivare. “Senti, mi ha fatto piacere parlare con te, ma ora devo proprio…”.
“A-aspetta!”, lo interruppe Karofsky. “C-c’è qualcosa che devo dirti”.
L’unica occasione nella quale Kurt aveva visto l’ex re dei bulli del McKinley comportarsi in modo tanto impacciato era stato il giorno precedente al ballo; coincidentalmente, era stata anche la sola volta in cui gli fosse sembrato davvero sincero. “Va bene”, disse perciò. “Ti ascolto”.
“Volevo… Volevo chiederti scusa, ecco. Per la storia del ballo, dico. Visto che da allora non ci siamo più visti…”. David sembrava trovare il pavimento del corridoio parecchio interessante, visto che non pareva intenzionato a staccare gli occhi da lì.
Kurt rimase ancora in attesa, ma Karofsky evidentemente non doveva aggiungere altro. “Ok, David, ora forse sarò io a passare per lo stronzo della situazione, ma direi che le scuse me le avresti dovute fare in qualsiasi caso. Voglio dire, mi hai abbandonato in mezzo a quella pista da ballo sotto gli occhi di tutti, e…”.
“Lo so, ma…”.
“Aspetta, fammi finire. Mi hai abbandonato davanti a tutti, e in un certo senso capisco perché tu l’abbia fatto. Insomma, devi mantenere la tua ‘reputazione’”, e Kurt fece perfino il gesto delle virgolette con indici e medi. “Ma saresti potuto benissimo venire a chiedermi scusa in qualsiasi momento dopo il ballo, invece di aspettare che ci scontrassimo per caso in corridoio. C’è altro che devi dirmi oppure posso andare?”.
Durante il discorso di Kurt, tutto ciò che Karofsky fu in grado di fare fu fissarlo, la bocca semi-aperta come se stesse per dire qualcosa ma non riuscisse a trovare le parole giuste. “Fai come se non abbia detto nulla, ok?”, borbottò alla fine.
“Quindi devo fare finta che tu non mi abbia chiesto scusa, insomma?”, lo punzecchiò Kurt.
Karofsky scosse la testa. “Lasciamo… lasciamo perdere”. Il ragazzo si voltò e ricominciò a camminare a passo lento nella direzione da cui era venuto.
Kurt, mentre fissava la schiena dell’ormai ex-aguzzino, sentì il senso di colpa farglisi largo nel petto con la foga confusa di un ubriaco nel bel mezzo di una festa. In effetti sono stato uno stronzo colossale…, si disse. Forse voleva davvero dirmi qualcosa.
Non appena Kurt si era reso conto che il potere che gli era toccato in sorte era la telepatia, aveva altresì realizzato che quella capacità poteva rivelarsi un’arma a doppio taglio: lui stesso si era preoccupato per anni di quello che le gli altri potevano pensare nei suoi confronti, e era conscio di come i pensieri fossero una parte di sé che le persone più temevano di vedersi sottrarre o di condividere apertamente. Perciò aveva messo in chiaro con il resto del gruppo – mentre si stavano recando in ospedale per fare visita al professor Schuester – che non avrebbe mai letto le loro menti a meno di non avere il loro preventivo permesso e solo se la cosa fosse stata strettamente necessaria. Di certo non voleva che i suoi amici temessero che lui potesse scoprire i loro segreti e iniziassero a evitarlo.
Karofsky, d’altro canto, non aveva alcuna idea del fatto che fosse un telepate. Ciò che non sa di certo non può nuocergli, no?, pensò Kurt, mentre chiudeva gli occhi e si concentrava sul ragazzo e cercava di entrare nella sua testa. Con sua grande sorpresa, si ritrovò di fronte a un muro: era alto fin dove lo sguardo poteva arrivare, di solidi mattoni rossi, e soprattutto senza nessuna apertura visibile. Merda, e adesso come faccio?, si domandò Kurt. Aveva l’impressione di sentire la voce di Karofsky dall’altra parte, ma tutto ciò che arrivava al suo orecchio erano confusi e spezzettati bisbigli. Ha davvero ancora così tanta paura che qualcuno possa scoprire il suo segreto? Vi appoggiò contro una mano fatta di puro pensiero per saggiarne la resistenza, e lo sentì vibrare, come se più che un muro fosse il fondale per uno spettacolo teatrale. Nel mondo all’interno della mente di Karofsky, Kurt fece tanto d’occhi. Vediamo se è davvero così fragile, si disse, mentre aumentava di nuovo la pressione sui mattoni.
La muraglia si sbriciolò e crollò, come un castello di sabbia. Nel precipitare, i pezzi si sfaldavano in una polvere leggerissima e si disperdevano nell’aria, come se non fossero mai esistiti; Kurt, nel vederli scomparire, avrebbe giurato di sentire un rumore come di bolle che scoppiettavano, e un lungo, liquido sospiro di sollievo. Dall’altro lato, si levò un grido talmente intenso e disperato che Kurt – l’avesse sentito con le orecchie del corpo invece che con quelle della mente – ne sarebbe di sicuro rimasto assordato.


VOGLIO SOLTANTO ESSERE TUO AMICO


“Anch’io voglio essere tuo amico, David”, disse Kurt, di nuovo nel corridoio del McKinley. “Comunque siano andate le cose fra di noi, e nonostante ciò che tu mi hai fatto passare… Penso che non ci sia nessuno, a questo mondo, che non meriti di avere degli amici”.
Karofsky si bloccò all’istante e si voltò con lentezza, sul volto un’espressione indecifrabile; poi si lanciò verso Kurt a passo rapidissimo, tanto che il ragazzo temette che l’altro volesse picchiarlo o – peggio – baciarlo un’altra volta. Ciò che avvenne fu invece l’ultima cosa che si sarebbe aspettato: Karofsky lo abbracciò. Fu un gesto goffo, rapido e tutto sommato bizzarro, ma Kurt percepì la sincerità dell’atto anche senza leggere la mente dell’altro. “Grazie”, mormorò Karofsky, e non ci fu bisogno di aggiungere altro.
“Potremmo andarci a prendere un caffè, un giorno di questi”, suggerì Kurt quando l’abbraccio venne sciolto. “Ma se il pensiero di uscire da solo con me ti disturba, posso invitare anche Blaine. Anche se in effetti potresti vedere la cosa come un’uscita a tre, che dal tuo punto di vista immagino sia pure peggio…”. E Kurt se ne uscì con una risatina nervosa.
Karofsky abbassò di nuovo lo sguardo. “I-io… Prometto che ci penserò”, disse. “Ma prima ci sono delle cose… uhm, su cui devo riflettere, ecco”.
Kurt annuì. “Non ho certo intenzione di metterti fretta. Però, quando avrai deciso se accettare o meno, non aspettare di nuovo di scontrarti con me in corridoio per dirmelo, ok?”.
“D’accordo”. Karofsky lanciò un’occhiata intorno a sé, come se stesse aspettando l’arrivo di qualcuno. “Ora… ehm, meglio che vada. Ci vediamo… Kurt”. E senza aggiungere altro, si incamminò lungo il corridoio a passo svelto.
Chi l’avrebbe mai detto che avrei sentito la voce di Karofsky pronunciare il mio nome senza che nella stessa frase ci fosse un insulto o una minaccia di morte?, si disse Kurt in tono quasi compiaciuto; poi si riscosse. Oh, cavolo, sono in ritardo! Mercedes vorrà la mia testa su un vassoio…


“Stavo pensando a una cosa, Puckerman”. Lauren e Puck erano seduti ai piedi della scalinata nel cortile interno del liceo. Soffiava una leggera brezza, l’ombra garantiva una rilassante frescura e il ragazzo aveva tentato di toccare le tette della fidanzata per tre volte negli ultimi dieci minuti; poi aveva smesso, quantomeno perché lei aveva minacciato di provare su di lui l’ultima mossa imparata al corso serale di lotta greco-romana.
“Sono tutt’orecchi, bambolona”, mormorò lui in tono sornione. Le parole di Lauren, però, lo colpirono molto di più di quando avrebbe fatto essere atterrato da lei.
“Più ci penso, più mi rendo conto che il tuo potere è davvero inutile”.
Puck scattò in piedi, e dovette trattenersi con tutto se stesso per non sollevarsi da testa, anche solo di pochi centimetri. “Rimangiati subito quello che hai detto”, disse con un ringhio rabbioso.
Lauren fece tanto d’occhi: erano passati anni da che qualcuno le si fosse rivolto con tanta furia e fosse sopravvissuto per raccontarlo (se si escludeva Sue Sylvester dal conteggio, ovviamente), quindi quasi non ci era più abituata. “Ehi, non c’è bisogno di scaldarsi così! E comunque non avevo ancora finito”. E la ragazza incrociò le braccia, esibendo una delle sue famose smorfie stizzite; le ci volle qualche secondo prima di realizzare che l’altro era davvero furibondo. E – per quanto strano possa sembrare – questa volta fu lei a cedere. “Dai, Puckerman, vieni di nuovo a sederti qui”, disse, battendo la mano sul gradino di cemento. “Scusami, non avrei dovuto dire quello che ho detto”.
Fu forse l’eccezionalità dell’evento (negli ultimi mesi l’unica persona con la quale Lauren si era scusata era stata Quinn, ed era prontissima ad ammettere di essersi comportata da vera bastarda, in quel caso) a convincere Puck a scendere a più miti consigli: il ragazzo si sedette, ma il suo sguardo era ancora torvo e corrucciato. “Scuse accettate”, disse comunque. “Ma davvero, Lauren, se pensi una cosa simile, la prossima volta tienitela per te”.
Sulla coppia calò un silenzio teso e imbarazzato. “E comunque, sentiamo, perché sarebbe inutile?”, sbottò Puck alla fine.
Lauren si schiarì la voce. “Beh, prendi Superman, per dire: certo, lui può volare, ed è il suo potere più famoso… Però ha anche la superforza, e la supervelocità, e se non mi ricordo male anche la vista laser o qualcosa del genere. E lo stesso vale per tutti quelli che nei fumetti possono volare… Quindi magari sarà così anche per te, Puckerman. Magari il volo non è il tuo vero potere”. Non che la ragazza fosse convinta di quello che aveva detto, ma si sentiva in colpa per l’accaduto e quantomeno sperava che il fidanzato potesse smetterla di tenerle il broncio. Non era davvero abituata a relazionarsi con una persona arrabbiata con lei, visto che di norma accadeva l’esatto contrario.
Puck alzò gli occhi verso il cielo: era terso e senza la più piccola nuvola, di un azzurro così cristallino da essere quasi accecante. Eppure il ragazzo non distolse lo sguardo; le sue labbra si stirarono in un leggero sorriso, giusto un po’ imbarazzato, e quando parlò, nella sua voce non c’era più alcuna traccia d’ira. “Quando ero bambino, sai, una delle cose che mi piaceva di più fare era guardare il volo degli uccelli dalla finestra del soggiorno. Pensavo che sarebbe stato bello poter fare la stessa cosa e arrivare fino al cielo… e magari da lassù avrei potuto vedere mio padre, dovunque fosse andato, e convincerlo a tornare a casa”, sospirò, e per un attimo a Lauren parve proprio di vederlo, un piccolo Noah Puckerman affacciato alla finestra a guardare le evoluzioni aeree di passeri e rondini con gli occhi sgranati dalla meraviglia. “Poi capii che comunque fossero andate le cose, mio padre non sarebbe mai più tornato; ma non ho mai smesso di guardare il cielo”. Puck si voltò verso Lauren. “Hai mai sognato di poter volare? E mentre lo fai ti chiedi come mai non ci hai provato prima, visto che è così dannatamente facile, eppure poi quando ti risvegli ti sei dimenticata come si fa?”. La ragazza annuì. “Ecco, io mi sento come se fossi l’unico che invece è riuscito a ricordarselo. Sono la sola persona sulla faccia della Terra che è in grado di volare, e per te questo potrà sembrare inutile… ma io penso che questa sia la cosa più meravigliosa che mi sia mai capitata”.
Lauren lo fissò, colpita. “No, credo… credo di capire cosa intendi”. La ragazza si chinò verso Puck e gli diede un bacio sulla guancia. “E finalmente credo di sapere anche che cosa io abbia visto in te, oltre all’aspetto fisico. All’inizio pensavo che fossi un concentrato di idiozia e maschilismo, ma poi… Ho capito che quando sono con te, posso anche tirare fuori il mio lato tenero”. Sorrise. “Ma non dire a nessuno che ho ammesso di avere un lato tenero o ti faccio saltare qualche costola”.
Puck la ricambiò con un ghigno. “Questo vuol dire che in cambio posso toccarti le tette?”.
Lei alzò le spalle, ma non perse l’espressione divertita. “Vedremo, Puckerman, vedremo…”.







Ed ecco finalmente il settimo capitolo! Che poi, perché dico “finalmente”? Sono io che dovrei darmi una mossa, piuttosto!XD
Comunque, la terza stagione intanto è iniziata, e – anche se mi è piaciuta – ci sono delle cose che mi hanno fatto storcere il naso: nello specifico, il fatto che Karofsky sia praticamente considerabile come
desaparecido e che Lauren abbia mollato in un solo colpo Puck e le Nuove Direzioni per una scusa cretina e che non sta in piedi (e ovviamente il personaggio non ne ha nessuna colpa, me la piglio con gli scrittori… per fortuna che mi hanno rassicurato quantomeno sul fatto che Lauren avrà un ruolo importante nella storyline di Kurt, e la cosa non può che farmi piacere! Soprattutto considerando che nella vita reale Ashley Fink e Chris Colfer sono tipo migliori amici).
Quindi questo capitolo calza a pennello, visto che le scene principali sono proprio dedicate ai personaggi di cui ho parlato qui sopra.XD
Vediamo… Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Credo che sia un po’ meglio del precedente, personalmente… Beh, fatemi sapere le vostre opinioni!
Intanto ringrazio SilGleek94, LaTuM, valigleek, zdraveipetrova e _lily_luna_ che commentano sempre e non mi tradiscono mai! Grazie mille!*_* E ovviamente un grazie va anche a tutti coloro che seguono la storia, spero un giorno di conoscere le vostre opinioni a riguardo!^^
Non mi resta altro da dire se non darvi appuntamento al prossimo capitolo, che si intitolerà “Vivid”! Vi aspetto!
Davide

  
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