Συναισθηματική
Καταιγίδα
‘Violento
come
una tempesta estiva’ era un assioma abbastanza diffuso.
Poche
cose
avevano la brutalità di quelle rare, e brevi, ore in cui il
cielo perdeva ogni
colore e ogni suono era coperto dal frastuono del vento e dal fragore
dei
tuoni.
Eppure
c’era
qualcosa di stranamente voluttuoso nella forza dispiegata della natura,
come se
improvvisamente tutta la violenza accumulata in mesi di calma piatta si
fosse
riversata fuori in poche ore, non lasciando niente dietro di
sé.
Era
una di
quelle notti in cui si poteva o nascondere la testa sotto il cuscino,
in preda
ad un impotente terrore, o semplicemente andare alla finestra e
osservare
insonni quel terrificante ed affascinante spettacolo.
Invece,
la
figura in quella stanza immersa nel buio stava semplicemente dormendo.
I lampi
occasionalmente illuminavano le occhiaie scure che circondavano i suoi
occhi o
le pieghe amare attorno alle labbra, ma il grido del vento e lo
strepitio dei
tuoni non lo sfioravano nemmeno, racchiusi al di fuori delle finestre
sigillate.
La
figura si
rigirò inquieta nel letto, gemendo appena, quando i vetri si
aprirono di scatto
facendo entrare la furia della natura anche in quella bolla silenziosa,
scuotendo i tendaggi del letto, trasformando le carte sullo scrittoio
in un
mulinello informe.
Due
scintillanti occhi chiari si spalancarono.
«Lo
sai? Hai
un’aria singolarmente innocente quando dormi.»
Con
la mente
ancora ottenebrata dal sonno interrotto, la figura agì
d’istinto muovendo il
braccio destro in un ampio semicerchio.
Dalla
bacchetta
stretta nel pugno partì una luce bianca in direzione della
voce, che scoppiò a
ridere. «Albus, Albus, Albus, un solo giorno e già
provi ad uccidermi?»
L’ululato
del
vento venne chiuso nuovamente fuori.
Un
nuovo
movimento della bacchetta, e una luce tenue e diffusa
illuminò la stanza.
Stravaccato
sulla poltrona nell’angolo con l’aria di essere
sempre stato lì, una gamba
piegata sul bracciolo e un gomito poggiato al ginocchio per sorreggere
la
testa, stava un sorridente ragazzo di sedici-diciassette anni dagli
occhi tanto
scuri da sembrare neri, i capelli di un biondo dorato che pareva
assorbire la
luce dell’incantesimo.
«Gellert!»
esclamò Albus tirandosi a sedere. «Cosa stai
facendo qui, nel nome di Merlino?»
«Mi
annoiavo disperatamente»
rispose lui tranquillamente alzando la testa. «Mi hai
trascurato tutto il
giorno e fra la zia Batty che continuava a chiedermi “Quando
arriva Albus?” e
uno stramaledetto viavai di postini babbani e vecchi rinsecchiti venuti
per un
tè ho seriamente creduto di impazzire per la noia.»
Con
un sorriso
di scuse, Albus spiegò: «Ariana ha avuto uno dei
suoi attacchi, oggi. Ha
praticamente spedito un pentolone d’acqua bollente addosso a
Abeforth e poi…
poi deve aver in qualche modo recepito quello che ha fatto e
ha… avuto una
specie di crisi isterica.» Si strofinò una tempia.
«E sedarla non è stato
affatto facile, con Abeforth che continuava a ripetere che non
l’aveva fatto
apposta, e che non capiva, e che…»
«Ho
capito, ho
capito» lo interruppe Gellert con una smorfia. «Ti
prego di non andare avanti,
non credo di avere uno stomaco abbastanza resistente.»
Tirò giù la gamba dal
bracciolo della poltrona e la accavallò all’altra.
«Quando accetterai di
fuggire via con me, per curiosità?»
Albus
sorrise
appena. «Non tentarmi, per favore» lo
implorò ironicamente cominciando ad
alzarsi. «A volte rischio veramente di accettare.»
«Sarebbe
pure
ora» ribatté l’altro. «Tutto
questo spirito di abnegazione comincia a essere
fastidioso.»
Albus
rise
mentre guardava l’orologio poggiato sulla scrivania.
Inarcò un sopracciglio. «A
cosa devo questo assai tardo piacere, Gellert?»
«Te
l’ho detto,
mi annoiavo» rispose lui sprofondando ulteriormente nella
poltrona. «E gli
incantesimi di protezione che hai piazzato attorno alla casa sono
scandalosamente facili da rompere, fra parentesi» aggiunse
indicando con un
gesto da teatrante lo spazio attorno a sé. «Per
non parlare di quella ridicola
mezza fattura alla tua finestra» precisò con una
smorfia di disgusto.
«Seriamente, Albus, devo presupporre che le tue doti magiche
siano
vergognosamente calate o che stessi aspettando qualcuno?»
L’altro
rise.
«Credo dipenda più dal fatto che non
mi
aspetto nessuno, Gellert» disse alzandosi e
dirigendosi verso una sedia
dove era poggiata una vestaglia scura. «Chi vuoi che venga a
interrompere la
tranquilla routine di questa pacifica cittadina di periferia?»
Gellert
si
strinse nelle spalle e si indicò con un gesto fin troppo
ostentato.
«Visto
che
fin’ora non hai compiuto attentati alla mia vita
più gravi di farmi assaggiare
quell’orrido piatto tedesco, credo di poter ragionevolmente
considerare il
rischio basso.» Si infilò la lunga vestaglia e si
girò verso l’amico, che se ne
uscì con un verso di disgusto.
«Voi
inglesi
siete una cosa impossibile» disse schifato guardandolo dalla
testa hai piedi. «Come
fate ad avere una tale mancanza di
gusto, non lo capirò mai.» Si alzò e
gli andò incontro con una critica aria
nauseata. «Albus, visto il colore dei tuoi capelli
è assolutamente indecente
avere una vestaglia di quel
colore» gli disse cominciando a girargli attorno come
sperando che visto da
altre angolazioni il soggetto migliorasse. «Assolutamente!
Dovrebbe esserci una
legge contro le vestaglie di questo… questo…
questa specie di prugna farcito con
quelle ridicole
stelline. Specie guardando la lunghezza altrettanto indecente a cui
tieni i
tuoi capelli.» Ne afferrò una ciocca e la
lasciò ricadere. «Visto da dietro
potresti sembrare tua sorella, Albus, e ti
prego di credere che non sto scherzando» aggiunse,
visto che l’altro
sembrava molto incline a ridere. «Ma non puoi avere quel
cappuccio di capelli
rossi su una vestaglia prugna,
Albus,
è un pugno in un occhio.»
«Non
tutti
abbiamo i tuoi vantaggi, Gellert» rispose imperturbabile lui
guardando la
camicia bianca, gli stivali di pelle e i pantaloni neri
dell’altro.
Gellert
gli
rivolse una smorfia. «Se solo la smettessi di vestirti esattamente con i colori che ti stanno
peggio riusciresti a
migliorare anche tu» gli fece notare buttandosi di nuovo
sulla poltrona. «Hai
tutte le tonalità del blu a disposizione. Il nero, che
è sempre un ottimo
compromesso. Il bianco, per quanto io lo trovi estremamente scomodo. Il
verde,
tutt’al più, non troppo brillante, ovviamente, ma
per esempio un verde bosco
potrebbe…»
«Gellert,
non
credo tu sia qui per discutere dei miei gusti in fatto di
abbigliamento» gli
fece stancamente notare Albus sedendosi allo scrittoio.
«No,
ma non
possiamo non discuterne, Albus,
visto
come ti ostini a vestire» ribatté
l’altro agitando una mano verso di lui. «E
per inciso, suppongo che tu non tenga del vino in camera, no?»
«Supposizione
stranamente corretta» replicò lui con un mezzo
sorriso. «Gellert, sono quasi le
quattro. Non ti fa affatto bene bere a quest’ora.»
L’altro
si
strinse nelle spalle e tirò fuori la bacchetta. Dal nulla
apparvero una
bottiglia e un calice che venne velocemente riempito col liquido rosso
scuro
della stessa.
«Molto
meglio»
commentò portando di nuovo la gamba al bracciolo.
«Ma tornando a quell’oscenità
di vestaglia, essendo parte del tuo corredo da letto potresti
permetterti di
usare un colore chiaro. Non so, un celeste pallido, tipo i tuoi occhi?
Leggermente sfumato, forse.» Agitò nuovamente la
bacchetta, trasfigurando il
colore dell’offensivo capo.
Albus
sospirò
con una punta d’ironia. «Ti ringrazio molto
dell’interessamento, Gellert, ma
credo che me la terrò così
com’è.» Agitò quasi
distrattamente la sua, e la
vestaglia tornò al suo colore originario.
Gellert
rispose
con una nuova smorfia. «Speravo che se non proprio
l’esperienza, almeno la mia
presenza avesse ficcato un po’ di buonsenso in quella
testaccia dura e
flemmatica»
«Sempre
dolente
di distruggere false speranze» rispose l’altro
computo congiungendo le mani.
Gellert
se ne
uscì con un mezzo sbuffo e alzò gli occhi al
cielo.
«Gellert,
basta
giocare, ora» disse stancamente Albus appoggiando un gomito
allo scrittoio e la
testa alla mano. «Cosa diavolo ci fai in camera mia alle
quattro di notte nel
bel mezzo di una delle tempeste più violente che ricordo di
aver mai visto?»
«Sono
così
sgradito, Albus?» ribatté l’altro
evitando machiavellicamente la domanda.
«Herr
Grindelwald…»
«Ho
capito, ho
capito» sbuffò Gellert. «Risparmiami le
tue ‘r’, per favore. Amo troppo la mia
lingua per vederla inglesizzata a questo modo.» Gli rivolse
un sorriso ironico,
che si ampliò notevolmente quando proseguì:
«Ad ogni modo, sono qui perché sono
modestamente un genio e non c’era nessuno intorno a dirmelo
con cognizione di
causa, il che era immensamente frustrante.»
«Ma
io non ho
nessuna cognizione per cui dovrei chiamarti genio, Gellert»
gli fece
garbatamente notare Albus trattenendo un sorriso all’angolo
della bocca.
L’altro
se ne
uscì con una risata a piena gola, che lo rovesciò
sulla sedia dove si trovava
mentre i suoi capelli dorati uscivano dal molle nodo che li teneva
dietro la
testa. Quando riuscì a controllarsi, agitò appena
la bacchetta e un cilindro di
quello che sembrava legno chiaro si materializzò nella sua
mano. «Dai
un’occhiata a questo» gli consigliò con
un caloroso sogghigno tirandoglielo con
la sinistra.
Albus
lo
afferrò al volo e lo stappò con un veloce
incantesimo. Ne uscì un rotolo di
pergamena che, anche dall’odore, era chiaramente vecchio.
Aggrottando appena le
sopracciglia, lo aprì con delicatezza e cominciò
a leggerlo. Già dalle prime
righe, uno sguardo che era un perfetto misto di stupore,
incredulità e gioia
gli cominciò a segnare i lineamenti.
«Gellert…»
se
ne uscì dimenticandosi di strascicare appena la voce come
era solito e senza
riuscire a distogliere gli occhi da quanto stava leggendo.
«Zitto.
Potrai
parlare solo per dirmi “Non capisco per quale congiunzione
astrale possa essere
nato un genio così geniale come te”» lo
tacitò immediatamente l’altro con un
ghigno divertito che gli andava da un orecchio all’altro.
«Magari
rivedrò
un po’ la grammatica…»
mormorò assente Albus continuando a leggere. Quando
arrivò in fondo, chiuse per un attimo gli occhi e fece un
sospiro profondo. «Lo
sai cosa significa questo, vero?» chiese controllando
attentamente la voce. «Se
davvero è stato il fratello di Loxias* a finirlo e poi
è fuggito all’estero con
l’aiuto di sua madre…»
«Vuol
dire che
dovremo andare a cercare nuove documentazioni nella mia amata
madrepatria,
esatto» rispose Gellert. «E vuol dire
anche» aggiunse con un sorrisetto
irritante, «che la tua sentimentale teoria della madre che
aveva dichiarato di
ucciderlo per garantire al figlio un po’ di pace era
completamente campata per
aria.»
«Ma
questo vuol
dire che abbiamo riallacciato la pista!» esclamò
Albus incapace di trattenere
l’eccitazione. «Significa che abbiamo trovato quel
piccolo pezzo che serviva
per completare il quadro del Settecento! Gellert…»
«Non
ti ho
ancora sentito dire “Sei un genio”, amico
mio» gli fece notare Gellert con aria
di rimprovero. «E ti assicuro che il mio amor proprio sta
soffrendo le più
crudeli torture per questo…»
«Sei
un genio»
mormorò Albus leggendo una seconda volta. Si girò
poi allo scrittoio ed evocò
un foglio su cui era stato tracciato quello che sembrava, a prima
vista, un
albero genealogico. «Loxias…»
mormorò guardando verso il fondo della pagina.
«Se è stato suo fratello con la
complicità della madre a finirlo con tutte le
probabilità le date che abbiamo sono esatte»
mormorò appellando silenziosamente
i suoi occhiali ed afferrando una penna. «Vuol dire che
Hecatos** ha preso la
bacchetta intorno al 1738… ma perché portarla
all’estero?» chiese quasi a sé
stesso. «Se aveva già ucciso il
fratello…»
«Vorrei
ricordare alla tua mente acuta e penetrante che Hecatos era
superstizioso
peggio di un Babbano nel Medioevo di fronte a una cometa» gli
ricordò Gellert
guardando il soffitto con un sorriso. «Con tutte le
probabilità del mondo avrà
visto un’ombra sulla parete il giorno dell’omicidio
e si sarà convinto che le
Erinni lo avrebbero perseguitato fino alla fine dei suoi
giorni…»
«Oppure…»
mormorò Albus con lo sguardo di chi si trova di fronte un
calcolo matematico di
notevole portata, «oppure per nasconderla da sua
madre… dopotutto Keladeina*
era stata passabile di condanna per omicidio per un
motivo…»
«Già,
un
personaggio delizioso» commentò Gellert.
«Vorrei averla conosciuta… pare che
fosse una pozionista straordinaria…»
«Sei
assolutamente privo di qualunque accenno di coscienza,
Gellert» lo informò
distrattamente Albus mentre tirava fuori altre carte e cominciava a
guardarle.
Lui
rise.
«Almeno non mi nascondo dietro la falsa certezza di averne
una» rispose
sogghignando. «Almeno io sono onesto…»
«Non
so di cosa
tu stia parlando» rispose Albus sfogliando un grosso libro.
Sospirò. «Quindi ci
manca la connessione con Arcus e Livius*…»
«Sempre
se
prendi per buona la versione che Arcus e Livius effettivamente presero
possesso
della Bacchetta» ribatté Gellert incrociando le
mani dietro la testa.
«Personalmente credo che le fonti che abbiamo trovato
fin’ora a loro carico
siano abbastanza inconsistenti.»
«Hecatos…
Hecatos potrà anche essere stato un superstizioso, ma a
quanto sappiamo era
anche un grande mago» riprese Albus scrutando con ansia
febbrile le carte
davanti a lui. «Chi abbiamo in questo periodo che avrebbe
potuto sconfiggerlo…
o imbrogliarlo?» Sbuffò, d’improvviso
seccato. «Non hai notato come un oggetto
che doveva essere invincibile causasse facilmente morte a chiunque lo
sfiori?»
«Dimentichi
la
Pietra e il Mantello, Albus» lo rimproverò
Gellert. «Serve la Triade per essere
invincibili…»
Il
ragazzo si
irrigidì appena. «Non li dimentico mai,
Gellert» disse piano. «Mai.
Stavo solo rimarcando il fatto che
nessuno dei possessori della bacchetta che abbiamo trovato
fin’ora – e stiamo
parlando di più di sette secoli – è
morto di morte naturale, o ha perso il
controllo della bacchetta in seguito a un duello.»
«Se
fosse stata
una questione di duelli non avrebbero perso»
ribatté l’altro portandosi
nuovamente il bicchiere alla bocca. Sorrise. «Sette secoli
passati ad assorbire
magia… riesci a immaginarlo, Albus?»
Quasi
involontariamente, un sorriso si disegnò anche sulle labbra
di Albus. «Otto e
mezzo, Gellert. Devi ancora arrivare al nostro,
di secolo.»
Di
scatto,
senza che nessun suono lo potesse preavvisare, Gellert era dietro di
lui e gli
stringeva entrambe le braccia poco sopra i gomiti. «Un potere
incontenibile,
non ti sembra?» Il suo fiato caldo appena sopra
l’orecchio gli spedì un brivido
direttamente lungo tutta la spina dorsale.
Gellert
sentì i
muscoli sotto le sue dita contrarsi automaticamente mentre il compagno
rilasciava il più quietamente possibile il respiro.
«Gellert» disse Albus
pesando attentamente ogni lettera, «questo non è
il modo migliore per farmi
mantenere la concentrazione.»
Sentì più ancora
che udire la sua risata
nei capelli. «Non sottovalutarti, Albus»
mormorò la voce perfetta troppo vicina
al suo collo. «Hai molta più tempra di quanto non
vorresti darmi a vedere…»
*
Presunti possessori
della Bacchetta di Sambuco nel corso dei secoli, secondo Le
Fiabe di Beda il Bardo (maggiori informazioni qui)
[N.d.A.]
** Personaggio inesistente nel Canon, inventato da me per ovvi motivi di trama. Il nome, Hecatos, è nato dal fatto che il nome del possessore della bacchetta indicato dal Canon, “Loxias” – in greco “obliquo”, “ambiguo” – era un epiteto del dio greco Apollo. “Hecatos” era un altro epiteto riferito all’Apollo “che uccide molti (con una piaga)”, e mi sembrava quindi adatto al ruolo che ho affidato a questo personaggio. [N.d.A.]