14.Fourteenth
Day
Right little finger
-Sana.
Ehi Sana. Sana, sveglia- sussurrava una voce, ma io tenevo gli occhi
ben chiusi -Sana, sto perdendo la pazienza. Svegliati, caz... Sana...
Sana!-
-S-s-si!
Presente, scusi professore! Mi ero appisolata un attimo!- dissi, poi
volsi lo sguardo a destra e a sinistra: ero in camera mia. Presto lo
sguardo si posò sul mio interlocutore e poi, veloce, sulla
sveglia e fu proprio in quel momento che Akito Hayama avrebbe
dovuto aver paura di morire giovane.
Le
cinque e trentacinque minuti e due secondi.
Che
ora erano tre, quattro, cinque, sei...
Che
dicevamo?
Ah,
si: missione uccidiamo Akito Hayama.
Il
mio cervello, a volte (solo a volte), alla mattina non connetteva bene
i neuroni, soprattutto se qualcuno mi svegliava prima
dell’ora stabilita dalla mia sveglia-maialino (si, ce
l’avevo ancora).
-T-t-tu!
Vuoi forse morire giovane?!?- chiesi, puntando contro il dito a Akito,
che mi guardava inarcando un sopracciglio, con quel suo cipiglio tra
l’annoiato e lo strafottente; o, forse, aveva solamente sonno.
-No,
grazie. Comunque Sana ci siamo dimenticati la rela...-
-No
grazie... No grazie... Come “No grazie”!
Perché diavolo mi hai svegliato a quest’ora del
mattino, eh!?!- strillai, chiunque sapeva che svegliarmi prima del
dovuto era come un sacrilegio nei miei confronti, eppure Hayama
sembrava essersene dimenticato.
-Perché
non abbiamo fatto la relazione per il corso di socialità,
Sana- disse pacato.
-Mer...avigliosa
relazione! Oddio! La relazione!- iniziai a cercare il computer o meglio
tolsi la muffa dalla scrivania e i chili di polvere incrostati sulla
superficie di legno (Studiavo tanto all’epoca,
né?).
-Non
lo trovo...- mi morsi il labbro inferiore dall’agitazione
-Accidenti- Akito sbuffò ed io lo fulminai. Dopo dieci
minuti buoni trovai il computer: era nella parte alta
dell’armadio e io, sfiga delle sfighe (certo che se la
fortuna è cieca, la sfiga ci vede benissimo ed io sono il
suo bersaglio preferito), non ci arrivavo.
Mia
madre me lo ripeteva sempre: nonostante fossi una bella ragazza,
c’erano tre cose che mi mancavano ed una di queste era
l’altezza; le altre erano una terza di reggiseno e la grazia
femminile.
Quindi
potete immaginare come la caduta per me, costante abituale dei miei
giorni da giovane donzella (se vogliamo metterla in poetica), fosse
stata inevitabile.
Ero rimasta in punta di piedi aggrappata per un pelo all’armadio, sfiorando il famoso scaffale con il computer portatile (immaginate farlo alle cinque di mattina, poi), cercando di non cadere in preda al sonno.
Il disastro era stato a dir poco catastrofico: io, ricoperta di polvere, per terra, con un calzino spuntato da chissà dove in testa e Hayama che si pregustava la scena dal letto con un sorrisetto sadico che mi metteva i nervi.
-Sei un disastro...-
Sbuffai, ero contrariata, arrabbiata, e avevo sonno: Hayama rischiava veramente la vita se si fosse avvicinato qualche centimetro in più. Certo, il suo fiato caldo sulla mia spalla di prima mattina sarebbe stato un buon modo per iniziare la giornata, ma l'odio che provavo per gli opportunisti (e lui lo era al cento per cento, in quanto stava cercando di molestare una ragazza ancora in trance per il sonno mancato) era sconfinato, perciò mi irritai più di quanto non lo fossi già.
La mia faccia scocciata, scomparì quando scoprii che la sua vicinanza era dovuta solo al fatto che stava prendendo il computer dall'alto dello scaffale.
Dio, però se è cresciuto bene.
Pensai, mentre sentivo i suoi addominali che aderivano contro la mia schiena, il suo petto che si alzava e abbassava contro le mie spalle.
Sana, contieniti.
Lui si scansò in un attimo; io arrossii, come se lui avesse potuto leggermi in faccia i miei pensieri, e probabilmente era così.
Quando accese il computer, ed aprì una pagina bianca, il cursore lampeggiava inutilmente, perché non c'era alcuna relazione, alcuna parola che poteva esprimere quello che provavo per Akito.
Il cursore avrebbe lampeggiato ancora per un po', mentre Akito aveva voltato la testa e mi aveva baciato: sullo schermo delle lettere anonime e senza senso vennero digitate dalle mie mani tremolanti e inconsapevoli.
-
Ecco: l'aula di sociologia. Quella dannata, dannatissima, aula.
Sforzai un sorriso, alzando l'angolo destro della bocca in modo palesemente falso, davanti ad uno stuolo di studenti con i loro occhi grandi catalizzati su di noi. Sì, noi: Io e Hayama.
Oh cavolo, Sana! L'hai fatto mille volte, davanti a milioni di persone, davanti alle telecamere! Non puoi tirarti indietro ora!
-Ecco sì, allllllloooraaaa...-
-Sentiamo signorina Kurata, proceda pure.-
La professoressa gongolava felice, mentre si guardava le unghie con gli occhiali che le scivolavano sul naso dritto e lungo.
-Ecco in realtà la nostra relazione dice che, insomma, sa com'è, sono imbarazzata, oddio, ecco sì, la nostra relazione ha fatto in modo di farci approfondire la nostra amicizia e bla bla bla ahahahAHAH!-
Risi, nervosamente, cercando disperatamente il mio unico neurone che sembrava essersi nascosto da qualche parte nel mio cervello e non voleva fare il suo ben pagato (?) lavoro.
REI, ho bisogno di Rei, e di una limonata ghiacciata, possibilmente!
Akito se ne stava immobile, con le mani nelle sue dannate tasche, dei suoi dannati pantaloni, e si rifiutava di collaborare. Gliel'avrei fatta pagare! Eccome!
Mentre blateravo qualcosa di insensato sull'amicizia e certe scottature estive, e la professoressa continuava a guardarsi le unghie incuranti, e un paparazzo se ne stava appeso versione spidermen sul muro della scuola accanto alla finestra, e i miei compagni sbattevano le ciglia concentrati in slow motion, ecco che accadde tutto, in un attimo: Hayama prese l'iniziativa, quel dannato prese l'iniziativa e mi baciò.
Una mano sul mio polso, l'altra tra i miei capelli e le sue labbra sulle mie: quello fu l'inizio della fine.
-
Rei mi era venuto subito a prendere con la sua BMW a scuola, di fretta e cercando di scansare ogni singolo fan o giornalista che gli si parava davanti, perché il signorino, lì presente, per uno suo stupidissimo capriccio, aveva fatto il danno (uguale mi aveva baciata) e ora dovevamo provvedere noi a ripararlo.
Il fatto che fossi in macchina con il mio manager superprotettivo, nonché ex finto fidanzato, non aiutava, statene certi.
-Da quando?- chiese, gelido, Rei.
-Dal blackout, quattro giorni fa- risposi, colpevole: il capo chino, la voce sospesa in un sospiro. Un silenzio agghiacciante calò nell'abitacolo. Rei contrasse le sopracciglia impercettibilmente e lasciò andare il respiro che aveva trattenuto fino a quel momento.
-Quattro giorni.- ripeté -E avete...- le mani sul volante si stinsero, forte, fino a far sbiancare le nocche scure di Rei.
-Sì, noi ecco...-
Astrazione, la chiamavano. Uscire dal proprio corpo e gelare un preciso istante, come se ti guardassi attraverso una fotografia scattata anni prima, in bianco e nero. Io e Hayama abbiamo fatto sesso.
-Io e Hayama abbiamo fatto sesso.-
Rei è olivastro, ha le mani sul volante e guarda fisso davanti a sé.
-Ce ne andiamo-
-Cosa?!-
-Ce ne andiamo, torniamo a New York dove potrai giovare alla tua carriera, e non a beh, a queste cose.-
-Rei.-
-Sì due biglietti dovrei trovarli per sta notte-
-Rei.-
-Se sono fortunato anche in prima classe-
-Rei...-
-Al massimo ricorreremo al jet privato di Kamura- Oh, no.
-Rei...!-
Lui si voltò: finalmente si era accordo di me. Le mani ancora ben pinzate sul volante, gli occhi rivolti ai miei, una delle mie mani a stritolargli il braccio per il nervoso.
-No, Rei. Io non parto, né ora, né mai. Lo sai, Rei. Sì, vero che lo sai? Allora, perché vuoi portarmi via da lui? Smettila di comportarti da padre super protettivo; non sei mio padre, né un bambino capriccioso che vuole il suo giocattolo per sé. Io ero piccola, ti ricordi, quando tu e Aiko...? Ricordi, Rei? L'amavi, e io lo impedivo. Non è tutto meglio ora? Ora che la puoi amare? Ora che io lo amo?-
Rei deglutì forte, accese il motore e percorse la via di casa, senza dire una parola.
-Io lo amo- ribadii, quando, una volta arrivati, scesi senza più altre parole né scuse: io amavo Akito Hayama, ecco la verità.
-
Certo,
forse non avrei dovuto dire quelle cose a Rei; ma ero sicura che
avrebbe capito.
Perché
la signorina Aiko doveva togliere il respiro a lui, almeno quanto Akito
lo togliesse a me, perché avrebbe capito. Rei avrebbe capito.
Lo
ripetevo come un mantra, mentre mi gettai sul letto con un respiro di
sollievo.
Sdraiata
su quel mio baldacchino enorme con le braccia distese lungo i fianchi
ed Akito di fianco a me.
Feci
scivolare un braccio sugli occhi e li chiusi: ero esausta.
Il
lavoro in quel periodo non mi aveva dato tregua, Akito lo sapeva.
I
paparazzi non mi avevano dato tregua.
Forse
trovare le foto di un nostro bacio non era stato tanto male, forse ci
toglieva l’impiccio di dirlo al mondo.
Forse.
Però
tutti quei forse non facevano altro che rendermi più
insicura di quanto non fossi già.
-Sai,-
sillabai io -da piccola facevo un gioco: immaginavo che il letto fosse
una tenda e di potermi isolare dal mondo sotto le coperte. E me ne
stavo lì, sotto la mia tenda, per non soffrire-
Akito
mi fissò, forse stranito dalla piega che stava prendendo il
mio discorso.
-Quando
scoprii che Mama non era la mia vera mamma, la mia mamma naturale...-
Si
irrigidì per un attimo, io risi e alzai le coperte sopra la
mia testa e lui automaticamente si rilassò.
Sembravamo
legati da un filo sottile noi due, come se l’equilibrio fosse
qualcosa di talmente fragile da poterlo spezzare da un momento
all’altro. Vivevamo di attimi tra la tristezza e le risate, e
neanche ce ne rendevamo conto. Era come toccare il cielo e poi tornare
a terra di colpo, in picchiata. Per poi essere salvati da una mano
amica che ti teneva ancora sospesa.
Ci
eravamo salvati noi due.
Anche
se Akito pensava che lui non avrebbe mai fatto ‘bene quanto
me’, anche se pensava che neanche con Komori ce
l’avesse fatta, ero sicura che lui mi avesse salvato.
In
qualche modo lo faceva sempre.
Come
adesso che la sua mano si era intrecciata un po’ troppo
prepotentemente con la mia e mi guardava da sotto le coperte, con quei
suoi occhi duri e caldi, perché
da qualsiasi prospettiva (con qualsiasi sfumatura) li potessi vedere,
in quel momento gli occhi di Akito erano caldi.
Ed
era strabiliante (ed estremamente gratificante, diciamocelo) sapere che
quegli occhi erano così per me, erano così quando
si posavano su di me.
Strinsi
anch’io la sua mano, poi, tirando le coperte su di noi, mi
sedetti sul letto di fronte ad Akito; anche lui si mise a sedere.
-Pensavo
fosse la mia casa, dove non esisteva nessuna regola, nessun fantasma,
nessuna matematica- risi -nessun legame di sangue...-
La
frase rimase così sospesa nell’aria, mentre
sentivo la fronte fredda di Akito toccare la mia.
Era
così freddo o ero io che avevo la febbre?
-Ehy?
Akito, tu hai mai avuto la tua tenda?-
Lui
ci pensò un attimo, chiuse gli occhi e poi
sospirò, non staccandosi mai dalla mia fronte.
Dopo poco li aprì di colpo e li puntò nei miei come se stesse scavando dentro di me una fossa, dove riporre tutte le paure, ma allo stesso modo creava un collegamento, un legame invisibile, un filo rosso legato al mignolo destro.
-In
realtà, no-
Monosillabe
come al solito Akito, e anche monocorde, con quella voce che qualche
anno fa era troppo profonda per un ragazzino.
-Davvero?
Beh, allora potremmo...- il mio naso sfiorò il suo, la
stretta sulle mani aumentò, il filo rosso fece doppio nodo
-avere una nostra tenda, insieme-
Il
suo braccio sinistro incontrò il retro della mia nuca e mi
attirò a sé.
Non
mi baciò, ora il suo mento bucava la mia spalla, ma mi
abbracciava stretta, come se fosse l’ultima volta, come se
non mi avrebbe mai lasciato andare.
Ed
in quel momento, in quell’assurda posizione, non sembravamo
più i diciassettenni che eravamo, ma eravamo tornati
tredicenni.
Eravamo
tornati indietro nel tempo con un solo abbraccio.
-Sana...- mormorò lui, con un tono ancor più basso se possibile -Io, non voglio che tu soffra. Non voglio più farti soffrire. Non voglio una tenda nuova, con te;- lo guardai male -ora, pensandoci bene, ce l'ho già la mia tenda...- si aggrappò malamente alla coperta che ci copriva e la tirò ancora più verso di noi -la mia tenda, sei tu. Sei sempre stata tu, Sana. Mi sento come in debito-
Avrei pianto, sinceramente, ma la felicità strabordava così dalla mia anima, dal mio corpo, da tutta me stessa, che non ce la feci; sorrisi e presi il suo viso nelle mie mani, senza rompere il contatto indelebile tra i nostri occhi.
-Non dirlo, non dirlo...- scossi la testa, e mi avvicinai ulteriormente al suo viso -Io, io, non so proprio come avrei fatto senza di te-
-No- duro, secco, Akito -Tu, sei una persona fantastica; tu ce l'avresti fatta; in ogni situazione saresti stata felice, e avresti reso felici tutti, invece io...-
-Ma non sarei mai stata così felice, così come ora, come con te-
-Io ti odiavo-
-Lo so-
-Ora però... Lo sai, il mondo fa schifo. Ho vissuto da schifo prima di conoscerti, prima di te non c'era nulla, un vuoto assoluto, totalizzante; non c'era che il senso di colpa, la voglia di andarsene, di morire. Ora però, non sai quanto darei per riavere quegli anni, conoscerti prima, e vivere, viverti. Cazzo, la mia reputazione sta andando a puttane con questo discorso. Kurata, sei, veramente, ti odio... Come puoi farmi questo? Mi fai sentire stupido, e coglione, mi sento un cane quando non sei con me, ma quando sei qui... Dio, vorrei averti con me sempre, e scoparti magari, su quel muro, sulla scrivania, nella doccia, sul banco a scuola... Mi fai sentire, merda... Non lo so neanche io come mi sento. So solo che ti voglio, adesso, sempre. Con te sono sempre in caduta libera, senza paracadute e so per certo che tu mi prenderai prima di farmi schiantare al suolo, ma lo sai quanto io ho paura dell'altezza, lo sai vero? Kurata, no anzi, Sana, tu sei più fastidiosa dell'ascensore per salire sulla torre di Tokio, ma sei più mozzafiato della vista tutta illuminata della città di notte. Sei, una vertigine. Mi fai perdere ogni tipo di controllo, mi fai... cadere... tante volte... Non so più neanche cosa stia dicendo, e ho la lingua secca, non sono abituato a parlare tanto, io. Però veramente, Sana, grazie. E scusa per il ritardo.-
Ecco, se prima avessi potuto trattenere le lacrime, in quel momento scoppiai e mentre i miei occhi si facevano piccoli, piccoli e lucidi, e il mio viso si chiudeva in una smorfia brutta, sicuramente ero bruttissima mentre piangevo in quel modo così esplicito, così intimo, gli tirai un pugno.
-Idiota! Mi hai fatto piangere!-
Poi lo baciai, lo baciai, e lo baciai ancora...
Spazio autrice
Alluuuura, due paroline in croce prima di (forse) lasciarci per un lungo tempo, di nuovo. Mi dispiace tantissimo per il ritardo, e avrei un sacco di scuse da propinarvi, ma veramente non voglio né rubare il vostro tempo, né il mio che è già poco; però una cosa la devo dire: Grazie.
Grazie a tutte, di cuore. Perché se voi non foste state qui per me, io non avrei mai scritto questo sclero assurdo. Senza di voi, probabilmente Cohabit non esisterebbe. Ma per quanto vi sia grata per tutto - veramente siete state indispensabili per me per superare certe situazioni che si sono presentate nella mia vita, che vi devo tantissimo - la vita va avanti, e così anch'io. Sembrerà brutto da dire, ma Kodocha non è più una fonte spontanea d'ispirazione - fate ben attenzione: spontanea, perché sì potrei scrivere ancora, ma non mi verrebbe più così bene come quando avevo il mio Akito. Anche a lui devo molto. Scrivere mi ha salvata da me stessa. Perciò è insieme una paura e un sollievo mettere la parola fine alla prima cosa decente che ho scritto, perciò ho bisogno di tutti voi per compiere questo passo, infatti ho bisogno di sapere se sia necessario un epilogo o Cohabit è finita, morta, terminata su efp. Completa, ma di certo so che continuerà a vivere nei vostri cuoricini trepidanti di nuovi aggiornamenti, che probabilmente non arriveranno. Perciò la domanda, fondamentale e silenziosa, è questa: volete un epilogo o no?
Se lo desiderate, io vi accontenterò e ci sentiremo (spero) presto. Se non lo desiderate, beh, carissime, questa è la fine, la fine di una storia ma anche di un amore come lo è stato il mio per Kodocha. Ma ricordate ogni fine, ha sempre un nuovo inizio. Anche se scomparirò di nuovo, non me ne andrò mai, resterò ancora lì a indugiare nel ventricolo destro del vostro cuore.
Marghepepe.