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Autore: Miss Demy    28/09/2011    38 recensioni
C'è un'età per l'amicizia, per l'affetto fraterno, per le confidenze, e un'età per l'Amore capace di far scalpitare i cuori e mandare in tilt il cervello.
Tra l'amicizia e l'Amore, alcune volte il passo può essere breve, altre impiega più di dieci anni. E se razionalmente non fosse giusto? Ascolta il tuo cuore, non c'è nient'altro che tu possa fare.
Dal cap.1:
Un colpo di tosse li destò da quella pericolosa lite.
Voltandosi verso l’arco che collegava il salone al resto dell’appartamento, gli occhi spalancati e imbarazzati di Hana li osservavano. Non era l’unica.
Setsuna, aveva assistito. Era curiosa di ascoltare come il suo fidanzato avrebbe giustificato quella scena che lo vedeva ancora in ginocchio, tra le gambe dischiuse di Usagi, cingendole la vita e con il viso a pochi centimetri di distanza da quello della ragazzina. Che nervi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mamoru/Marzio, Nuovo personaggio, Setsuna/Sidia, Usagi/Bunny | Coppie: Mamoru/Usagi
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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Capitolo 3: Se fuori piove
 
Quel letto matrimoniale dalle lenzuola di seta nera era troppo grande, troppo freddo quando lei non lo condivideva con lui.
Voltato su un fianco, occhi chiusi, Mamoru distese il braccio disegnando un arco con il palmo, sperando di poterla trovare lì, accarezzare la sua pelle calda e liscia ricevendo il miglior buongiorno che avesse mai potuto desiderare. Lei non c’era. Ultimamente i loro turni lavorativi non coincidevano.
Sollevò le palpebre. La sveglia segnava le 07.39. Poté riabbassarle riprendendo a dormire. Fino al pomeriggio non avrebbe dovuto mettere piede in ospedale. Uno scatto della serratura che faceva aprire la porta gli dipinse un sorriso istintivo sulle labbra, una sensazione di sorpresa e gioia al cuore. Sentì dei passi leggeri farsi sempre più vicini; aprì gli occhi di nuovo e, nella penombra della camera, poté intravedere la giovane donna davanti alla porta, irradiata da un sottile fascio di fioca luce gialla che filtrava dalle fessure della tapparella abbassata. Sorrise ancora, il suo braccio si distese di nuovo per reclamarla come un bisogno.
Non dovette attendere molto, lei lo accontentò subito.

Setsuna sbottonò la sua camicia di raso bianco, sfilandosela e poggiandola sulla panca di legno posta ai piedi del letto. Lui la seguì con lo sguardo mentre abbassava la gonna del tailleur lilla. In quel completo intimo color avorio la sua pelle ambrata sembrava ancora più tonica, una visione bellissima. Si sdraiò accanto a lui, premendo le forme sul suo corpo. Abbassò le palpebre, percepì quel contatto caldo colmo di energia.

«Mi sei mancata» le sussurrò con la voce impastata dal sonno, prima di premere le sue labbra su quelle di lei e stringerla ancora più forte, fino a percepire il suo profumo e il suo respiro caldo, «tanto, tanto…»

«Anche tu, amore mio.» Lei gli accarezzò la guancia ruvida, riposando finalmente gli occhi dopo un’intera notte passata tra le corsie del reparto di chirurgia. «Volevo sentirti in un momento di calma ma il tuo telefono era spento» sussurrò, cercando di rilassarsi sempre di più in quell’abbraccio che aveva desiderato per tutta la notte. 

«Hm mh, era scarico e non sono tornato subito qui dopo il lavoro» fu la sua risposta a metà tra il mondo dei sogni e quello reale. «Usa si è messa nei casini e sono dovuto andare a prenderla.» Lei non lo aveva domandato ma per lui fu giusto specificare cosa avesse fatto. Non voleva avere segreti con la sua donna. 

Setsuna sussultò a quelle parole, l’attimo di meritato relax era finito non appena lui aveva pronunciato quel nome. Percepiva il loro rapporto speciale anche dal modo in cui la nominava. Non Usagi. Usa.
«Che ha combinato?»  domandò sforzandosi di rimanere calma. Perché doveva sempre chiamare lui? Chi era lui? Un Mamoru Chiba?
Sì, in fondo lo era ma era il suo Mamoru Chiba, il suo e solo suo Mamoru. Eppure tante volte sembrava lei l’intrusa nel rapporto Mamoru-Usagi. 

«Ha litigato con Seiya e il bastardo l’ha lasciata da sola sull’altura.» Spiegò con calma e naturalezza. Sembrava avesse appena parlato delle previsioni del tempo.

«Quell’altura?» La ragazza sollevò la testa, fissandolo incredula e sperando di aver capito male. Per quanto Usagi rappresentasse spesso un problema, intuì che forse, quella volta, anche lei avrebbe agito allo stesso modo di Mamoru. Non avrebbe mai voluto che le accadesse qualcosa di brutto. In fondo, non lo meritava.

«Sì, hanno litigato, lui le ha pure alzato le mani e ridotta male, così mi ha chiamato e sono andata a prenderla, poi l’ho portata a casa e le ho disinfettato le ferite» spiegò tutto nei dettagli, voleva renderla partecipe, non fare alimentare la sua gelosia insensata. «Dopo sono tornato qui e ho dimenticato di accendere il cellulare, scusami.»
La baciò di nuovo sulle labbra. «Raccontami di te, com’è andata stanotte?» chiese piano, bloccandole un fianco con la gamba e tenendola stretta.

«Tutto tranquillo, per fortuna, nessun caso d’urgenza.» Lei strofinò la guancia sulla maglia bianca di cotone di lui, gli accarezzò un braccio.

«Hai finito di fare favori ad Haruka, non è vero?» sembrava quasi una speranza, più che una domanda. Era bello quando lui le faceva percepire di avvertire la sua mancanza. Sorrise in quell’abbraccio.

«Sì, ho finito, sono tutta per te, Mamo-chan.» Non chiedeva di meglio.

«Fino a stasera voglio restare così.» Intensificò la stretta, si inebriò del profumo dei suoi capelli. «Dormiamo così, ti va?»

«Non aspettavo altro, dottor Chiba» gli solleticò con le labbra sulle sue.

Si era aspettato un buongiorno da lei quella mattina ma quella inaspettata buonanotte per lui fu ancora più bella.
  
  
  
Si era voltata nel letto in continuazione tutta la notte senza riuscire a riposare; sembrava che la sua pelle stesse per prendere fuoco e lei non trovasse una parte del cuscino ancora fresca. Era rovente.
Sbuffò, mettendosi seduta e portando il palmo della mano alla fronte, la trovò madida di sudore, così come il collo.
In quella camera, la luce del sole che penetrava attraverso la finestra lasciata aperta, le permise di accorgersi dei graffi sulle ginocchia.
Non era stato un sogno, capì.
Aveva bisogno di una doccia, ne avrebbe avuto bisogno già la sera precedente ma il desiderio di eclissarsi dal mondo aveva avuto la meglio. 
Si fece coraggio e si alzò. Un senso di spossatezza la costrinse a reggersi alla parete; la testa le girava e un po’ di debolezza le fece rimpiangere di aver lasciato quel letto infuocato.
Trascinò verso il bagno le gambe indolenzite, faceva ancora fatica a piegare il ginocchio.
Lasciò scivolare per terra la biancheria intima, poggiò i palmi sul lavabo di porcellana bianca e si guardò allo specchio. Fu lì che lo vide: un mostro.
La sua pelle era spenta e pallida, due semicerchi viola spiccavano sotto gli occhi azzurri e opachi e, sull’angolo della bocca, un ematoma rosso scuro rendeva le sue labbra ancora più gonfie del solito. Strizzò le palpebre. Abbassò lo sguardo, rifiutò la sua stessa immagine. Non accettava di vedersi in quel modo. L’amarezza della sera prima riemerse come un fiume in piena, lacrime le rigarono le guance, prima di bagnare il pavimento. Usagi non le fermò, non le asciugò, sentì solo un senso di vuoto, un enorme dispiacere per quella se stessa riflessa nello specchio, ne provò compassione.
La paura della sera precedente, la mortificazione per colpa di Seiya, il litigio e la disperazione fino all’arrivo di Mamo-chan non potevano essere dimenticate facilmente, non era servita una notte per spazzarle via. Erano ancora lì, sul suo viso, sulle sue gambe. Cercò di lottare contro se stessa, imponendosi di non pensare più a tutto ciò e iniziando a lasciarsi tutto alle spalle. Doveva almeno provarci.
Si fece confortare dal getto tiepido e dall’odore del suo bagnoschiuma alla fragola e lì, mentre l’acqua bagnava il suo viso, pianse ancora, permettendo che tutte le sue emozioni uscissero fuori. Forse era quello che serviva.
  
Il campanello suonò quando l’orologio sulla parete della cucina segnava le 9:00; con una camicia da notte di lino bianco addosso e i capelli raccolti nei suoi soliti odango, Usagi a fatica raggiunse la porta d’ingresso. Dall’occhiello il caschetto biondo incorniciava un viso sorridente in attesa.
Lasciò uscire un sospiro nervoso. Hana si sarebbe preoccupata vedendola in quello stato, le voleva bene, aveva rassicurato i suoi genitori per il periodo in cui sarebbero stati in Italia lasciandola da sola. Cosa le avrebbe raccontato? Cosa si sarebbe inventata per spiegare l’ematoma e il suo stato pietoso?
Il suono del campanello che veniva premuto di nuovo la obbligò ad aprire senza darle altro tempo per lasciarsi andare a ulteriori riflessioni; il sorriso che la donna aveva sul volto, però, sparì nell’istante in cui Usagi apparve dalla fessura della porta.

«Usagi, che cosa è successo?» Spalancò gli occhi, avvicinandosi e posando una mano sul mento della ragazza con aria incredula.

«Niente, non è nulla di grave» cercò di rassicurarla forzando un sorriso con lo sguardo basso, richiudendo la porta alle sue spalle.

Hana non ne era convinta, però.
«Come nulla? Chi ti ha ridotto così?» Doveva sapere chi era stato, perché di certo qualcuno era stato. Poggiò il vassoio che teneva tra le mani sul tavolino basso del salone e le si parò davanti, costringendola a guardarla.
«Dimmelo, Usagi, chi è stato?»

Usagi non tacque più. Incontrando gli occhi blu della donna dall’aria dispiaciuta, rivelò: «Seiya» prima di sedersi sul divano e continuare. «Abbiamo litigato, ma non temere, sto bene.»

Hana scosse la testa, sedendosi accanto a lei e lasciando scorrere la sua mano sulla guancia di Usako. 
«Tu scotti, hai la febbre» constatò prima di abbassare lo sguardo e notare le ginocchia escoriate che la camicia da notte lasciava scoperte. «Oh Santo Cielo!» Come avevano ridotto quella ragazza? E perché? Voleva comprendere per quali ragioni Seiya fosse arrivato a quel riprovevole comportamento.

Usagi intuì che Hana avrebbe continuato a porre domande ma lei non aveva le forze per parlare, per spiegare, per scendere nei dettagli. Poggiò la testa alla spalliera, trovò conforto. 
«Avrò preso un colpo d’aria aspettando Mamo-chan.» In effetti, nell’agitazione aveva sudato parecchio e l’attesa di Mamoru era stata accompagnata da una intensa frescura. Sicuramente portava ancora addosso il contrasto di quell’atmosfera.
«Sta’ tranquilla, davvero.» Magari con quella risposta sarebbe riuscita a toglierle quelle sopracciglia tirate verso l’alto da una espressione allarmata.

La donna alzò lo sguardo verso il volto pallido di Usagi e domandò: «Mamo? Il mio Mamo?» In fondo sapeva che di Mamoru non ce ne erano tanti.

Usagi annuì strofinando la guancia sul tessuto del divano, iniziava a riscaldarsi pure quello. «Sì, ieri sera ho chiamato lui dopo aver litigato con Seiya ed è venuto subito a prendermi.» 

Ricordava Mamoru che scendeva dall’auto, percepiva ancora le braccia di lui che la stringevano forte a sé infondendole protezione, riviveva la scena nella quale lui le cingeva la vita per aiutarla a camminare.
Ripensava alle sue espressioni rassicuranti mentre elargiva saggi consigli e le parlava con tono dolce. Lo immaginava di nuovo lì, su quel divano, con un’aria sensuale ma ingenua allo stesso tempo.
Il cuore le si scaldò d’improvviso, una sensazione di infinita dolcezza le donò un inaspettato senso di benessere.
Sorrise, con lo sguardo perso nel vuoto.

«Hai già fatto colazione?» Hana la destò da quei ricordi, scartando il vassoio e prendendo il piatto con una grossa fetta di torta. «L’ho fatta alla frutta, come piace a te. Così dopo prendi l’antipiretico.»

Usagi sorrise, portandosi in avanti e abbracciando la donna. «Grazie, Hana, ti voglio bene» sussurrò dolcemente.
Quel contatto era simile a una coperta nelle notti d’inverno. Aria condizionata nelle giornate roventi.
«Come farei senza di te?» Era una confessione. Era consapevole che Hana non era solo una vicina di casa per lei ma che rappresentasse molto di più. Era simile a una mamma, di quelle presenti e affettuose, era una amica pronta a tirarla su nei momenti tristi. Si sentiva meno sola al pensiero che lei fosse presente nella propria vita.

«Ti voglio bene anche io, piccolina» sussurrò strofinando una mano sulla schiena della ragazza. Il suo tono era ancora preoccupato. «Coraggio, andiamo a fare colazione in cucina, ti preparo il caffè.»
Cercò di mostrarsi energica, Usagi aveva bisogno di sentirsi meglio, di stare bene.
«Per oggi è meglio che ti riposi, resto io qui con te» le consigliò entrando in cucina e preparando la macchina per il caffè mentre Usagi prendeva posto su una delle quattro sedie attorno al tavolo.

Concentrarsi in quelle condizioni sarebbe stato impossibile. «Sì, mi riposo, non ho voglia di studiare, anche perché mi fa male il fianco.» Poggiò la mano sul fianco destro, arricciando le labbra in una smorfia di dolore per quella sensazione di fastidio mai provato prima. «Però tu vai a casa, stai tranquilla.»

Hana le si avvicinò, guardandola in quegli occhi tanto azzurri quanto spenti e premendo la mano sulla sua fronte.
«Usa, non mi fare preoccupare» disse incurvandosi in avanti verso di lei, «non è meglio se chiamiamo Mamoru? Magari ti visita e ci dice cosa fare.» Per la febbre l’antipiretico poteva andare bene ma il dolore al fianco? Meglio il parere di un medico, del suo medico di fiducia. Il suo Mamoru.

Usagi scosse la testa al solo pensiero. Non voleva che Mamo-chan la vedesse in quel modo, che scorgesse la stessa Usagi che lei aveva visto poco prima allo specchio; ripensava alla sera precedente, alla sua dolcezza e a quel senso di protezione che non aveva mai provato con nessuno dei ragazzi con cui era uscita. Non capiva perché l’immagine di lui che le sorrideva con occhi blu e luminosi non riuscisse ad abbandonare i suoi pensieri; non sapeva spiegarsi perché, per la prima volta, l’idea che lui la scorgesse in quello stato la imbarazzava. In fondo era lui, Mamoru, il suo amico di sempre. 
«No, non ce ne è bisogno, davvero; sarò solo indolenzita, stai tranquilla.» Voleva apparire convincente, se Hana avesse insistito era certa che lo avrebbe chiamato e se lo sarebbe ritrovato lì, a vederla pallida, con le occhiaie e le labbra gonfie. 
«Ti spiace se la mangio dopo? Vorrei andare a letto e riposare.» Si alzò lentamente, premette le labbra sulla guancia di Hana sentendo il dolore al fianco aumentare. «Vai a casa, Hana, se ho bisogno ti chiamo, promesso» la rassicurò ancora, forzando un sorriso. 

La donna annuì, Usako era testarda, inutile insistere. Attese che entrasse nella sua camera prima di lasciare l’appartamento. In fondo, Ikuko le aveva lasciato le chiavi per quelle tre settimane, se Usagi non si fosse fatta sentire, sarebbe andata a controllare.
  
  
Mamoru era seduto sul divano, la testa ben poggiata alla spalliera e le dita perse tra le folte ciocche verdi di Setsuna; la televisione mostrava un documentario sulle piramidi che aveva catturato la loro attenzione. Si erano ripromessi che prima o poi sarebbero andati a visitare quei luoghi incantevoli avvolti da un alone di mistero. I vari programmi televisivi per il momento erano tutto ciò che avrebbe permesso loro di arrivare al viaggio con una certa conoscenza. Si consolavano con la fantasia, in attesa di un periodo di ferie che li avrebbe visti prendere un aereo e condurli al Tempo dei Faraoni.
Le lancette sopra il televisore segnava le 15.00 quando il telefono squillò.
Mamoru si allungò verso destra, afferrando il telefono cordless posto sul tavolino adiacente. 

«Ho preparato una torta alla frutta, passate a mangiarne una fetta?»  

«Grazie mamma ma non credo usciremo oggi» le rispose lui continuando ad accarezzare la ragazza stretta al suo busto, «stasera ho il turno e Setsuna ha il giorno libero; resteremo a casa a riposarci.» Aveva voglia di riposarsi fino all’ultimo istante.
«Portane un po’ ad Usagi.» Fu un pensiero istintivo.  

«Già fatto» si sentì rispondere.

Era ovvio, figurarsi se sua madre non avesse già pensato a Usako. «Strano allora che ne sia rimasta pure per me e Setsuna!» 

«Veramente non l’ha neppure assaggiata» spiegò lei «anzi, in realtà sono preoccupata.»

Mamoru aggrottò la fronte. «Che vuoi dire? Che succede?»

«Ha la febbre, sta malissimo.» Un sospiro lo raggiunse attraverso il telefono. «Per non parlare di come l’ha ridotta quello lì.»

Lui deglutì a fatica, ricordando la sera precedente.
Usagi spaventata, sporca di terra e dai segni addosso, che lo abbracciava tremando e lo ringraziava più volte si fece immagine.
«Stai tranquilla, si riprenderà presto» cercò di tranquillizzarla, sapendo che era nella natura di sua madre essere apprensiva sia con Usagi che persino con lui che era ormai un uomo.
  
«Sai, stavo pensando che il prossimo week end potremmo andare a fare una gita nelle vicinanze.» Setsuna si accoccolò meglio a lui quando ripose il cordless. «Da quant’è che non organizziamo qualcosa solo tu e io?»

Lui abbassò la testa verso quegli occhi simili a due rubini colmi d’amore. «Sentiamo, dove vorrebbe andare, signorina?»

La sua voce era ironica ma allo stesso tempo calda e sensuale, a Setsuna non sfuggì quel connubio che la rendeva pazza di lui, che le faceva battere il cuore e le ricordava quanto fosse fortunata ad avere un uomo come Mamoru.
Era bellissimo da lasciare senza fiato tante giovani donne, attratte dal suo fascino naturale e dal suo sguardo magnetico, ma era anche sempre pronto a fare di tutto pur di renderla felice. Il suo Mamoru era una bella persona.
«Non importa dove, scegli pure tu, a me basta andare un po’ via da Tokyo» confessò spegnendo il televisore e sedendosi cavalcioni su di lui, «staccare con la routine e godermi il mio Mamo-chan.»

Mamoru rise di gusto, scostando alcune ciocche che ricadevano sulle spalle della giovane.
«Che cos’è questo? Un modo per convincermi?» domandò con aria maliziosa. 

Lei sorrise, mordendogli piano l’orecchio e sussurrando: «Forse…»

Lo convinse.
  
  
  
«Sì mamma, qui è tutto apposto.» Aveva cercato di rassicurare Ikuko. «Roma deve essere bellissima da come la descrivi, non dimenticarti di portarmi un regalo da lì.» Cambiare discorso l’avrebbe aiutata a non farle percepire il proprio malessere, non voleva farla preoccupare, in fondo, cosa avrebbe potuto fare dall’altro capo del mondo? 
Izzie Stevens e Alex Karev si contendevano un intervento chirurgico in tv, il resto non riusciva a seguirlo, la sua testa faticava a concentrarsi sulle scene. Sul tavolino basso del salone metà fetta di torta era ancora nel piatto, non era riuscita ad assaporarla, sembrava troppa per poterla terminarla.
Il display del suo cellulare segnava le 19.00, aveva bisogno di stendersi, quella giornata sarebbe terminata in quel modo. Affondò la testa sul cuscino, chiuse gli occhi ma il rombo di un tuono la fece sussultare, accelerando d’istinto i battiti del suo cuore. Nascose la testa sotto al fresco guanciale ma un rumore più intenso le fece strizzare le palpebre.
Odiava i tuoni, soprattutto quelli estivi, e odiava, ancora di più, stare da sola durante i temporali. Odiava stare da sola sempre, in verità.

Il citofono suonò dopo un arco di tempo indefinito, facendole aggrottare la fronte. Chi poteva mai essere a quell’ora? Non aspettava visite. Con la mano alla fronte, cercando di bloccare quell’interminabile mal di testa, si trascinò lungo il corridoio della casa buia fino alla porta d’ingresso.
«Chi è?» domandò con le poche energie, mentre la sua fronte iniziava a imperlarsi di sudore.

«Io. Mamoru.» Un sussulto, una stretta al cuore. «Posso salire?»

Usagi non rispose, si limitò a premere il pulsante del citofono. Respirò profondamente.
Sulla soglia di casa, lo scorse non appena l’ascensore si aprì e i suoi capelli corvini fecero capolino. Aveva un’espressione dolce sul volto. Usagi iniziò a prestare attenzione anche ai piccoli movimenti facciali. Rimase attratta da come lui, con le mani tra i capelli, cercasse di togliere le gocce di pioggia in eccesso. La dolcezza del suo viso si era trasformata in un’aria sensuale. Ritrovò i suoi occhi blu sui propri, lo vide strofinare i piedi sullo zerbino e raggiungerla in casa. Era così vicino che venne inebriata dal profumo speziato che era solo suo.
«Ciao» gli sussurrò. Solo in quel momento comprese quanto in realtà avesse avuto bisogno della sua presenza. «Che ci fai qui?» Continuò a fissarlo, e per un istante suppose che fosse stata Hana a chiedergli di visitarla.

Lui rispose chiedendole: «Come stai?» Lo sguardo ancora fisso sul viso pallido e stanco davanti a sé. Stropicciò le labbra in una smorfia quando notò il livido violaceo sull’angolo della bocca. 

Usagi voltò il viso dalla parte opposta. Si sentì esposta a quello sguardo insistente e profondo, come se lui riuscisse a leggere le emozioni che aveva provato per tutto il giorno. Raggiunse il divano stringendo al petto uno dei cuscini quadrati. Percepì gli occhi di lui addosso, li incrociò trovandoli preoccupati.
«Bene, ho solo un po’ di febbre» sibilò. Sicuramente lo sapeva già.

Nella penombra del salone, la luce dei lampi illuminava Usagi. Mamoru la osservò mentre portava le ginocchia al petto. La veste le era scivolata sulle gambe lasciandogliele scoperte. Il lino bianco si univa al candore della sua pelle, i lunghi capelli sciolti le accarezzavano le braccia. Era bella.
Lei gli donò uno sguardo, stringendo un cuscino tra le braccia come se cercasse un conforto. Gli suscitò tenerezza. 
«Hai preso l’antipiretico?»

Usagi annuì leggermente.
Il rombo di un tuono la fece sussultare; d’istinto strizzò le palpebre, stringendo il cuscino ancora più forte a sé.
E lì, in quel preciso momento, in quella stanza buia che veniva illuminata a tratti, Mamoru provò una stretta al cuore, un calore allo stomaco. Realizzò, per la prima volta, che non era capace di fare una delle sue solite battute per prenderla in giro o per farla arrabbiare. Non erano reazioni che avrebbe voluto scatenare in lei. Non voleva neanche interrompere quell’atmosfera distraendola o facendola sorridere.
Cosa voleva allora? Non lo capiva. Era come se quell’immagine stesse assorbendo tutta la sua energia, tutto se stesso.
Aveva bisogno di percepire quell’energia più intensamente. Fu istintivo, si avvicinò a lei, le sedette accanto e, con una mano sulla sua spalla la spinse a sé, incrociando le braccia sulla schiena di lei. Si sentì immediatamente bene, come se fosse finalmente in pace con se stesso.
«Shh» sussurrò con il mento sulla sua soffice testa bionda, cullandola dolcemente con gli occhi chiusi, «non avere paura.»

Per un attimo a Usagi mancò il respiro. Quella sensazione inaspettata, quel calore al cuore provato mentre veniva spinta verso il corpo di Mamo, quel conforto che solo lui riusciva a donarle mentre l’avvolgeva tra le sue braccia forti, le fecero rallentare la presa sul cuscino. Portò le mani sulla vita del ragazzo, intensificando quell’abbraccio e poggiando meglio la testa sul suo petto. In quel momento sì che finalmente, dopo un’intera giornata, stava meglio.

Per qualche istante, nessuna parola ebbe il coraggio di coprire lo scroscio della pioggia che si infrangeva violenta sui balconi, sulle ringhiere. Nessuno dei due riusciva a spezzare quell’atmosfera strana e insolita che si era creata all’interno dell’appartamento buio.

Mamoru guardò l’orologio appeso alla parete di fronte a sé.
«Non voglio che resti da sola, Usa» sussurrò accarezzandole con una mano la nuca. L’altra non riusciva a scostarsi dalla pelle della schiena di lei. 

«Resta qui con me, Mamo-chan.» Le braccia si erano irrigidite, contrarie a lasciarlo andare. Quella richiesta era venuta fuori simile a una supplica contro la sua razionalità. Credette che fosse colpa della febbre.

Mamoru lasciò uscire un sorriso divertito, spostando una mano dalla schiena di lei e accarezzandole le lunghe ciocche, mentre i suoi occhi rimanevano chiusi. «Devo andare a lavoro, Usako; ti porto da mia mamma, che ne dici?» propose cercando di convincerla. «C’è la mia stanza libera e per qualsiasi cosa non saresti da sola.»

Usagi sollevò la testa, incontrando gli occhi intensi di lui.
«Mi fa stare bene dormire nella mia stanza, avere le mie cose.» Avrebbe voluto anche Mamo-chan lì con lei. Quella consapevolezza la intristì. Tornò ad appoggiarsi a lui. «Non fa nulla, non ti preoccupare.»

«Ma perché devi dire sempre di no a tutto?» sbuffò lui, allentando la presa con aria seria per poterla guardare in viso. «Almeno per stanotte, fin quando non ti passa la febbre.»

 Lei scosse il capo, tornando in posizione retta e stringendosi su stessa.
«No, davvero, non ti preoccupare…»

Mamoru roteò gli occhi, guardando in alto, prima di sospirare e passare la mano nervosamente tra i capelli. «Lo vedi? Certe volte è davvero impossibile farsi comprendere da te.» Perché non capiva che lui si preoccupava per lei? Perché non cercava di farlo stare sereno? Era così complicato?

La ragazza provò una stretta al cuore al suono di quella voce leggermente infastidita. Non era più divertente come tutte le altre volte, non le dava più soddisfazioni, anzi. Aprì la bocca, per cercare di spiegarsi, di farlo calmare mentre lo vedeva alzarsi. Non voleva che andasse via prima di aver… fatto pace? In realtà non avevano litigato, allora perché saperlo infastidito la faceva agitare? Alzandosi, un lamento uscì spontaneo dalle sue labbra, non riuscì a controllarlo.
«Ahi» sibilò premendo la mano sul basso ventre, incurvandosi in avanti.  

Mamoru spalancò gli occhi, la raggiunse. «Cosa c’è? Cosa ti senti?» domandò avvolgendola sotto il suo braccio e aiutandola a stendersi sul divano. 

«Mi fa male il fianco» biascicò priva di energie per spiegare, «è da stamattina che mi fa male ma ora passa.»

Lui si sedette sul tavolino basso, posò una mano su quella di lei ancora sul fianco e, cercando di rassicurarla con un sorriso, provò: «Me lo fai visitare questo pancino?»

Una sola domanda, un tono dolce e caldo che la fece tremare; scosse la testa, guardandolo e sperando che i suoi occhi tristi potessero rivelare tutte le emozioni che stava provando in quel momento. Forse erano troppe, forse troppo confuse, o forse talmente assurde e prive di senso che lui non le avrebbe mai capite, mai prese in considerazione. Forse non le capiva neppure lei.
«Non parlarmi come se fossi una bambina…» mosse piano le labbra, permettendo alla sua voce di esprimere quei pensieri colmi di confusione, «non lo sono più, Mamo-chan.»

Mamoru lesse lo specchio della sua anima; quelle iridi lucide, quel viso malinconico, quei capelli che il sudore rendeva un tutt’uno con la sua fronte, gli fecero provare di nuovo quel calore allo stomaco che, seppure fosse un medico, non riusciva a capire.
“Perché mi guardi così?” pensò tra sé, scrutando quegli occhi come se fosse la prima volta, trovandovi un’intensità nuova che lo fece sentire in colpa per come le si era rivolto. “Che le sta prendendo?” Non riusciva a darsi delle risposte.
Perché non si arrabbiava? Poteva fare una linguaccia o usare dei toni scocciati per essere stata trattata da bambina. Invece no. Non era per il dolore, né per la febbre, di ciò ne era certo conoscendola. Lei lo aveva chiesto con una tale dolcezza, come se essere guardata e trattata da adulta fosse l’unica cosa che desiderasse, l’unica cosa importante.
«Scusami» continuò con voce pentita, non riusciva a scherzare più neanche lui. Non insisté, lei avrebbe continuato a dire di no, non si sarebbe fatta visitare. 
Si alzò dal tavolino. Avrebbe voluto darle un bacio sulla fronte ma si limitò a dirle: «Io devo andare.» Si schiarì la voce. «In caso, mi raccomando, chiama mia madre.» 
La vide annuire debolmente prima di richiudere la porta alle sue spalle. Sospirò.
  
  
  
Erano le 00.25 quando il giovane medico si avviò verso il distributore automatico posto alla fine del lungo corridoio del reparto di chirurgia. Selezionò un caffè amaro e attese che la spia gli indicasse di poter prendere il bicchiere.
Dalla grande vetrata di fronte a sé la pioggia non intendeva smettere di scendere fitta e veloce; un lampo improvviso schiarì di giallo il cielo nero. Scosse la testa, prendendo il suo caffè e sorseggiandolo cautamente.
L’immagine di Usagi si presentò nella sua mente al secondo rombo di tuono. Chissà come stava, chissà se stava avendo paura. Forse dormiva già. 
Il suono del suo cercapersone lo destò da quei pensieri troppo insistenti; gettò via il bicchiere ormai vuoto nel porta rifiuti e raggiunse le infermiere che attendevano l’ascensore in fondo al corridoio. Sospirò. Doveva dirigersi verso la sala operatoria. Un intervento urgente di appendicectomia lo attendeva.


Il punto dell'autrice

27.05.2020
Finalmente sono tornata a revisionare quanto scritto anni fa. 
Nella mia mente certe scene sono molto belle, spero di averle migliorate in questa nuova versione. 
Dal capitolo 5 potrò integrare tante parti e dare spazio a personaggi per ora solo presentati di sfuggita. In questa revisione dei primi capitoli 4 mi sarebbe piaciuto farlo ma sto cercando di non alterare troppo il testo, sarà nel proseguo che riprenderò a scrivere secondo il mio stile di adesso e secondo le consapevolezze delle "falle" di questi capitoli iniziali. 
In ordine a Usagi: i suoi stati d’animo alla vista di Mamoru in parte sono dettati dalla solitudine, in parte dalla febbre, e in parte da un nuovo sentimento che si alimenterà piano piano. Per quanto riguarda Setsuna e Mamoru, i loro stati d'animo verranno approfonditi, per mia scelta, nel capitolo successivo. 
Spero questa nuova versione possa piacervi, i vostri pareri sono importanti per me.
Un abbraccio, a presto

Demy 
   
 
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