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Autore: Kimmy_90    02/10/2011    1 recensioni
Rotolano sotto il cemento i rumori dei Branchi. Ringhiano, graffiano, mordono. Lottano.
Per Gioco.
Fra di loro si chiamano Demoni e Bestie. Sono ragazzi, sono uomini – a volte sono bambini, anche se è raro che un Branco ne accetti uno. Sopra il cemento non ne sa niente nessuno. O quasi.
Fintanto che rimane un gioco, il sangue che cola è semplice divertimento.
Ma ogni gioco viene scoperto, in un modo o nell'altro. E ogni gioco ha le sue regole.
La ragazza levò lo sguardo, continuando, passivamente, ad eseguire gli ordini.
Ma sì, in fondo gli ordini di Riva si eseguivano volentieri.
Credeva.
"Hai due possibilità, Sara. Se vuoi, puoi benissimo far finta che non sia successo niente. Cancella questa giornata dalla tua testa e vai avanti. Sul serio."
L’idea l’attraeva.
"Ma se pensi, anche solo lontanamente, che tu non sia in grado di ignorare completamente questa cosa, è un altro paio di maniche."

// Fantasy contemporaneo cambientato in Italia tra gli anni '70 ed oggi. //
Genere: Azione, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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7



7. Ferita



Alessandro  si passò  le dita sulla fronte, gli occhi socchiusi e contornati dai segni di una notte passata a pensare. Dopo qualche istante si tolse la coppola dalla testa, meditabondo, scrutando con fare lontanamente assorto il portone del liceo.

La sua tana, i suoi ragazzi, la sua vita. Metà di essa, per lo meno – no, più di metà.

Per la prima volta da almeno vent’anni il professor Riva non aveva la benché minima voglia di entrare in classe e fare lezione. Indipendentemente dagli allievi.

Si dondolò sulle gambe, assorto.



La superficie del banco era piacevolmente fredda. Gonfiò le guance d’aria, sollevando minimamente il capo dalla posizione di totale abbandono che aveva assunto: zigomo pressato contro la plastica, volto quasi del tutto occultato dai boccoli sparpagliati in modo casuale, braccia a penzoloni, posizione ben lontana dall’essere composta sulla sedia. A stento, nel suo campo visivo, compariva il margine della porta dell’aula - occultato, ogni tanto, dall’andirivieni dei compagni al pascolo.

Sara sbuffò.

«Quindi non vengono?»

«Nho.»

Nora, seduta dietro di lei, si sporse, allungando il braccio per togliere uno degli infiniti riccioli dell’amica dai suoi occhi. Dopo aver contemplato per un isto il risultato, ripeté il movimento, cercando di sgomberarle lentamente e metodicamente il volto. 

«Che vigliacchi. Sono io quella che stava male.»

«Non che Dimitri e Ste fossero tutta salute...»

«Ma – mph.» La ragazza si voltò dall’altra parte, vanificando gli sforzi certosini dell’altra – il volto nuovamente inondato da ciocche di ricci scuri. «Elisa non ha scusanti.» mormorò, chiudendo gli occhi.

Nora si ritrasse, rinunciando definitivamente a cercare di intrattenere un discorso coerente con Sara: quando si metteva d’impegno, sapeva lamentarsi ad arte. La scrutò di sfuggita, mentre controllava la porta dell’aula, domandandosi perché non avesse optato anche lei per ‘restare a casa’ – o, come si confaceva di più all’occasione, rintanarsi in un posto con dei divani particolarmente morbidi e fiumi di caldo caffè.

«Riva è scomparso.»

«Mph.»

«Non l’ho mai visto fare così tanto tardi.»

«Starà marinando pure lui.»

«Sara...»

«Uff.»

Schiuse gli occhi, rimirando il grigiore oltre la finestra con la stessa attenzione con cui si fissa apaticamente una soap. 

Vigliacchi. Non avevano il diritto di saltare bellamente lezione. Diamine. Se non lo faceva lei - che, andava ripetendosi, era stata non male, di più - , perché diavolo dovevano farlo loro?

«Sai, ti si sente rodere sin qua.» sussurò flebile l’amica.

Sara si risistemò composta, scuotendo il capo.



***



Allen passò un tempo imprecisato davanti allo specchio, quella mattina. Si fece la barba con calma, insolitamente vicino al vetro – l’occhio, attento, che passava in rassegna la pelle del volto. Anche dopo aver finito la routine mattutina – svoltasi decisamente a rilento – rimase a lungo immobile, impegnato nello studio dell’immagine riflessa. Si passò più volte le mani sugli zigomi, sulle arcate delle sopracciglia - si massaggiò le tempie, respirando profondamente.

«Xander, sei ancora lì?» domandò, la voce abbastanza elevata da oltrepassare la porta del bagno.

«Sì.» rispose quello, in un mugugno.

«Hai intenzione di fare qualcosa, oggi?»

«Cos’è, retorica?»

L’uomo non badò minimamente al tono del ragazzo, catturato piuttosto da un bagliore ambrato: si avvicinò di scatto allo specchio, osservandosi attento l’iride.

«... zio.»

Sì. C’era. C’era qualcosa.

Schioccò la lingua sul palato, allontanandosi, cercando di tornare ad osservare la sua immagine nell’insieme.

«Ohè – vecchio!»

«Eh!»

«Sveglia!»

«Xander, bada a come parli –» tentò di improvvisare un tono autoritario, abbastanza poco convinto di esserci riuscito realmente.

«Io? Sei te che inizi le discussioni e non le finisci.»

Allen sbuffò, ingobbendosi.

«Vai ancora a scuola, sì o no?»

«Sì – sai, sono minorenne

«Non mi pare che centri con gli obblighi scolastici –»

«Vado a scuola.» sibilò il ragazzo, tagliando corto.

«Allora perché sei ancora in casa mia?»

«Perché il cesso è occupato da più di mezz’ora!»

L’uomo tacque, sopprimendo un insulto. Tornò a guardarsi, per l’ennesima volta, allo specchio: era tutto normale. Normalissimo. Non fosse stato per quella piccolissima corona giallastra che gli abbracciava la pupilla, lontanamente oblunga. Una cosa innotabile – anzi, fisiologica. Era decisamente umano avere una colorazione dell’iride del genere. E la leggera asimmetria non si vedeva nemmeno: forse lui stesso se l’era inventata, cercando ciò che non c’era.

Eppure si sentiva strano. I volui in eccesso oramai erano quasi inpercepibili, la situazione si presentava più che normale. Si era imbottito di ‘acqua’ – com’è che la chiamavano, all’epoca? Acqua santa? Ma solo per gioco, non aveva un nome reale. ‘Quella roba’. Che cambiava, a seconda del branco - oh, bhe, la loro era la migliore, ma...

«Quante ore vuoi farmi saltare, zio?»

«Attaccati.»

Continuava a perdersi nei suoi pensieri, richiamato di volta in volta alla realtà dalla voce strascicata del ragazzo.

L’importante, concluse, era che non si notasse nulla. Non era il caso né il momento di mettersi ad indagare. Lo avrebbe fatto dopo, quando non c’era un ancoraperpocominorenne a giragli per casa, lamentoso e ignaro di quello che stava combinando - e di cosa stava rischiando.

              ‘ Il nostro gattino nero – attento, che se ti attraversa la strada porta sfortuna! ‘ – e risate.

Aggrottò le sopracciglia, cercando di far tacere quell’eco femminile che aveva preso a danzargli in testa.

Uscì dal bagno, girando lentamente la chiave: Xander lo scrutava dalla poltrona dell’open space, dove giaceva  con un polpaccio abbarbicato sullo schienale.

«Muoviti.»

«Da che pulpito – !»

Il ragazzo si alzò stancamente – Allen, rapido, prima ancora che quello potesse concludere il movimento, lo strattonò per la felpa e lo buttò oltre la porta con una sottospecie di pedata.

«Guarda che è maltrattamento di minore – » mugugnò quello, cercando di mantenere l’equilibrio mentre l’altro lo tirava di qua e lo lanciava di là.

«Muoviti.» rimarcò Allen.



***



Alle otto e venticinque anche Sara iniziò ad avere qualche pensiero circa la probabile assenza di Riva. O meglio, l’improbabile assenza – che fine aveva fatto? Quell’uomo aveva tenuto lezione persino con gesso e collare: doveva rischiare la vita per non comparire a scuola – vedere per credere. Uno spettacolo, sì, ma alquanto scocciante per chi spera in una pausa ogni tanto fra un autore latino e l’altro, tanto per riprendere fiato. Ma no, Riva non mancava mai, salvo casi spudoratamente eccezionali. 

Mentre Nora, già in agitazione da dieci minuti, passeggiava su e giù per l’aula domandandosi se fosse effettivamente il caso di andare a chiedere notizie al bidello, Sara si tirò su dalla sua posizione da vegeto apatico e decise di guardarsi attorno - forse per la prima volta da quando aveva messo piede a scuola, quella mattina. 

Il banco di Dimitri rimaneva desolatamente vuoto. A parte ciò, la luce grigiastra del giorno illuminava a stento la stanza, in cui la penombra aleggiava. Poco più in là, in primissimo banco, Mattia dormiva.

Tipico di Mattia.

«Vado a cercarlo.» concluse Nora, dopo un lungo titubare. La sua voce, perennemente fioca, si fece a stento largo fra il brusio dei compagni – che però non la ignorarono, ma semplicemente annuirono distrattamente. 

Nora era così, pensò Sara, rigirandosi per l’ennesima volta sulla sedia per tornare ad acquisire una posizione comoda e scomposta sul banco: parlava poco e sussurrava, ma non per questo era remissiva. Un caso curioso, tutto sommato – ma neanche troppo. Forse era la chiara dimostrazione che, in contesti abbastanza civilizzati, non serviva urlare per farsi ascoltare, ma bastava l’aura di buon senso e tranquillità accompagnata da minimo di desiderio di comunicare anziché lo stretto bisogno imporsi.

La ragazza scosse minimamente il capo – che discorsi fai, Sara? Basta pensare, per una buona volta: ti farebbe bene. Dicono tutti così.

Sbuffò.

Non era certa del fatto che tutti i suoi neuroni fossero connessi. Era stanca, ancora leggermente provata dal sabato sera e dalla convalescenza domenicale. Qualunque cosa le fosse presa - perché si rifiutava categoricamente di pensare che fosse stato quel po’ di alcol ingerito a far tutto quel caos - continuava a trascinarsi nel tempo, fiaccandola. Più o meno come un antibiotico.

Ed anche la testa, se lasciata vagare per conto suo, iniziava ad andare alla deriva verso lidi inaspettati. Tanto per fare un esempio, si ritrovò a fissare gli occhi chiusi di Mattia, semi nascosti dalla frangia rossastra, senza motivo alcuno - forse, semplicemente, perché erano la cosa ferma più vicina da fissare.

Il mondo, il tempo - tutto andava a rilento.

Piatto, ritmico – no, termine sbagliato, com’è che si diceva? Monotono. Il massimo dell’emozione era l’assenza di Riva. Interessante.

Com’è che non ci aveva mai pensato prima?

Scosse nuovamente il capo, disorientata dai suoi stessi pensieri. Forse stava per addormentarsi - erano quel tipo di discorsi che iniziano a navigare per la testolina giusto un attimo prima di cadere fra le braccia di morfeo: insensati, lasciati liberi di galoppare mentre la coscienza o chi per lei si rilassa e manda a quel paese la giornata e lo stress.

Continuava a fissare Mattia.

Immotivatamente.


Vide la figura della Focardi davanti al banchetto del bidello, intenta ad annuire mogia – il volto in malcelata apprensione.

Tanto scalpore faceva un minimo ritardo? si domandò, avanzando verso di lei con un sorriso abbozzato quasi per sbaglio. «Perché non sei in classe, Nora?»

Quella si voltò con minuscolo scatto, sorpresa - poi perplessa, infine tranquillizzata.

«Scusi.» mormorò, affatto dispiaciuta. «L’ultima volta era stato investito dal tram, iniziavamo a temere il peggio.»

«Iniziavi, suppongo.»

«Hm – em. No...?» L’affermazione del professore la disorientò, tanto da farle alzare in modo insolito il volume di voce.

«Arrivo fra cinque minuti, scusate.» tagliò l’uomo, prima di mandare troppo in agitazione la studentessa. Eppure parve non riuscire a contenersi nell’aggiungere, con una punta di sarcasmo: «Questa volta il tram mi sono limitato a perderlo. Sarà per la prossima volta.»

«Ma –» Nora sfiatò, rinunciando a rispondere. D’altronde il tono di Riva era – al solito – talmente pacifico che quella non poteva altro che essere una battuta buttata lì per caso. L’uomo le sorrise, salutando poi il bidello e voltando le spalle per allontanarsi verso l’aula professori.


Sara riaprì gli occhi, dimentica del preciso istante in cui li aveva chiusi. Lo sguardo, ad ogni modo, rimaneva fissato sugli occhi di Mattia. Si risistemò sulla sedia, domandandosi se non fosse il caso di provare, almeno, a distoglierlo – voltandosi dall’altra parte. Tanto per non far venire idee strane agli altri della classe, con tutto quello scrutare.

Eppure pareva troppo faticoso a farsi.

Forse, tutto sommato, richiudere le palpebre era un’opzione migliore.

       Si rivelò una pessima idea.


La sensazione di disagio non se n’era mai realmente andata: in serata s’era affievolita, facendosi morente oramai nella notte – ma persisteva, lontana, vaga, insistente, mai totalmente muta.

Appese il giaccone, scuotendo il capo.

Forse era il momento di smettere di pensarci, lasciando sedimentare le idee. Se fino ad ora non era riuscito a venire a capo della situazione, probabilmente non ce l’avrebbe mai fatta – non con i pochi dati e dettagli di cui disponeva. Ema era già partito a caccia di informazioni, setacciando contatti sparsi in tutta Italia e in tutto il mondo: si trattava, di fatto, solo di avere pazienza.

E cercare di liberarsi di quella sensazione.

Attento, Ale. Attento.

Cosa sta succedendo?

Volui ovunque, ancora. Oramai rarefatti, ma – oh, c’erano, c’erano, non riusciva ad ignorarli. Non facevano niente. Forse. Forse sì?

Sbuffò, lo sguardo alla ricerca di un orologio. Basta, adesso. Adesso basta.

Adesso.

Basta.

No.

La mascella gli si irrigidì di sua sponte, i denti serrati e i fasci dei muscoli tesi, pronti ad esplodere.

Silenzio.

Il fiato gli morì nei polmoni, immobili, poi pressati dal rapido risucchio del diaframma.

Buio.

E silenzio.

E immobile.


Non capì se il mondo era diventato nero prima o dopo aver serrato le palpebre. Gli occhi le facevano male, i muscoli talmente tesi e stretti da trapanarle la testa, i bulbi oculari pressati e il nervo ottico stressata intento a mandare segnali confusionari al cervello.

Fece per muoversi, ma come osò anche un solo movimento si accorse di non stare respirando più.

Galleggiava.


Inspirò con la foga di chi è stato troppo tempo sott’acqua, perdendo l’equilibrio e dovendosi riassestare sulle gambe, intorpidite, per non cadere direttamente a musata sul pavimento.


Cercò di riaprire le palpebre, fallendo un paio di tentativi: al terzo ebbe la sensazione di stare sollevando un peso abnorme mentre qualcuno le spaccava il cranio in due. Sfocata e grigia le giunse l’immagine della stanza, Mattia davanti a lei, silenzio – interrotto da un fischio lontano. Ogni atomo sembrava immobilizzatosi. Era tutto fermo.

Poi riprese a muoversi, di colpo, con uno strappo.

Mattia aprì gli occhi, levandoli su di lei.

Erano occhi rossi.

No, non erano rossi.

Erano occhi da cui sgorgava sangue.

No.

Sì.

Anche.

Rosso.

Erano i suoi occhi a lacrimare, si accorse – dipingendone l’immagine, imbrattando di scarlatto ogni cosa che vedeva.

Mattia la fissava, l’espressione in volto del tutto intraducibile.

Sì, era sangue. E il nero, attorno alla sua figura. E il nero e basta. 

Un grido lontano, acuto. Un iride nero.

Uno sbuffo di narici.

Un colpo.

Sara si ritrovò a mezz’aria, squilibrata, intenta a cadere: terrorizzata fece per raggomitolarsi, onde evitare di subire troppo male il colpo.

Il suo corpo non la ascoltò minimamente: i muscoli le si mossero elastici sotto la pelle, agili, rimettendola in equilibrio e rapidamente in piedi senza che lei non riuscisse nemmeno a comprendere con quali movimenti ciò era potuto avvenire. Apprezzò per un istante il piacere del pavimento, solido, sotto i piedi equilibrati: fu come un rimbalzo, magistralmente assestato - si ritrovò in avanti, lanciata, nuovamente a mezz’aria.

Poi la sua testa decise che il dolore era troppo grande per continuare a registrare dati al riguardo.






   
 
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