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Autore: Callie_Stephanides    08/10/2011    2 recensioni
È un vento epico, quello che sfiora Sasuke e Itachi, nell’ora più buia della storia di un clan maledetto e potentissimo.
È un vento che sa di guerra e di vendetta, come di un amore indicibile che corre nel sangue e nel sangue muore.
Sakura racconta le ultime ore di Konoha e la privatissima, desolata guerra di un ragazzo che non l’ha mai vista davvero, perché dietro ai suoi occhi, no: lei non c’è mai stata.
[ATTENZIONE: what if post cap. 351 del manga]
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Akatsuki, Itachi, Un po' tutti | Coppie: Sasuke/Sakura, Shikamaru/Temari
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
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Fu la maestra Tsunade a insegnarmelo.
Pensandoci bene, fu lei a inculcarmi tutto quel che avrebbe fatto di me un ninja e una donna.
Non che il maestro Kakashi non mi avesse dato abbastanza, ma era quasi fosse scritto, da qualche parte, così minuto che a fatica avresti potuto leggerlo, che solo una donna avrebbe potuto parlare al mio cuore di donna – una specie di lascito della tradizione e della memoria – perché le donne sono diverse, malgrado tutto.
Anche se possiamo vivere come uomini e a volte ci piace fingere di non essere inferiori in nulla, la verità è che c’è sempre quel qualcosa che ci rende uniche. Che ci rende fragili o fortissime. Per questo avevo bisogno di una maestra come Tsunade.
A volte, quando mi capita di ricordare con Ino quei giorni – sembrano trascorsi eoni da che eravamo solo due ragazzine in competizione per tutto – ripenso a quanto fosse più matura e consapevole lei, che pure non era dotata come me.
Io decisi di scrivermi un destino che non avevo mai immaginato in vista di un obbiettivo che non avrei probabilmente mai raggiunto. Ino, per contro, si era guardata intorno e aveva compreso la storia meglio di me. Non c’era nessuno che valesse più di un altro, solo un gran bisogno di sopravvivere.
È con una punta di orgoglio, però, che penso a come per Tsunade, dopo Shizune, ci sia sempre stata io – una specie di allieva prediletta, diciamo. Oppure, com’è accaduto a Jiraiya con Naruto, uno strano specchio in cui cercare l’emenda della memoria.
Io potevo essere più felice di come era stata la mia maestra e il Quinto Hokage fece il possibile perché ciò accadesse. Non mi nascose mai la crudeltà della lezione più importante che la vita possa dare, ma mi armò perché potessi sopravvivere.
Tant’è che arrivai alla Valle della Fine assieme a tutti gli altri.
La maestra Tsunade mi diceva sempre che la felicità è una condizione soggettiva e volubile; che non potevo credere davvero che dipendesse dal riprendermi Sasuke, perché Sasuke, per quanto potesse essere un pezzo del mio cuore, non lo era anatomicamente. Non era mio, cioè. La felicità era una forza personalissima, egoista e tutta mia. Potevo raggiungerla solo diventando almeno un grande ninja, perché un grande ninja non ha bisogno di ricordare la regola numero venticinque. È la regola numero venticinque.
Per la verità, quando vidi in concreto cosa ciò implicasse, ho pure capito che non m’importava diventare un ninja perfetto. Forse la mia felicità poteva essere la disperazione di Temari, com’era quella di Kurenai: portare nel grembo la creatura di un uomo che non sarebbe vissuto abbastanza da darle un nome.
Volevo un figlio da Sasuke?
Non è qualcosa di scontato e lineare come appare, perché non lo è la vita. Forse mi illudevo soprattutto di poter riscattare l’abisso che viveva dietro ai suoi occhi; abbracciare il bambino ch’era rimasto solo a soffiare il fuoco delle proprie illusioni.
Ma Sasuke era cresciuto e la sua felicità era diversa dalla mia. Era vissuto nell’amore per la prima metà di una brevissima vita, poi in un dolore tanto forte da consumare ogni suo ricordo. Da consumare persino il futuro.
I due guerrieri che si sfidarono, si massacrarono, si torturarono e ci torturarono con quella vista aberrante nella Valle della Fine, erano quanto l’Accademia avrebbe voluto produrre: erano due macchine da guerra. Senza sentimenti.
Di Itachi, in quegli anni, avevo sentito abbastanza per non stupirmi davvero di niente. A sorprendermi, forse, fu il fatto di trovarmi davanti agli occhi qualcuno che non era spaventoso, enorme e orribile come avevo creduto.
Quel giorno Itachi si disfece dei paramenti dell’Akatsuki, pur essendone l’ultimo superstite.
Quel giorno non entravano in conto né Alba, né Orochimaru, né nulla: era un rito degli Uchiha, officiato nel nome di una memoria maledetta dai giorni di Madara.
Quel giorno Sasuke non era né mio né di Naruto, eppure lo sentivamo entrambi in noi come qualcosa che avevamo perso. Come qualcosa che ora, soprattutto, comprendevamo di aver smarrito del tutto.
“Sasuke ha qualcosa di strano,” mormorò all’improvviso Uzumaki – la sua vista acuta come quella di una volpe, ma animata da colori e sentimenti che Kyuubi poteva solo immaginare. Anche Gaara, immobile al suo fianco, strinse le palpebre sottili per fissare un orizzonte in cui tutto pareva annientato dal chiarore abbacinante del sole e dal venefico splendore di quelle aure.
“Qualcosa in più del solito?” provò a scherzare Sai, con quella sua irritante e quasi commovente insensibilità ai climi, ai registri e all’opportunità stessa. Nessuno ebbe modo di irritarsi, però, perché fu come se un veleno si fosse diffuso nell’aria che respiravamo, quando gli occhi di Sasuke si armarono della loro bellezza più segreta e pericolosa.
Lo Sharingan ipnotico.
Se Itachi – la sua voce controllata e freddissima – non gli avesse domandato per primo come fosse riuscito a ottenerlo – lui ch’era un coniglio al punto da non osare neppure sfiorare quelli che chiamava ‘amici’ – forse avrei violentato sino in fondo il mio ego più morbido e vulnerabile e gliel’avrei chiesto di persona.
Perché sono curiosa. Perché ormai ero abbastanza consapevole di tutto quel che riguardava gli Uchiha da sentirmi parte di una storia che non era la mia, eppure mi era entrata dentro sino ad avvelenarmi.
Sasuke si era allontanato indolente la frangia troppo lunga dagli occhi, quasi a mettere ulteriormente a nudo la crudele bellezza di quelle pupille armate. Non eravamo noi il suo pubblico, ma suo fratello. Era l’unico che desiderasse forse impressionare.
Itachi, però, era il solo che poteva guardare lo sharingan senza abbassare il capo.
“Non credere, sono il primo che se n’è stupito.”
La sua voce suonava tanto fredda che avrei voluto non fosse la sua. Come diceva sempre la maestra Tsunade, però, non basta negare la morte per diventare immortali: così era inutile ingannarmi con il ricordo, se Sasuke era lì. Era quel che vedevo. Nulla di meglio. Nulla di diverso.

“Sei stato tu a dirmi che avrei potuto ottenerlo. Dimostrarti che potevo farlo a modo mio era il minimo che potessi fare.”
Un tempo, quando parlava di Itachi, Sasuke palesava sempre una sfumatura rancorosa e viva nella voce. Considerando che si trattava pur sempre di suo fratello, non era qualcosa che avresti detto piacevole, ma era almeno umano.

La maestra Tsunade non mi ha insegnato a negare l’odio, ma a non farmene sopraffare. Un rancore canalizzato come deve è forza. Un risentimento senza costrutto, per contro, una trappola mortale. Quella in cui è caduto Sasuke, in fondo.
Il tono che usava allora, innanzi al proprio fratello, era depurato da ogni accento. Lo metteva a parte di un segreto che non era neppure tale, con una leggerezza studiata – una freddezza sepolcrale, direi.
Naruto si mordeva le labbra e restava in ascolto. Non c’era una sola di quelle parole che non lo pungesse nel vivo e lo ferisse come forse Sasuke avrebbe preferito colpire la propria preda, ma Itachi era al di là del bene e del male. Uchiha non aveva capito di averlo perduto eoni prima: si era spinto troppo avanti persino per rendere pensabile una vendetta.
Avrebbe avuto senso, poi? Io dico di no.
Eppure fremevamo, perché il segreto di quegli occhi ci apparteneva dal momento in cui avevamo giurato a noi stessi di non perdere un compagno; di riportarlo indietro, qualunque fosse il costo.
Itachi non si scompose. Non gli disse quel ‘bravo’ che forse Sasuke supplicava da sempre – lo stesso per cui si era venduto – ma neppure la sua espressione mutò, come pure avevo sperato, il che stava a dire che ora Sasuke era come Itachi.
Quello non era un vero dialogo: imbandivano un banchetto dell’orrore delle loro ideali mercanzie.
E Uchiha svelò infine come aveva ottenuto lo sharingan ipnotico. No, non aveva dovuto uccidere qualcuno che sentiva quasi parte di sé, ma chi aveva odiato sino ad amare come il migliore dei maestri.
Era un ossimoro atroce, eppure, al contempo, quello che l’aveva trasformato sino a quel punto.
Cos’era accaduto in quei quasi tre anni? Che rapporto aveva costruito con Orochimaru?
Continuamente domandavo alla mia maestra del Sennin che aveva tradito Konoha, perché mi dicevo che in quel gioco drammatico di rispondenze forse avrei anche trovato la soluzione. Ma il Quinto Hokage mi ha dissuasa da certi giochi, ricordandomi una volta in più che crede alla linearità e non alla circolarità del tempo.
“Orochimaru non era come Sasuke.”
L’ha scoccato subito, impietosa. Non era così fragile e neppure così emotivo.

Orochimaru aveva una bellezza non umana, degna dei rettili che amava tanto, e come i rettili si insinuava tra le pieghe della tua coscienza, ti possedeva e ti strangolava.
Cosa può darti un maestro del genere?
“Una pericolosa illusione, bambina,” mi ha detto Tsunade, e la storia le ha dato ragione.
Nel covo di Orochimaru, Sasuke cresceva all’ombra e nell’ombra. Come diceva sempre il Terzo Hokage, non puoi togliere la luce a una pianta e credere che non crescerà storta, ma Orochimaru fece proprio quello. E Sasuke, poco a poco, deviò.
Fu la maestra Tsunade a insegnarmelo: è così che ho esordito in questa pagina da bruciare assieme a troppi ricordi inutili e dolorosi, ma non ho detto cosa.
Fu lei a dirmi come la bestia più feroce, quando la domi, rallenta poco a poco ogni proprio movimento. C’è qualcosa di languido e apatico nei suoi gesti; qualcosa che sa di rinuncia e di una libertà perduta in modo inevitabile.
Come tutti i Sennin evocatori, la maestra Tsunade conosce molto bene gli spiriti della natura e delle forze animali: non avevo ragione di dubitare di lei. Mi sorprendeva più applicare un simile insegnamento a quel che stavo vivendo.
Sasuke somigliava a tratti a una belva domata. L’avevo realizzato per la prima volta proprio quando ci rivedemmo – e la sua espressione impenetrabile ci irrideva dall’alto.
C’era sempre stata un’imperturbabilità curiosa in lui, persino quando lo vedevi allenarsi e combattere, ma era la lentezza che nasce dalla riflessione e dal calcolo. Quella, per dire, che accompagna anche Shikamaru quando gioca allo shogi o costruisce dal nulla un piano.
È una tranquillità virtuosa, laboriosa e vigile, non quell’intorpidimento sinistro, quella totale atonia morale che trovammo in lui.
Sasuke era stato corrotto persino nei suoi tempi, che pure erano un segno delle sue radici e della sua identità. Non mi stupirei nel sapere che ha pure ucciso così, con quella strana abulia che coglievi dietro ai suoi occhi, perché dietro ai suoi occhi non c’era la più piccola scintilla d’amore.
Non so quand’è morto Orochimaru e neppure mi interessa. Senz’altro non avrei pianto per lui come fece Anko, che non è mai riuscita del tutto a dimenticare l’uomo che coglieva i bambini quasi fossero fiori. Eppure c’è qualcosa che posso dire, qualcosa che viene dal cuore stesso di Konoha e da tutto ciò che ho imparato in questi anni.
Qualcosa che le lacrime di Anko raccontavano fin troppo bene.
Per quanto possa essere spregevole; per quanto sia un essere repellente e crudele, tu non puoi uccidere il tuo maestro. Non puoi macchiare le tue mani e la tua memoria con un’azione tanto vigliacca. Un maestro è un tuo secondo padre, perché educa qualcosa che la famiglia non può cogliere.
Un genitore ti mette al mondo e non potrà mai fare a meno di vederti come una sua proprietà. Il maestro, invece, è l’artista che sgrezza l’idea contenuta nel granito informe. È il primo adulto che ti riconosce come tale, che ti plasma, che ti aiuta a essere davvero te stesso, senza compromessi e ipocrisie.
Per questo, però, tu non potrai mai avere il coraggio di ferirlo. E se lo fai – Gaara lo sa bene – ti porti dentro quella ferita per tutta la vita.
Eppure Sasuke aveva ammazzato Orochimaru; non solo per la propria sopravvivenza, ma perché ormai era arrivato al punto da sentirsi superiore a tutto, persino all’etica di Konoha.
Mentre eravamo in marcia verso la Valle della Fine, Gaara raccontò a Naruto un po’ di sé. Lo fece per dargli coraggio, credo, e per fargli capire che non era stata colpa sua, se Sasuke era deragliato senza rimedio.
Il Kazekage della sabbia narrò di come avesse ammazzato l’unica creatura che gli avesse dato un po’ d’amore. Di come quello avesse devastato per sempre la sua capacità di guardare al futuro, perché se realizzi con orrore che la tua esistenza è uno sbaglio, qualcosa da combattere e svellere come imperdonabile obbrobrio, allora ti abitui a vivere a dispetto di tutto e tutti. A farlo, piuttosto, per sfidare tutto e tutti.
È nella reciprocità dell’affetto che impari a riconoscere il valore della vita: Gaara c’era riuscito ed era diventato un eroe amatissimo.
Sasuke, per contro, aveva rinunciato a quella via per percorrerne una inversa, una strada scellerata bagnata persino dal sangue di un delitto orribile.
E quasi me lo vedo, il mio Sasuke, nell’ombra di quel covo spaventoso, muoversi con la pigra indolenza di una fiera in caccia. Orochimaru pensa solo al momento in cui ruberà il suo corpo, i suoi occhi maledetti e la straordinaria invincibilità della sua giovinezza, ma Sasuke ha appreso fino in fondo la lezione che quel Serpente gli ha inoculato con il suo veleno.
Orochimaru ha ammazzato il Terzo Hokage. L’ha fatto malgrado sapesse di essere più potente di un vecchio guerriero che aveva sempre amato la pace; malgrado quelle mani callose avessero accarezzato i suoi capelli e gli avessero raccontato una storia felice per annichilire la solitudine di un cuore orfano.
E Sasuke, che pure di quel farmaco orribile si è nutrito, sino a farne il latte di una nuova crescita, si muove entro il ventre di una terra sterile, incontro al destino e all’omicidio. Non gli importa quanto indebolita sia la preda: è il rito di un’iniziazione orribile, perché forse sa che se il suo polso non tremerà mentre il chidori diventerà la lama che squarcerà il petto del suo mentore e della sua nemesi peggiore, allora neppure Itachi sarà più un ostacolo insormontabile.
Lo sharingan brilla nell’oscurità, come un faro crudele. Passo dopo passo, con lentezza esasperante, l’esecutore scandisce immobile gli istanti e i metri che lo separano dalla preda.
E gode, dentro.
Gode di quell’attesa e gode al pensiero del teschio stravolto dalla sorpresa e dal terrore di Orochimaru, quando comprenderà che il gioco si è spinto troppo oltre ed è finito.
Ora è davvero finito.
Quei pensieri mi percuotevano come raffiche di un vento invernale, gelato e minaccioso, mentre la brezza estiva faceva ondeggiare le chiome nerissime di Sasuke e di Itachi.
Fissavo quei suoi occhi rossi per non vedere proprio niente, perché oltre quelle due polle di sangue rappreso non c’era più nulla di quanto avevamo diviso.
Dietro ai suoi occhi, forse, io non c’ero mai stata.

Nota: approfitto di questo spazio per ringraziare ancora una volta Erika e la casa editrice UR per aver fatto del mio racconto Pelle Nuda il biglietto da visita della pubblicazione imminente, e così ringrazio quanti lo hanno letto e hanno speso bellissime parole per commentarlo.

   
 
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