Ricordo molto bene l’impressione profonda che mi fecero le
parole della Maestra Tsunade.
Non ero sola, per fortuna, e specchiarmi nell’incredulità di
Naruto fu ancora una volta il balsamo di cui avevo forse bisogno. Soprattutto,
ascoltando le proteste di Uzumaki, mi fu risparmiato di dover vestire quel
ruolo, perché anch’io, alla notizia che Orochimaru fosse morto, avrei voluto
esultare e gridare al mondo: ‘Perfetto, allora! Vuol dire che Sasuke tornerà a
casa!’ – il che era l’apoteosi della stupidità, perché io sapevo che a Uchiha
non importava niente del Serpente: quello era stato solo il demone che l’aveva
destato.
L’obiettivo di Sasuke era Itachi; una meta che non era mai
cambiata, perché non puoi trascinartela dentro per mezza vita senza che ti
possieda del tutto.
Eppure, con la morte di Orochimaru, il nostro fronte cambiò.
Forse, anzi, fu proprio l’essenziale momento in cui realizzammo di aver letto
sempre le pagine più periferiche e marginali di una storia ch’era invece
complicatissima e troppo articolata perché le dessimo una risposta univoca.
Era quasi la morte di Orochimaru fosse il pegno sacrificale
per un’apoteosi demoniaca persino più spaventosa. Quel che ancora mi ostinavo a
negare, però, era che l’apocalittico avveniente fosse proprio Sasuke.
Naruto rimase di pessimo umore per tutta la giornata. Non
riuscivamo a separarci, malgrado non ci fosse davvero un’autentica ragione per
restare insieme: come sempre, suppongo, ci illudevamo di ricreare il Gruppo
Sette con una mistificazione della memoria. Finché, cioè, Uzumaki e io avessimo
continuato a cercare noi stessi in una vecchia fotografia, Sasuke non sarebbe
mai davvero svanito del tutto dai margini della nostra cornice. Uchiha, però,
non era più un bambino di carta: era un demonio di carne, impegnato in una corsa
furiosa contro il destino.
Contro Itachi. Contro tutto.
La notte in cui il vento incorniciò l’eco stanca delle mie
parole, facendomi cogliere tutto il patetico superfluo delle mie stanche
recriminazioni, ricordo di avergli anticipato quel che la storia gli avrebbe
riservato per certo, e che cioè non sarebbe mai stato felice.
Nessuno trova appagamento nella vendetta – diceva sempre il
Terzo Hokage per difendere Naruto – perché prima o poi si compie e allora ti
accorgi che non ti rimane più niente. A Sasuke, quella notte, lo gridai con
quanto fiato avevo in gola. Gli ricordai la famiglia che aveva conquistato e la
felicità che avrebbe stretto, se solo fosse rimasto, ma lui, con una
tranquillità che mi stupì e mi ferì, mi disse che non gli interessava. Non aveva
la minima intenzione di essere felice, cioè: a lui importava vendicare un
ricordo.
Sotto questo profilo, dunque, aveva ragione: non era come
Naruto, né come la sottoscritta. La sua era una logica che non potevamo capire,
perché ci muovevamo entro un orizzonte dinamico. La nostra vita, le nostre
aspettative erano tutte volte al futuro, a quello che saremmo diventati e a
quello che avremmo fatto. Quella di Sasuke, per contro, era una memoria senza
futuro: un orizzonte statico, compreso entro il tatami intriso del sangue dei
suoi genitori.
“Che idiota… Perché non torna?”
Naruto stringeva i pugni e non ringhiava che quelle parole.
Io fissavo la strada polverosa di Konoha e nell’impronta lieve dei miei passi
rivedevo quelli dell’ultimo giorno, senza capire.
Quel che più ha ferito di questa storia è proprio questo: il
non aver compreso niente. Non perché sia iniziata, non perché sia finita tanto
male. Eppure abbiamo avuto le risposte: peccato che non siano parse convincenti
ad alcuno.
Sai si unì qualche tempo dopo alla nostra marcia senza meta.
“Perché non gli interessa,” fu la semplice risposta che diede
all’interrogativo inquieto di Naruto. Ci arrestammo e lo fissammo attoniti,
costringendolo a schermirsi come faceva sempre, dopo averti gelato con un
asserto dei suoi.
“Scusate. Ho parlato come sempre a sproposito.” Invece aveva
detto la verità, solo che non volevamo starla a sentire. Non potevamo accettare
che un compagno – qualcuno cui tenevamo come parte del nostro stesso sangue – si
fosse dimenticato di noi. Eppure avevamo avuto quella prova. L’aveva avuta persino Kyuubi, là, nelle profondità dell’animo
di Naruto.
Quando lo ritrovammo, sull’erta di quel costone roccioso,
Sasuke non sembrava né commosso, né stupito. Quando scoccò il mio nome, fu il
mio cuore a smettere di battere, non il suo. Quando sguainò la lama, per
puntarla contro Naruto, nei suoi occhi non c’era una sola scintilla d’odio. Non c’era la minima umanità. Non c’era proprio niente.
“Non dire idiozie,” gli sibilò tesissimo Uzumaki, ma non lo
aggredì come al solito. I miei occhi si posero sulle garze che gli avvolgevano
la mano ferita: rosseggiavano come il fuoco che gli bruciava dentro.
‘Non dire idiozie.’
Se non avessi per prima sentito il bisogno d’essere
consolata, forse l’avrei abbracciato. Ci avrebbe fatto bene allora come poi, per
sentirci meno soli.
Dopo la morte di Orochimaru, le troppe vie che si erano
aperte in una storia tragica e complicata, di quelle che fiorivano sulle labbra
del Terzo Hokage per stupire noi bambini, si ricomposero: non per rendere più
chiaro il tracciato, ma per darci a intendere come la fine si appressasse.
Non una fine qualunque, poi, ma la fine, perché allo
scontro tra i fratelli Uchiha si sarebbe infine giunti per chiudere un cerchio
aperto da Madara e dallo Shodaime.
Perché Itachi desiderava tanto resuscitare Sojobo?
C’è chi ha detto inseguisse il mito della superiorità degli
Uchiha, e dunque anelasse a un ripristino della genia originaria, plasmata nella
carne e nel sangue di un demone.
C’è chi ha supposto che si fosse montato la testa al punto da
volersi provare con il più spietato degli avi, e dunque non gli costasse
massacrare la propria famiglia per una scellerata curiosità.
C’è chi ha gridato che fosse semplicemente impazzito, come
capita a volte a chi è troppo dotato, al punto da scegliere l’unica libertà che
l’eccellenza conceda: buttarsi via.
Ma io non credo alla semplicità di un solo asserto. Io voglio
credere alle parole del maestro Kakashi, che davanti ai colossi della Valle
delle Fine non poté fare a meno di pensare a quanto somigliassero a Sasuke e a
Naruto. Quanto pregno fosse il loro odio-amore della storia di Konoha.
Io preferisco credere a quel che ho visto, senza quasi
riuscire a farmene una ragione: due corpi che bruciavano come tizzoni inesausti
del fuoco nero dell’Amaterasu sotto le lune di sangue del Tsukiyom. Due fratelli
e due nemici, eppure due volti di uno stesso destino e di una stessa solitudine,
perché se è vero che Itachi aveva bisogno di Sasuke per il suo piano scellerato,
è anche vero che avrebbe potuto scegliere chiunque altro per quella commessa del
rancore e della memoria.
Un uomo adulto, magari, non un bambino. Un amico, non il
proprio stesso sangue.
Invece scelse Sasuke: lo elesse con l’orgoglio di chi vede
nel pulcino la splendida aquila che espugnerà il cielo.
Lo condannò, eppure gli rese uno splendido regalo. Chiese a
Sasuke di diventare un dio e fece del suo odio un formidabile nutrimento.
E se Itachi, infine, avesse solo scelto di morire, ma avesse
disposto per sé un esecutore?
Non sono che parole, però, e io ho già detto che non nutro
più la minima fiducia nei discorsi.
C’era un gran silenzio quel giorno. Ce n’era così tanto
ch’eravamo costretti ad ascoltare tutto, proprio tutto. Persino l’asettica
freddezza di quello spietato saluto.
“Oggi è l’ultimo giorno del clan Uchiha”: fu così che Itachi
diede inizio allo scontro, dissolvendosi in una tempesta di shuriken. Chiusi
d’istinto gli occhi e mi protessi il viso. Persino Sai si ritrasse di un passo.
Solo Naruto restò a guardare, forse pungolato proprio da Kyuubi, e le sue parole
mi sono rimaste dentro, incollate agli incubi che, di quando in quando, ancora
lasciano sulle mie ciglia i mille aghi della nostalgia.
“Quei due non sono umani.”
No, non lo erano più. Erano troppo disperati per vivere
ancora tra noi.
La Valle della Fine era anche il destino che si erano
costruiti, giorno dopo giorno. Anno dopo anno.
Quando la Maestra Tsunade ci diede quell’annuncio, però,
ancora non credevamo davvero che Sasuke avrebbe tenuto fede al proprio proposito
– non come accadde, almeno – né, soprattutto, immaginavamo di poter restare
tutti coinvolti.
Il Quinto Hokage si consultò con Jiraiya; restò assieme
all’Eremita dei rospi persino dopo averci congedati.
Orochimaru era morto.
Orochimaru, eoni prima, era stato il loro Sasuke.
Chissà se avevano giocato insieme da bambini, o riso delle
stesse storie o esultato delle stesse, piccole gioie? Chissà se l’energia di
Tsunade li aveva affascinati o non era stato piuttosto quello sguardo freddo e
vigile, d’ambra od oro liquido, a vincere su tutto? Chissà s’era poi vero che
non erano mai stati amici, o non fosse esistito anche tra loro quel legame
speciale che li aveva consegnati alla storia come i migliori? Chissà se avevano
evocato i loro protettori totemici per irridersi con le rispondenze o si erano
aiutati nel corso delle missioni più pericolose? Chissà cosa pensavano davvero,
la mia maestra e il mentore di Naruto, chiusi in quella stanza?
Al tempo ch’era passato? A quel che avevano perduto? A
Orochimaru?
Shizune aveva un’espressione tutta sua, sintetica ed
emblematica, per descrivere il Quinto Hokage. Diceva che la mia maestra aveva
dispiaceri alcolici molto eloquenti, quasi versare sake l’aiutasse a risparmiare
le lacrime. Quel giorno, però, non si ubriacò sola.
Penso a quei due Sennin, ormai consumati dall’esperienza,
seduti in terra come vecchi bambini. Il Terzo Hokage li fissa dalla montagna con
il suo viso severo, ma occhieggia anche da un ritratto alle pareti. Erano i suoi
figli. I suoi pulcini. Li ha allevati, amati, svezzati. Sono stati tutto e
niente al contempo, ma soprattutto un pezzetto di storia. Anche della sua. E
ora, mentre il gioco più pericoloso del mondo comincia – quello del “Ti
ricordi?”. Quello che ti fa sentire sempre e comunque sconfitto, perché nel
momento in cui senti il bisogno di ricordare vuol dire che hai già perso – sono
solo due superstiti, due nostalgici, due perdenti, perché il compagno che non
hanno mai recuperato se n’è andato.
Non ha neppure mai dato loro la minima spiegazione.
Non ha neppure salutato come si deve. Forse è quello che fa
più male.
Mentre la mia maestra si ubriacava di infelicità e disfatta,
Naruto e io consumavano un nostro personalissimo esorcismo: seduti davanti a una
ciotola di ramen, a non pensare davvero a niente, perché a farlo sapevamo pure
quel che ci saremmo detti.
Forse anche noi eravamo destinati a restare in due come i
Sennin rimasti.
Credo che Uzumaki provasse più rabbia di me, in ogni caso. La
mia era ansia, era frustrazione, forse persino un po’ di vittimismo, ma quella
di Naruto era l’indignazione profonda di chi ha scommesso persino più di quel
che possiede. Anche se era braccato dall’Akatsuki, anche se aveva visto cosa
avevano osato praticare su Gaara, senza la minima pietà, Naruto era persino
pronto a fronteggiare Alba, se questo poteva implicare riportare Uchiha a casa.
Perché tardava tanto? Non aveva più un maestro, non aveva più
un rifugio, però gli restavamo noi.
Invece niente.
“Non ci pensa proprio.”
“Non ne ha la minima intenzione.”
“Non gli interessate.”
Non era quello che Sai voleva dire, ma in buona sostanza era
un’indicazione altrettanto esplicita, perché Sasuke continuava per una strada
che correva forse parallela alla nostra e che per questo non avrebbe più
intersecato i nostri passi. Così credevamo, almeno;
invece la storia era una sola e ci crollò addosso.
L’ultimo colpo alla ruota si ebbe il giorno in cui a Konoha
arrivò la notizia della vendetta di Shikamaru. Sino ad allora – lo confesso –
non avevo mai davvero pensato alla guerra in corso come a un conflitto che
interessasse tutta la Foglia, anziché il Gruppo Sette. Il sadismo quasi
esasperato con cui Nara aveva vendicato Asuma, però, raccontava qualcosa di
molto diverso.
Un giorno, mentre studiavamo l’anatomia delle terminazioni
nervose, la maestra Tsunade mi invitò a riflettere proprio su quanto stavo
leggendo. Quella del corpo umano era una macchina meravigliosa, fatti di
raccordi degni di un orefice. Ogni cellula, ogni muscolo, trovava una propria
destinazione e, al contempo, una rispondenza. Non c’era azione che interessasse
una parte che non coinvolgesse pure il tutto; non c’era evento che corrompesse
una porzione pure atomica dell’organismo che non trovasse, parimenti, una
reazione altrove.
Sul momento mi limitai ad annuire, senza aver realmente
compreso il cuore autentico della sua lezione. Ora, per contro, posso dire che
mi è tutto chiaro. Persino in modo doloroso.
La maestra Tsunade mi preparava a guardare la vita e a capire
che anche a Konoha esistevano rapporti che non potevano essere letti in
un’ottica egocentrica come la mia.
Avevo perso Sasuke, d’accordo, ma non dovevo dimenticarmi dei
troppi compagni che la guerra in corso avrebbe potuto strapparmi. Una guerra cui
Uchiha aveva dato le spalle, perché a interessargli non era neppure Alba, ma un
solo, indimenticabile membro.
L’Akatsuki, però, aveva altri progetti.
C’è chi l’ha letta come un mezzo di Itachi, chi invece crede
che fosse Uchiha una semplice pedina: restava il fatto che quell’organizzazione
di demoni stesse erodendo la nostra pace felice, mirando al cuore di chi era
stato sacrificato per santificarla – come Naruto. Come Gaara – e i ninja di
Konoha non potevano restare a guardare.
Ricordo bene come Temari commentò l’esecuzione di Hidan,
perché fu una delle rare occasioni in cui la vidi rivolgere a Nara parole che
non suonassero solo provocatorie.
Era già tempo di selezionare nuovi Chunin; la sorella
maggiore del Kazekage era tornata nel nostro villaggio con un’aria ben diversa
dall’algido distacco con cui l’avevo conosciuta. Non credo dipendesse solo dal
fatto ch’eravamo ormai donne consapevoli del nostro ruolo, né dal salvataggio di
Gaara: il suo vento era mutato già il giorno in cui era scesa nell’arena
per combattere un ragazzo che non aveva la minima intenzione di vincerla.
Era stato proprio questo ad aggiudicargli la vittoria. Su
ogni fronte.
“Allora hai le palle anche tu,” gli disse, ma i suoi occhi
erano duri e non ridevano. Non sorrideva neppure lo sguardo di Shikamaru, che
alzò le spalle e disse: ‘Così pare.’ E poi si accese una nuova sigaretta.
Pure Nara aveva dunque affrontato l’Akatsuki: per una
vendetta personale, per proteggere il Re, per fedeltà a Konoha, per affetto nei
confronti di un maestro – e di un amico – perduto. Quell’esecuzione, cui sul
momento non avevo poi dato una clamorosa importanza, mi suggeriva che la
battaglia era ormai in essere e vi saremmo scivolati tutti. Senza esclusioni.
Il Quinto Hokage ci mandò a chiamare per disporre nuove
squadre e indicare gli obbiettivi che avremmo dovuto conseguire. Non era più un
gioco; non c’era più nulla che giacesse sotto una A ottimistica, perché in Alba
si condensava quanto di più feroce il livello S avesse creato. Eppure non
avevamo paura: di questo sono certa.
La maestra Tsunade fu eloquente, spietata, diretta. Ci disse
che Konoha sarebbe stata senz’altro tra gli obbiettivi di quei mostri, come pure
già in passato. Naruto, soprattutto, in qualità di vaso di uno dei cercoteri,
doveva essere protetto a vista.
Uzumaki protestò con una forza insospettata: non voleva
essere protetto, perché aveva qualcosa di più importante ancora da proteggere.
Aveva Sasuke e l’obbligo morale di riannodare quel filo rosso che il tempo non
poteva davvero usurare.
Eppure la maestra Tsunade non gli risparmiò né l’affronto, né
il prevedibile commento: Uchiha era un rinnegato che aveva voltato le spalle
alla Foglia. Quale fosse la sua verità, non era di lui che dovevamo occuparci,
ma di chi sarebbe rimasto. Per quanto essenziale fosse ogni vincolo di amicizia,
cioè, ve n’era uno ancora più importante per un ninja: l’orgoglio di cui il
coprifronte era un memento.
Fu Neji, quando la riunione fu sciolta, a trovare le parole
giuste per quietarlo, verbalizzando una verità cui per prima avevo cominciato ad
avvicinarmi con insospettato ottimismo: se l’Akatsuki aveva bisogno di Kyuubi,
allora avrebbe dovuto accerchiare il villaggio. Poiché però Itachi era un membro
di Alba – e Sasuke era alle costole del fratello – c’erano buone possibilità che
si avvicinasse lo stesso. Abbastanza, almeno, perché la Volpe non si ritraesse
atterrita per la sorpresa.
Naruto parve arrendersi a quella verità e io lo imitai.
Il cielo era trapunto di stelle, mentre rientravamo in casa
senza neppure sfiorarci, ma vicini con il pensiero come mai prima, perché sotto
quelle luci forse un giorno avremmo trovato di nuovo il nostro complemento.
Bastava aspettare e levigare la nostalgia del ricordo con la
lama sfolgorante della nostra giovinezza piena di illusioni.
Poi cominciò l’assedio a Konoha e capimmo che forse non saremmo neppure
vissuti abbastanza da prenderlo a schiaffi o abbracciarlo.