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Autore: Noth    14/10/2011    14 recensioni
« Ce la faccio da solo, davvero. » le dissi, muovendomi con le braccia avanti verso dove avevo sentito aprirsi la porta. Trovai a tentoni una mano che mi si poggiò sul petto. Di colpo le mani divennero due e mi tastarono il viso con velocità, soffermandosi tra i miei indomabili capelli ricci e le ciglia lunghe. Mi passò due dita sulle labbra e lungo il collo, per poggiarsi infine sulle mie spalle.
« Piacere: Kurt. Anche se lo sai già amo fare le presentazioni per bene. » dalla persona dinanzi a me provenne una voce acuta, strana, con un timbro talmente particolare da essere immediatamente riconoscibile e allo stesso tempo difficile da identificare.
« Credevo che fossi un ragazzo. » esclamai, senza pensare a quanto potesse suonare offensivo ciò che avevo appena detto.
Sentii una sorta di risatina scuotere il corpo di fronte a me.
« Io sono un ragazzo, infatti. » rispose.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Wow, è la mia prima AU. Insomma, introducendovi la storia Blaine è diventato cieco in un incidente d'auto. Viene trasferito in un nuovo istituto specializzato, e lì incontra Kurt. Un ragazzo eccellente, gentile, un po' timido e fin troppo innocente. Quell'istituto sarà la culla di una storia d'amore impetuosa fatta di fantasie, di immagini mai viste, di bugie e di un sentimento che nessuno dei due riuscirà mai a reprimere. Si dice che il filo del destino leghi le persone ancora prima che si incontrino.



I Wish you could see.
-Capitolo Primo-



iwycs

 




Era difficile. Era sempre stato difficile per me non vedere. Credevo che mi ci sarei abituato in fretta, ma si era rivelato degenerante trovarmi a dover solo immaginare ciò che una volta avevo potuto vedere.

Cercavano tutti di farla semplice, di rendermi le cose più facili ma, in realtà, si sentivano solo in colpa per le mie condizioni. Era colpa di quelli che avevo reputato i miei migliori amici se, due mesi prima, avevo avuto quell’incidente d’auto ed ero finito in ospedale con una benda scura sugli occhi che non mi avrebbe permesso di vedere neanche una volta tolta. Mai più.

I miei genitori avevano convenuto fosse il caso di farmi cambiare scuola, portandomi in un istituto specializzato per non vedenti, dove avrei seguito corsi speciali ed avrei imparato a leggere il braille. Quello che più mi premeva era riuscire ad imparare a leggere gli spartiti e a suonare la chitarra, perché non avevo intenzione di lasciar perdere la musica. Le mie corde vocali non erano danneggiate: potevo farcela.

Ero in parte felice ed in parte triste al pensiero di abbandonare quella che per tutta una vita era stata la mia realtà ma, mi feriva profondamente ammetterlo, io non ne facevo più parte. Non potevo vivere in un mondo dove tutti i miei amici parlavano di belle ragazze che, oltre a non interessarmi per ovvie ragioni, ora potevo solo immaginare.

Me ne stavo seduto in macchina, sul sedile del passeggero, mentre i miei genitori guidavano in silenzio verso l’istituto Doge con la radio a volume bassissimo.
Non vedevo la strada, non potevo guardare il cielo e domandarmi se avesse potuto piovere. Ero un uomo a metà e sentivo di aver deluso qualcuno con quella mia improvvisa mancanza. Già il fatto che fossi gay aveva scosso l’equilibrio familiare, ora potevano davvero darmi dell’handicappato. Era una cosa dolorosa, una cosa che detestavo. Il problema era che il primo a crederci ero proprio io. Non mi sentivo normale.

« Siamo quasi arrivati, tesoro. » squittì mia madre con il tono di voce apprensivo che assumeva di continuo quando doveva parlare con me. Si sentiva il colpa? Come se le mie condizioni fossero centrate qualcosa con lei.

Sentii la macchina slittare su una rumorosa strada sterrata ed immaginai di trovarmi in aperta campagna, circondato da alberi da frutto, in una sorta di isola felice.
Perché non avevo la possibilità di vedere tutto questo?

La vettura inchiodò e qualcuno spense la radio. Mio padre tossicchiò e scese dalla macchina.
« Ci siamo? » domandai.
« Già. » rispose mia madre tutto d’un fiato. Era frustrante sentire che tratteneva le lacrime. Doloroso e frustrante.

Qualcuno – probabilmente mio padre-  aprì il baule della macchina per tirare fuori le mie cose, mia madre smontò e venne ad aprirmi la portiera. Erano entrambi talmente gentili e tristi che, per questa volta, decisi di non puntualizzare quando odiassi vederli che, improvvisamente, mi viziavano.
Sentii la mano di mia madre afferrare la mia e trascinarmi fuori dall’auto ed, infine, davanti alla porta d’ingresso. Attraversammo quello che doveva essere stato un cortile, perchè sentii la voce di diversi giovani mischiarsi in una dissonante e chiassosa melodia fino a che qualcuno non urtò mio padre che si trascinava dietro la mia valigia. Udii il tonfo ed un mormorio di scuse mortificato, seguito da dei passi irregolari che si allontanavano.

La mano di mia madre si strinse più saldamente sulla mia. Papà bussò, deciso, ed i rintocchi riecheggiarono oltre la porta che, qualche secondo dopo, qualcuno venne ad aprire. Il portone non scricchiolò quando si spalancò, sentii solo lo scattare fluido della serratura.
« I signori Anderson? » chiese una voce femminile dal tono saccente e disponibile.
« Sì, esatto. » rispose mio padre dopo qualche attimo di esitazione. « Siamo qui per l’inserimento di nostro figlio: Blaine... » iniziò, ma lo interruppi.
« So ancora parlare, papà. » sbottai, più acido di quando non avessi voluto.
« Chiaro che puoi. » convenne la vocetta. Una mano che non riconobbi mi afferrò il polso, camminando veloce verso l’interno, trascinandomi alla cieca verso un corridoio immenso. Sentivo i tacchi di mia madre alle mie spalle ed avevo udito qualcuno dire a mio padre di lasciargli la valigia e che me la avrebbero fatta recapitare in stanza.

La mia nuova vita stava per iniziare e mi sentivo già spaventosamente e detestabilmente solo. Quella sensazione fu così improvvisa e dolorosa che mi dovetti mordere il labbro per scacciare le lacrime.
« Attento ai quattro gradini. » mi avvisò la voce saccente. Come mi aveva appena detto incappammo in degli scalini, ricoperti di soffice moquette, sulle quali per poco non inciampai. Non ero abituato a camminare così veloce, stavo perdendo il senso dell’orientamento.
L’ambiente stava diventando più caldo, al punto che avrei potuto tranquillamente togliermi il cappotto.

Entrammo in una stanza, ci fermammo di colpo e lei mi mollò il polso.
« Allora: benvenuto all’”Istituto per Non Vedenti Andrew Doge”. Sono Janet e mi occupo delle scartoffie e dell’accoglienza. Ora ti assegnerò un tutor, cioè uno degli studenti migliori della scuola. Ovviamente sarà del tuo stesso anno. Il suo compito sarà aiutarti ad orientarti. Fidati di lui ed ascoltalo, mi raccomando, è il modo migliore per integrarsi qui. » poi, senza aspettare che rispondessi, si rivolse ai miei genitori. « E’ tempo di baci ed abbracci! Ci si rivede alla festa di Ognissanti. »

Mia madre mi si fiondò addosso, piangendo e stringendomi forte, mentre mio padre mi metteva una mano sulla spalla.
« Andrà tutto bene. » gli dissi, sfoggiando un sorriso tanto falso quanto ampio. Sarebbero stati loro a doverlo dire a me, ma sapevo di non poterlo pretendere. Fu un piagnisteo lungo ma, grazie a Dio, anche questo ebbe fine. Uscendo dal luogo dove eravamo i miei genitori chiusero la porta, lasciandomi da solo con Janet in un posto che non conoscevo affatto e non potevo vedere. Era come essere sospeso nel vuoto, lasciando che il nulla mi avvolgesse.

« Da ciò che vedo il tuo tutor sarà Kurt Hummel. » la voce della ragazza proveniva ora da un luogo sotto la mia testa, questo mi fece intuire che dovevamo essere in una sorta di ufficio e che doveva essersi seduta.
« Cosa mi farà fare? » domandai, sentendomi incredibilmente stupido ed inetto al pensiero di poter non essere al livello di nessuno di quei ragazzi.
« Dipende. Lui organizzerà ciò che ti serve. Il suo fascicolo è un orgia di voti eccellenti, per Dio! » sentii il fruscio dei fogli che Janet stava leggendo. Il cloak dello scatto di una serratura mi fece voltare d’istinto, anche se non avrei mai potuto vedere chi fosse entrato.

« Oh, tu devi essere Kurt. Parlavamo giusto di te! » squittì Janet e la sentii alzarsi, probabilmente per portarmi più vicino alla persona che era appena entrata.
« Ce la faccio da solo, davvero. » le dissi, muovendomi con le braccia avanti verso dove avevo sentito aprirsi la porta. Trovai a tentoni una mano che mi si poggiò sul petto. Di colpo le mani divennero due e mi tastarono il viso con velocità, soffermandosi tra i miei indomabili capelli ricci e le ciglia lunghe. Mi passò due dita sulle labbra e lungo il collo, per poggiarsi infine sulle mie spalle.

« Piacere: Kurt. Anche se lo sai già amo fare le presentazioni per bene. » dalla persona dinanzi a me provenne una voce acuta, strana, con un timbro talmente particolare da essere immediatamente riconoscibile e allo stesso tempo difficile da identificare.
« Credevo che fossi un ragazzo. » esclamai, senza pensare a quanto potesse suonare offensivo ciò che avevo appena detto.
Sentii una sorta di risatina scuotere il corpo di fronte a me.
« Io sono un ragazzo, infatti. » rispose.

Avvampai. Ora ciò che avevo esclamato suonava anche peggio. Dovevo aver fatto una pessima prima impressione. Avevo sempre creduto di essere bravo in queste cose, avrei dovuto ricredermi.
« Sono... sono mortificato. Davvero. »
Lui rise ancora.
« Ti perdono solo perché la prima volta sbagliano tutti. » rispose.

Janet tossicchiò

« Vi lascio alle vostre presentazioni. Ho delle cose da controllare in archivio. Kurt, sai quello che devi fare, vero? » domandò. Il suono dei suoi tacchi si avvicinò a noi, per poi superarci ed uscire dalla porta. Voltandomi urtai per sbaglio il petto di Kurt e mi accorsi di averlo molto più vicino di quanto avessi pensato. Forse per un non vedente avere le persone a stretto contatto era normale.
« Certo. » rispose lui, più a se stesso che a Janet che si era già allontanata. Andò a chiudere la porta e poi mi poggiò una mano sulla schiena, dirigendomi verso il centro dell’ufficio.







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Spazio Autrice:
E' la mia prima storia di questo tipo, ma so che ne esistono tantissime famosissime di inglesi quindi perchè non tentare? Spero che la storia vi faccia venire voglia di continuare a leggerla e fatemi sapere se vi è piaciuta, se per caso avete qualche consiglio, curiosità, dubbio.

Ho deciso di consigliare una canzone per capitolo da ascoltare mentre si legge il pezzo, quella di oggi è:
Hey There Delilah dei Plain White's.

Vostra,

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I Wish You Could See by Noth, Elisa Spigariol is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non opere derivate 3.0 Unported License.
   
 
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