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Autore: Callie_Stephanides    15/10/2011    3 recensioni
È un vento epico, quello che sfiora Sasuke e Itachi, nell’ora più buia della storia di un clan maledetto e potentissimo.
È un vento che sa di guerra e di vendetta, come di un amore indicibile che corre nel sangue e nel sangue muore.
Sakura racconta le ultime ore di Konoha e la privatissima, desolata guerra di un ragazzo che non l’ha mai vista davvero, perché dietro ai suoi occhi, no: lei non c’è mai stata.
[ATTENZIONE: what if post cap. 351 del manga]
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Akatsuki, Itachi, Un po' tutti | Coppie: Sasuke/Sakura, Shikamaru/Temari
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
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L’assedio di Konoha durò trentacinque giorni.
Tanti ne passarono da che le sentinelle individuarono nella polvere dell’ora meridiana i paramenti dell’Akatsuki e il momento in cui si inaugurò la nostra marcia verso la Valle della Fine.
Fu uno stringersi progressivo di nodi, di emozioni, di violenze, di memoria, perché nel fronteggiare la nostra nemesi eravamo anche vicini al nucleo più profondo delle nostre paure radicate e fisse. Io, almeno, sapevo che il mio cuore sarebbe stato messo a dura prova – non solo, però, perché forse avrei rivisto Sasuke.
Lentamente, ma con una forza che non potevo ignorare, il nostro ultimo incontro aveva mutato la cifra dei miei sentimenti. La sua bellezza si era fatta, se possibile, persino dolorosa, perché non aveva più nulla di morbido e di infantile. Com’ero diventata una donna io, cioè, si avvicinava a un uomo lui: non guardavamo più ai sentimenti come ad un’ipotesi futura. Erano lì. Erano pronti a essere colti.
Al contempo, però, con una nettezza ch’era cresciuta con i miei stessi passi, ero pure consapevole del mio ruolo di ninja. Ero un chunin di Konoha: il mio compito, cioè, era quello di vestire la prima linea.
Penso sia stato lo scontro con Sasori l’autentico spartiacque: rappresentava il mio battesimo con l’Akatsuki ed ero sopravvissuta. Avevo imparato qualcosa sulla crudeltà e sulla forza, ma soprattutto sulle mie capacità. Non ero più la ragazzina che fissava la schiena di due compagni eccezionali, ma ero degna di marciare al loro fianco.
Credo che Alba avesse deciso di puntare tutto su un attacco decisivo perché Konoha si era rivelata più dura e ostinata del previsto. Non avrebbe potuto essere altrimenti, in fondo, con una donna come la maestra Tsunade al comando. L’Akatsuki credeva che l’ultimo cercotero sarebbe stato preda facile. Sino a quel momento, eccetto forse quel ch’era capitato con Gaara, i jinchuriki erano considerati sacrificabili inopportuni. Chi avrebbe mai lottato per la vita di un mostro?
Nei miei ricordi di bambina quella parola ricorre con frequenza eloquente. Prima di conoscerlo e di scoprire quanto generoso fosse il suo cuore e straordinario il suo talento – e non per Kyuubi, ma per quanto era ostinato lui – Naruto non era per me nulla di diverso.
C’era senz’altro chi l’aveva accolto senza riserve – il maestro Iruka o Shikamaru, ad esempio – ma non sbagliava Uzumaki quando si sentiva un emarginato. Il Terzo Hokage era stato deciso ed eloquente nel dirci che avremmo piuttosto dovuto considerarlo un eroe, perché quel bambino impossibile aveva chiuso in sé una nemesi epocale, ma era più facile accontentarsi di ascoltare la voce comune e quel che tutti gridavano.
Uzumaki non era il vaso della volpe. Naruto era la volpe stessa.
Oggi nessuno oserebbe più apostrofarlo in quel modo, come nessuno faceva più in quei giorni, perché proprio Kyuubi, all’improvviso, sarebbe divenuto l’essenziale alleato della Foglia. Senz’altro non avremmo abbandonato un compagno per niente al mondo. Non credevamo alla legge dell’arbitrio e della prevaricazione di Alba. Noi eravamo diversi e volevamo che i nostri nemici lo sapessero.
Quel giorno non soffiava un solo alito di vento. Il sole era alto nel cielo e i suoi raggi bruciavano con forza insospettata. Ricordo che incontrai Ino, lungo la via principale del villaggio. C’era qualcosa di duro e teso nel suo sguardo, quasi avvertisse una minaccia che non riusciva però a verbalizzare del tutto.
Mi ci volle un po’ a ricordare ch’era da poco rientrata dalla missione con Shikamaru e che l’aveva visto perdere il controllo per la prima volta in tutta la sua vita.
“Mi chiedo se non sia inevitabile,” mi disse. Sceglieva con estrema cura le parole, scollandole a fatica. In lei potevo leggere quel che anche lo specchio mi diceva: eravamo proprio cresciute. A tratti, non somigliavamo neppure più a noi stesse.
“Cosa? Combattere?”
Un tempo non avrei osato essere tanto diretta, persino aggressiva, nei suoi confronti. Prima di essere la mia migliore amica, Ino era una rivale insuperabile, ma il tempo che aveva travolto le nostre vite e le nostre scelte aveva mutato tutto. Soprattutto il nostro rapporto.

Dopo Shizune, ero la prima allieva di Tsunade. Ero più forte e tecnicamente più dotata. Ero sbocciata del tutto, trasformandomi in un fiore che forse non aveva previsto: un anemone.
Un piccolo croco fragile solo in apparenza, ma determinato a sopravvivere a ogni costo.
Ino se n’era forse già accorta il giorno in cui il sigillo di Sasuke si attivò e io non rinunciai comunque ad abbracciarlo, ma era solo negli ultimi due anni che il segno della mia determinazione era maturato sino a trasformarmi in una nuova Sakura.
Proprio perché era anche la mia migliore amica, nondimeno, Ino non me l’avrebbe mai rinfacciato. Si era come fatta da parte e si fidava di me.
“No. Essere crudeli.”
Era un problema che non mi ero mai posta, anche perché la maestra Tsunade non rappresentava un capolavoro etico, se faceva sul serio. Non che non fosse anche onesta, ma era un tipo pratico, e i tipi pratici pensano a vivere senza perdere tempo in inutili sofismi.

Per il Quinto Hokage la guerra è guerra: ogni mezzo è buono, purché ti faccia sopravvivere.
Me l’aveva ripetuto più di una volta, per imprimerlo bene in quel mio cervello riottoso, romantico e nostalgico: se Sasuke, per una qualunque ragione, si fosse alleato con Alba, sarebbe stata la prima a chiedere la sua testa senza il minimo rigurgito di coscienza.
Per mia fortuna Uchiha non era impazzito sino a quel punto – neppure volle rivedere Konoha: il suo appuntamento con il destino era altrove. Mosse proprio dalla foresta in cui forse la tragedia era stata inaugurata – ma sino all’ultimo dovetti tollerare l’alea di un dolore perfetto.
Ino, però, aveva colto sin troppo bene il rovescio di quell’indigesta medaglia: combattere contro nemici così pericolosi e così privi di scrupoli, poco alla volta, stava inoculando in noi tutti un nuovo veleno. L’aveva letto nello sguardo di Nara: la strana ebbrezza di un potere che nasceva dall’esercitare una violenza consapevole. Dal porre un punto fermo, inciso nella carne e nel sangue.
“Non ci sarà bisogno di perdere la testa. Solo restare uniti,” le risposi con una sicurezza arrogante e simulata, perché per prima ignoravo davvero il senso profondo delle mie parole.
Cosa significava ‘restare uniti’, se quella pagina da strappare nasceva da un abbandono e da un tradimento? Da un paio di spalle volte a Konoha e a quel che la Foglia importava?
Non credo di averla convinta, ma il segno profondo della nostra crescita stava anche in semplici manifestazioni di buonsenso: con una guerra alle porte, le parole restavano tali. Erano le azioni a fare gli uomini.
A Konoha, Alba giunse già mutilata. Che il Caso avesse uno spiccato senso dell’umorismo era qualcosa che avevo già sospettato. Suonava comunque grottesco che fosse stato proprio Sasuke – che pure era un fuoriuscito – a creare le condizioni perché il nostro villaggio sopravvivesse. Se gli shinobi maledetti ci avessero aggredito tutti insieme, saremmo stati sterminati dal primo all’ultimo. Invece Sasuke era giunto armato di un esercito personale, non diverso, in fondo, da quello che poteva vantare Itachi: eguali erano anche le premesse, perché entrambi non potevano arrogarsi alcun controllo fattivo dei mostri che pure li accompagnavano. Era una specie di alleanza temporanea, in vista di un obbiettivo.
Per Itachi e l’Akatsuki quel fine era Naruto.
Per Sasuke, invece, una vendetta che aspettava da troppo tempo.
Se tuttavia Uchiha non avesse dato ordine ai suoi – Suigetsu, Karin e Juugo – di attaccare le truppe di Alba, in modo da isolare il fratello, il terribile Kisame non sarebbe caduto alle porte del villaggio straziato da una lama che già una volta si era palesata lungo la nostra strada. O non avrebbero perso la vita Deidara e Zetsu.
Furono combattimenti dalla violenza respingente, come mai se n’erano visti a Konoha. La bionda sabbia dei confini più esterni s’intrise di un sangue tanto nero da somigliare a lastre di ossidiana.
Ancora me lo rivedo, Suigetsu, mentre lecca la sua Tagliateste e promette a Kisame che non disonorerà il suo maestro Zabusa.
Non taglierà per una seconda volta.
Lo stridio della Samehada contro il filo rugginoso di un’antica memoria raggiungeva Konoha in ogni suo angolo. La maestra Tsunade, tuttavia, non tentò mai di proteggersi da quel suono, perché, come mi disse, la Morte era anche l’unica occasione che avessimo per vivere.
La loro morte. La nostra vita.
Suigetsu, nella trasparente teca della sua cattività, aveva sognato per anni distruzione e vendetta: distruzione della terra che aveva concepito un demonio torturatore. Vendetta per il suo fiero maestro Zabusa, che un ninja di nome Kakashi aveva reso alla terra.
Ero al fianco di colui che per primo mi aveva svezzata, quando quel demone ci attaccò. Aveva decapitato Kisame e si trascinava dietro il teschio scarnificato dell’ uomo squalo quasi fosse un portafortuna. Emanava il fetore insopportabile di una carogna ancora viva. Per la prima volta da che l’avevo conosciuto, il maestro Kakashi non rise neppure una volta.
Mi spinse indietro, intimandomi di lasciare il campo, mentre la Tagliateste fendeva il silenzio con il sibilare minaccioso della sua onnipotenza. Scossi il capo e indossai i miei guanti: Suigetsu non avrebbe tagliato una seconda volta, perché non ci sarebbe stata neppure una prima.
Ero un chuunin. Ero diversa. Ero viva e volevo restarlo, perché avevo troppo da proteggere e troppo da perdere. Difendere Sasuke.
Difendere Naruto, soprattutto.
La sua mano destra era a pezzi e Kyuubi ruggiva sempre più forte in lui. Il sigillo poteva spezzarsi da un momento all’altro, divorandolo: per questo la maestra Tsunade non voleva che scendesse in campo. Per questo, con una serietà che non avevo mai visto sul suo volto, fece proprie le parole di Asuma: Uzumaki, in quel caso, doveva essere il mio Re.
Non avevo nulla in contrario.
In occasione dello scontro tra Zabusa e il maestro Kakashi non avevo potuto far altro che restare a guardare: tremavo e temevo di restare sola, perché sembrava proprio che non ci fossero speranze per noi.
Sasuke e Naruto, invece, non si erano risparmiati, con costi altissimi.
Erano passati tre anni, eppure quella memoria era sempre viva, perché era stato quel giorno che avevo violato la regola numero venticinque, aprendomi a un’autentica crescita.
Suigetsu, però, non aveva neppure quel briciolo di umanità che il suo predecessore possedeva, quasi a convivere con una creatura sfortunata e gentile come Haku gli fosse capitato di ereditarne la tristezza e il sorriso.
Un colpo della Tagliateste, che pure credevo di aver evitato, mi spezzò la spalla. Lottai con il dolore per non perdere conoscenza, mentre il nemico si liquefaceva nei mille rivoli del suo odio. Il maestro Kakashi invocava il mio nome, mentre inghiottivo lacrime brucianti e improvvise e cadevo a terra. Non toccai mai il suolo, però, perché Rock-Lee mi sostenne.
“Ehi, pesciolino? Quello è il mio rivale!”
La voce tonante di Gai non mi parve mai tanto piacevole all’orecchio. Era la carezza di una nuova speranza. Il segno dell’unità che pure avevamo costruito.

“Non ti preoccupare, Sakura. Ora ci siamo noi.”
Rock-Lee era una delle radici di Konoha. Aveva un aspetto ridicolo e uno zelo grottesco, ma era da quelli come lui che discendeva il nostro futuro: quelli che non erano nati né belli né dotati, ma che non avevano mai smesso di sperare. Quelli che lavoravano duro, senza mai risparmiarsi, e che se pure non possedevano la minima abilità innata, potevano vincere.

E poi non era neppure vero che Rock-Lee fosse del tutto spoglio di doni.
Il suo si chiamava ‘volontà’: delle abilità congenite era senz’altro la più rara e preziosa di tutte.
Chiusi gli occhi, sentendo all’improvviso la forza della vita che mi entrava dentro: una forza chiamata ‘speranza’, invincibile come il Re di Konoha. Come aveva predetto Asuma, nei fatti, finché avessimo amato, sofferto, procreato e assicurato alla Foglia il vagito di un nuovo bambino, nessun nemico avrebbe mai potuto piegarci davvero.
Mi risvegliai qualche ora più tardi. Il cielo, che ricordavo di un azzurro intenso, era venato di violetto. La luce filtrava attraverso le grandi finestre del palazzo dell’Hokage. Era stata Ino a guarire le mie ferite e a restarmi accanto. Gli scontri, però, erano appena cominciati.
I Jonin erano scesi in campo, l’uno dopo l’altro. Il maestro Gai e il maestro Kakashi avevano accantonato ogni sfida per affrontare un demonio dall’enorme spada. Accanto a loro, l’elegante e potentissimo taijutsu di Rock-Lee non era più il segno di un talento mutilato, ma un’arma indispensabile.
Opporre la forza e la velocità all’essenziale e lucida spietatezza di una lama?
Come Tenten raccontò, arrossendo sino alla radice dei capelli Rock Lee non era mai stato così bello. Fu lui a distruggere la Tagliateste, offrendo dunque al Maestro Gai un’ideale pallina da aggiungere al resoconto sbilanciato di troppe sfide inutili e ridicole vittorie.
“Perché?”
“Perché è allievo mio.”
Ma poi scese in campo un uomo la cui maschera lasciava cogliere un solo dettaglio essenziale: l’occhio gemello di uno sharingan donato e l’ennesimo debito della memoria.

Potrei continuare, scivolare nel dettaglio e raccontare come Tobi dell’Akatsuki fosse in realtà Obito Uchiha.
Potrei raccontare di come il maestro Kakashi abbia avuto modo di rivivere la propria giovinezza, la nostalgia del rimorso e il proprio incubo peggiore all’interno di uno stesso disperato scontro.
Potrei parlare del tremendo potere di Karin e di come Zetsu l’abbia pure uccisa e divorata.
Potrei narrare di un assedio spietato, perché alle porte di Konoha si stabilì un mostro chiamato Juugo, affamato solo del nostro sangue e della nostra carne.
Ma sarebbero dettagli di una storia che andava comunque avanti, che rigenerava se stessa attraverso l’impetuoso desiderio di sopravvivere che stringevamo nel petto.
Una voglia vera: com’eravamo vivi e veri noi.
Sospinti dai falchi, i ninja della Sabbia ci vennero in soccorso. Gaara, Kankuro e Temari, che già si trovavano a Konoha per l’esame dei Chunin, non esitarono a disporre tutte le loro risorse.
Stagliati, tutti e tre, contro un orizzonte di notte e fuochi, furono l’ultima scintilla di speranza prima che la ruota scivolasse verso il suo ultimo vallo, per correre a rotta di collo in braccio alla fine.
Shikamaru sollevò le spalle – come gli era divenuto congeniale per stornare pensieri che gli parevano forse molesti – e accese una sigaretta, mentre i più validi dei nostri alleati si univano ai Jonin in campo. Temari lo fissava sulla distanza, con i suoi occhi chiari e i capelli biondi che le scintille crepitanti vestivano di riflessi d’oro liquido.
Konoha era piegata, piagata, devastata dagli scontri. Combattevamo e combattevamo, ma per un capo abbattuto subentrava l’orda dei mercenari che Alba alimentava con le sue risorse infinite.
Naruto aveva detto a denti stretti: “Non pensavo di valere così tanto.” Il maestro Iruka, come secoli prima, gli aveva arruffato i capelli e offerto la verità migliore e più vera. “Vali molto di più. Infinitamente più di un esercito.”
Ma il fulcro della scena restavano Nara e la sorella di un giovane, straordinario Kazekage.
Perché?
Perché nei loro sguardi e nei loro movimenti c’era tutto quello per cui combattevo anch’io. C’era una voglia di futuro sostenuta da sentimenti autentici e rabbiosi, che esplodeva in battute mordaci, occhiate oblique e certi improvvisi silenzi che pure gridavano quasi più di una guerra.
Di loro ricordo soprattutto uno scambio, veloce e nervoso, tuttavia eloquentissimo, perché esiste una voce dei sentimenti la cui eco deflagra persino oltre l’intenzione.
“Come vedi non sono diventato ancora un Jonin.”
“Io sono contenta di rivederti vivo.”
Nessuno dei due arrossì o abbassò lo sguardo. Solo Shikamaru tirò una boccata forse troppo profonda, tossendo e ridendoci su.

Ma Temari non stirò neppure le labbra.
Alla fine furono loro a vedersela con Juugo, combinando il potere di controllo dell’ombra di Nara con le Lame del Vento di una combattente esperta e decisa.
La loro intesa fu una sincronia geometrica tanto perfetta che a tutti venne spontaneo domandarsi dove avessero imparato a combattere così, s’erano piuttosto sempre stati rivali.
Solo la maestra Kurenai abbassò il capo e sorrise. Prima che ce lo raccontasse il vento, un nuovo Re aveva preso per mano il suo.
Splendido e determinato, come un croco o un anemone.

   
 
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