L’assedio di Konoha durò trentacinque giorni.
Tanti ne passarono da che le sentinelle individuarono nella
polvere dell’ora meridiana i paramenti dell’Akatsuki e il momento in cui si
inaugurò la nostra marcia verso la Valle della Fine.
Fu uno stringersi progressivo di nodi, di emozioni, di
violenze, di memoria, perché nel fronteggiare la nostra nemesi eravamo anche
vicini al nucleo più profondo delle nostre paure radicate e fisse. Io, almeno,
sapevo che il mio cuore sarebbe stato messo a dura prova – non solo, però,
perché forse avrei rivisto Sasuke.
Lentamente, ma con una forza che non potevo ignorare, il
nostro ultimo incontro aveva mutato la cifra dei miei sentimenti. La sua
bellezza si era fatta, se possibile, persino dolorosa, perché non aveva più
nulla di morbido e di infantile. Com’ero diventata una donna io, cioè, si
avvicinava a un uomo lui: non guardavamo più ai sentimenti come ad un’ipotesi
futura. Erano lì. Erano pronti a essere colti.
Al contempo, però, con una nettezza ch’era cresciuta con i
miei stessi passi, ero pure consapevole del mio ruolo di ninja. Ero un chunin di
Konoha: il mio compito, cioè, era quello di vestire la prima linea.
Penso sia stato lo scontro con Sasori l’autentico
spartiacque: rappresentava il mio battesimo con l’Akatsuki ed ero sopravvissuta.
Avevo imparato qualcosa sulla crudeltà e sulla forza, ma soprattutto sulle mie
capacità. Non ero più la ragazzina che fissava la schiena di due compagni
eccezionali, ma ero degna di marciare al loro fianco.
Credo che Alba avesse deciso di puntare tutto su un attacco
decisivo perché Konoha si era rivelata più dura e ostinata del previsto. Non
avrebbe potuto essere altrimenti, in fondo, con una donna come la maestra
Tsunade al comando. L’Akatsuki credeva che l’ultimo cercotero sarebbe stato
preda facile. Sino a quel momento, eccetto forse quel ch’era capitato con Gaara,
i jinchuriki erano considerati sacrificabili inopportuni. Chi avrebbe mai
lottato per la vita di un mostro?
Nei miei ricordi di bambina quella parola ricorre con
frequenza eloquente. Prima di conoscerlo e di scoprire quanto generoso fosse il
suo cuore e straordinario il suo talento – e non per Kyuubi, ma per quanto era
ostinato lui – Naruto non era per me nulla di diverso.
C’era senz’altro chi l’aveva accolto senza riserve – il
maestro Iruka o Shikamaru, ad esempio – ma non sbagliava Uzumaki quando si
sentiva un emarginato. Il Terzo Hokage era stato deciso ed eloquente nel dirci
che avremmo piuttosto dovuto considerarlo un eroe, perché quel bambino
impossibile aveva chiuso in sé una nemesi epocale, ma era più facile
accontentarsi di ascoltare la voce comune e quel che tutti gridavano.
Uzumaki non era il vaso della volpe. Naruto era la volpe
stessa.
Oggi nessuno oserebbe più apostrofarlo in quel modo, come
nessuno faceva più in quei giorni, perché proprio Kyuubi, all’improvviso,
sarebbe divenuto l’essenziale alleato della Foglia. Senz’altro non avremmo
abbandonato un compagno per niente al mondo. Non credevamo alla legge
dell’arbitrio e della prevaricazione di Alba. Noi eravamo diversi e volevamo che
i nostri nemici lo sapessero.
Quel giorno non soffiava un solo alito di vento. Il sole era
alto nel cielo e i suoi raggi bruciavano con forza insospettata. Ricordo che
incontrai Ino, lungo la via principale del villaggio. C’era qualcosa di duro e
teso nel suo sguardo, quasi avvertisse una minaccia che non riusciva però a
verbalizzare del tutto.
Mi ci volle un po’ a ricordare ch’era da poco rientrata dalla
missione con Shikamaru e che l’aveva visto perdere il controllo per la prima
volta in tutta la sua vita.
“Mi chiedo se non sia inevitabile,” mi disse. Sceglieva con
estrema cura le parole, scollandole a fatica. In lei potevo leggere quel che
anche lo specchio mi diceva: eravamo proprio cresciute. A tratti, non
somigliavamo neppure più a noi stesse.
“Cosa? Combattere?”
Un tempo non avrei osato essere tanto diretta, persino
aggressiva, nei suoi confronti. Prima di essere la mia migliore amica, Ino era
una rivale insuperabile, ma il tempo che aveva travolto le nostre vite e le
nostre scelte aveva mutato tutto. Soprattutto il nostro rapporto.
Dopo Shizune, ero la prima allieva di Tsunade. Ero più forte
e tecnicamente più dotata. Ero sbocciata del tutto, trasformandomi in un fiore
che forse non aveva previsto: un anemone.
Un piccolo croco fragile solo in apparenza, ma determinato a
sopravvivere a ogni costo.
Ino se n’era forse già accorta il giorno in cui il sigillo di
Sasuke si attivò e io non rinunciai comunque ad abbracciarlo, ma era solo negli
ultimi due anni che il segno della mia determinazione era maturato sino a
trasformarmi in una nuova Sakura.
Proprio perché era anche la mia migliore amica, nondimeno,
Ino non me l’avrebbe mai rinfacciato. Si era come fatta da parte e si fidava di
me.
“No. Essere crudeli.”
Era un problema che non mi ero mai posta, anche perché la
maestra Tsunade non rappresentava un capolavoro etico, se faceva sul serio. Non
che non fosse anche onesta, ma era un tipo pratico, e i tipi pratici pensano a
vivere senza perdere tempo in inutili sofismi.
Per il Quinto Hokage la guerra è guerra: ogni mezzo è buono,
purché ti faccia sopravvivere.
Me l’aveva ripetuto più di una volta, per imprimerlo bene in
quel mio cervello riottoso, romantico e nostalgico: se Sasuke, per una qualunque
ragione, si fosse alleato con Alba, sarebbe stata la prima a chiedere la sua
testa senza il minimo rigurgito di coscienza.
Per mia fortuna Uchiha non era impazzito sino a quel punto –
neppure volle rivedere Konoha: il suo appuntamento con il destino era altrove.
Mosse proprio dalla foresta in cui forse la tragedia era stata inaugurata – ma
sino all’ultimo dovetti tollerare l’alea di un dolore perfetto.
Ino, però, aveva colto sin troppo bene il rovescio di
quell’indigesta medaglia: combattere contro nemici così pericolosi e così privi
di scrupoli, poco alla volta, stava inoculando in noi tutti un nuovo veleno.
L’aveva letto nello sguardo di Nara: la strana ebbrezza di un potere che nasceva
dall’esercitare una violenza consapevole. Dal porre un punto fermo, inciso nella
carne e nel sangue.
“Non ci sarà bisogno di perdere la testa. Solo restare
uniti,” le risposi con una sicurezza arrogante e simulata, perché per prima
ignoravo davvero il senso profondo delle mie parole.
Cosa significava ‘restare uniti’, se quella pagina da
strappare nasceva da un abbandono e da un tradimento? Da un paio di spalle volte
a Konoha e a quel che la Foglia importava?
Non credo di averla convinta, ma il segno profondo della
nostra crescita stava anche in semplici manifestazioni di buonsenso: con una
guerra alle porte, le parole restavano tali. Erano le azioni a fare gli uomini.
A Konoha, Alba giunse già mutilata. Che il Caso avesse uno
spiccato senso dell’umorismo era qualcosa che avevo già sospettato. Suonava
comunque grottesco che fosse stato proprio Sasuke – che pure era un fuoriuscito
– a creare le condizioni perché il nostro villaggio sopravvivesse. Se gli
shinobi maledetti ci avessero aggredito tutti insieme, saremmo stati sterminati
dal primo all’ultimo. Invece Sasuke era giunto
armato di un esercito personale, non diverso, in fondo, da quello che poteva
vantare Itachi: eguali erano anche le premesse, perché entrambi non potevano
arrogarsi alcun controllo fattivo dei mostri che pure li accompagnavano. Era una
specie di alleanza temporanea, in vista di un obbiettivo.
Per Itachi e l’Akatsuki quel fine era Naruto.
Per Sasuke, invece, una vendetta che aspettava da troppo
tempo.
Se tuttavia Uchiha non avesse dato ordine ai suoi – Suigetsu,
Karin e Juugo – di attaccare le truppe di Alba, in modo da isolare il fratello,
il terribile Kisame non sarebbe caduto alle porte del villaggio straziato da una
lama che già una volta si era palesata lungo la nostra strada. O non avrebbero
perso la vita Deidara e Zetsu.
Furono combattimenti dalla violenza respingente, come mai se
n’erano visti a Konoha. La bionda sabbia dei confini più esterni s’intrise di un
sangue tanto nero da somigliare a lastre di ossidiana.
Ancora me lo rivedo, Suigetsu, mentre lecca la sua
Tagliateste e promette a Kisame che non disonorerà il suo maestro Zabusa.
Non taglierà per una seconda volta.
Lo stridio della Samehada contro il filo rugginoso di
un’antica memoria raggiungeva Konoha in ogni suo angolo. La maestra Tsunade,
tuttavia, non tentò mai di proteggersi da quel suono, perché, come mi disse, la
Morte era anche l’unica occasione che avessimo per vivere.
La loro morte. La nostra vita.
Suigetsu, nella trasparente teca della sua cattività, aveva
sognato per anni distruzione e vendetta: distruzione della terra che aveva
concepito un demonio torturatore. Vendetta per il suo fiero maestro Zabusa, che
un ninja di nome Kakashi aveva reso alla terra.
Ero al fianco di colui che per primo mi aveva svezzata,
quando quel demone ci attaccò. Aveva decapitato Kisame e si trascinava dietro il
teschio scarnificato dell’ uomo squalo quasi fosse un portafortuna. Emanava il
fetore insopportabile di una carogna ancora viva. Per la prima volta da che
l’avevo conosciuto, il maestro Kakashi non rise neppure una volta.
Mi spinse indietro, intimandomi di lasciare il campo, mentre
la Tagliateste fendeva il silenzio con il sibilare minaccioso della sua
onnipotenza. Scossi il capo e indossai i miei guanti: Suigetsu non avrebbe
tagliato una seconda volta, perché non ci sarebbe stata neppure una prima.
Ero un chuunin. Ero diversa. Ero viva e volevo restarlo,
perché avevo troppo da proteggere e troppo da perdere. Difendere Sasuke.
Difendere Naruto, soprattutto.
La sua mano destra era a pezzi e Kyuubi ruggiva sempre più
forte in lui. Il sigillo poteva spezzarsi da un momento all’altro, divorandolo:
per questo la maestra Tsunade non voleva che scendesse in campo. Per questo, con
una serietà che non avevo mai visto sul suo volto, fece proprie le parole di
Asuma: Uzumaki, in quel caso, doveva essere il mio Re.
Non avevo nulla in contrario.
In occasione dello scontro tra Zabusa e il maestro Kakashi
non avevo potuto far altro che restare a guardare: tremavo e temevo di restare
sola, perché sembrava proprio che non ci fossero speranze per noi.
Sasuke e Naruto, invece, non si erano risparmiati, con costi
altissimi.
Erano passati tre anni, eppure quella memoria era sempre
viva, perché era stato quel giorno che avevo violato la regola numero
venticinque, aprendomi a un’autentica crescita.
Suigetsu, però, non aveva neppure quel briciolo di umanità
che il suo predecessore possedeva, quasi a convivere con una creatura sfortunata
e gentile come Haku gli fosse capitato di ereditarne la tristezza e il sorriso.
Un colpo della Tagliateste, che pure credevo di aver evitato,
mi spezzò la spalla. Lottai con il dolore per non perdere conoscenza, mentre il
nemico si liquefaceva nei mille rivoli del suo odio. Il maestro Kakashi invocava
il mio nome, mentre inghiottivo lacrime brucianti e improvvise e cadevo a terra.
Non toccai mai il suolo, però, perché Rock-Lee mi sostenne.
“Ehi, pesciolino? Quello è il mio rivale!”
La voce tonante di Gai non mi parve mai tanto piacevole
all’orecchio. Era la carezza di una nuova speranza. Il segno dell’unità che pure
avevamo costruito.
“Non ti preoccupare, Sakura. Ora ci siamo noi.”
Rock-Lee era una delle radici di Konoha. Aveva un aspetto
ridicolo e uno zelo grottesco, ma era da quelli come lui che discendeva il
nostro futuro: quelli che non erano nati né belli né dotati, ma che non avevano
mai smesso di sperare. Quelli che lavoravano duro, senza mai risparmiarsi, e che
se pure non possedevano la minima abilità innata, potevano vincere.
E poi non era neppure vero che Rock-Lee fosse del tutto
spoglio di doni.
Il suo si chiamava ‘volontà’: delle abilità congenite era
senz’altro la più rara e preziosa di tutte.
Chiusi gli occhi, sentendo all’improvviso la forza della vita
che mi entrava dentro: una forza chiamata ‘speranza’, invincibile come il Re di
Konoha. Come aveva predetto Asuma, nei fatti, finché avessimo amato, sofferto,
procreato e assicurato alla Foglia il vagito di un nuovo bambino, nessun nemico
avrebbe mai potuto piegarci davvero.
Mi risvegliai qualche ora più tardi. Il cielo, che ricordavo
di un azzurro intenso, era venato di violetto. La luce filtrava attraverso le
grandi finestre del palazzo dell’Hokage. Era stata Ino a guarire le mie ferite e
a restarmi accanto. Gli scontri, però, erano appena cominciati.
I Jonin erano scesi in campo, l’uno dopo l’altro. Il maestro
Gai e il maestro Kakashi avevano accantonato ogni sfida per affrontare un
demonio dall’enorme spada. Accanto a loro, l’elegante e potentissimo taijutsu di
Rock-Lee non era più il segno di un talento mutilato, ma un’arma indispensabile.
Opporre la forza e la velocità all’essenziale e lucida
spietatezza di una lama?
Come Tenten raccontò, arrossendo sino alla radice dei capelli
Rock Lee non era mai stato così bello. Fu lui a distruggere la Tagliateste,
offrendo dunque al Maestro Gai un’ideale pallina da aggiungere al resoconto
sbilanciato di troppe sfide inutili e ridicole vittorie.
“Perché?”
“Perché è allievo mio.”
Ma poi scese in campo un uomo la cui maschera lasciava
cogliere un solo dettaglio essenziale: l’occhio gemello di uno sharingan donato
e l’ennesimo debito della memoria.
Potrei continuare, scivolare nel dettaglio e raccontare come
Tobi dell’Akatsuki fosse in realtà Obito Uchiha.
Potrei raccontare di come il maestro Kakashi abbia avuto modo
di rivivere la propria giovinezza, la nostalgia del rimorso e il proprio incubo
peggiore all’interno di uno stesso disperato scontro.
Potrei parlare del tremendo potere di Karin e di come Zetsu
l’abbia pure uccisa e divorata.
Potrei narrare di un assedio spietato, perché alle porte di
Konoha si stabilì un mostro chiamato Juugo, affamato solo del nostro sangue e
della nostra carne.
Ma sarebbero dettagli di una storia che andava comunque
avanti, che rigenerava se stessa attraverso l’impetuoso desiderio di
sopravvivere che stringevamo nel petto.
Una voglia vera: com’eravamo vivi e veri noi.
Sospinti dai falchi, i ninja della Sabbia ci vennero in
soccorso. Gaara, Kankuro e Temari, che già si trovavano a Konoha per l’esame dei
Chunin, non esitarono a disporre tutte le loro risorse.
Stagliati, tutti e tre, contro un orizzonte di notte e
fuochi, furono l’ultima scintilla di speranza prima che la ruota scivolasse
verso il suo ultimo vallo, per correre a rotta di collo in braccio alla fine.
Shikamaru sollevò le spalle – come gli era divenuto
congeniale per stornare pensieri che gli parevano forse molesti – e accese una
sigaretta, mentre i più validi dei nostri alleati si univano ai Jonin in campo.
Temari lo fissava sulla distanza, con i suoi occhi chiari e i capelli biondi che
le scintille crepitanti vestivano di riflessi d’oro liquido.
Konoha era piegata, piagata, devastata dagli scontri.
Combattevamo e combattevamo, ma per un capo abbattuto subentrava l’orda dei
mercenari che Alba alimentava con le sue risorse infinite.
Naruto aveva detto a denti stretti: “Non pensavo di valere
così tanto.” Il maestro Iruka, come secoli prima, gli aveva arruffato i capelli
e offerto la verità migliore e più vera. “Vali molto di più. Infinitamente più
di un esercito.”
Ma il fulcro della scena restavano Nara e la sorella di un
giovane, straordinario Kazekage.
Perché?
Perché nei loro sguardi e nei loro movimenti c’era tutto
quello per cui combattevo anch’io. C’era una voglia di futuro sostenuta da
sentimenti autentici e rabbiosi, che esplodeva in battute mordaci, occhiate
oblique e certi improvvisi silenzi che pure gridavano quasi più di una guerra.
Di loro ricordo soprattutto uno scambio, veloce e nervoso,
tuttavia eloquentissimo, perché esiste una voce dei sentimenti la cui eco
deflagra persino oltre l’intenzione.
“Come vedi non sono diventato ancora un Jonin.”
“Io sono contenta di rivederti vivo.”
Nessuno dei due arrossì o abbassò lo sguardo. Solo Shikamaru
tirò una boccata forse troppo profonda, tossendo e ridendoci su.
Ma Temari non stirò neppure le labbra.
Alla fine furono loro a vedersela con Juugo, combinando il
potere di controllo dell’ombra di Nara con le Lame del Vento di una combattente
esperta e decisa.
La loro intesa fu una sincronia geometrica tanto perfetta che
a tutti venne spontaneo domandarsi dove avessero imparato a combattere così,
s’erano piuttosto sempre stati rivali.
Solo la maestra Kurenai abbassò il capo e sorrise. Prima che
ce lo raccontasse il vento, un nuovo Re aveva preso per mano il suo.
Splendido e determinato, come un croco o un anemone.