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Autore: Rainie    15/10/2011    4 recensioni
Rein? La ragazza più normale del mondo. O almeno, così lei crede. Un lavoro? Beh, sì, ce l'ha, ma non è poi così normale come lei (?). Un imprevisto? Insomma, quello si vedrà.
Perché, in fondo, cosa sarebbe mai capitato a qualcuno che segue diligentemente le routine come lei?
Cit.: «Adesso che farai?» chiese, e fu in quel momento che capii il perché di quel sorriso inquietante: sapeva che ero disposta a tutto pur di non far morire un amore.
Deglutii saliva amara, era una bella domanda. Cosa avrei fatto? Cercando tutta la sicurezza che avevo in corpo, gli dissi: «Smettila, non è divertente.»
«E se anche fosse?» rispose avvicinandosi a me, ed io indietreggiai di conseguenza. No, non dovevo farmi mettere in soggezione da un tipo come lui.

[...]
«Facciamo così» sentenziò, «se mi trovi almeno cinque ragioni per continuare a stare con tua sorella, allora mollo tutto e continuo la storia. Se non riesci, beh… direi che è ora di finirla. Che ne dici?»
[Pairing: ShadexRein]
Genere: Comico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Rein, Shade, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 4
 
Ricordo che alle elementari giocavo sempre a nascondino. L’attesa dell’essere trovata mi rendeva ogni volta nervosa, avevo sempre paura che mi scovassero troppo presto per l’ovvietà del mio nascondiglio.
In quel momento mi sentivo esattamente allo stesso modo: Altezza cercava il segreto dentro di me, ed io avevo paura di non riuscire a custodirlo al meglio.
Cercai di fare del mio meglio per mentire. «Ma di cosa stai parlando?!» le dissi, assumendo un’espressione che poteva vagamente definirsi meravigliata e stupita. Era la bugia peggiore che avessi mai detto in vita mia, nemmeno un bambino ci sarebbe cascato, men che meno una ragazza intuitiva come la mia compagna, che di cervello ne aveva sempre avuto, a dirla tutta.
«Rein, non provare a mentirmi, sai che sono una sempre sicura di quello che dice» replicò con tono leggermente seccato, come se mi avesse letto nel pensiero. Deglutii saliva inesistente, forse fu quello il segno che fece capire ad Altezza – mi accorsi che aveva ancora in mano quella camicetta gialla – che aveva, ancora una volta, ragione, annuendo convinta e facendomi innervosire ancora di più. Avevo le idee leggermente confuse, e non mi piacevano molto le luci accecanti dei camerini di quel negozio: mi davano fastidio le cose troppo luminose.
Appoggiandomi al muro, ricordai che ero pessima anche a nascondino, così non era raro che fossi io a contare.
Per un momento, fui tentata dal continuare a mentire, pur sapendo che non sarei arrivata da nessuna parte perché, oramai, la mia bionda compagna aveva già capito tutto. Sospirai, facendo un’espressione accigliata, e pensai a cosa avrei dovuto dire.
«Ok, d’accordo. Hai ragione, ho baciato – quella parola mi fece provare un brivido – Shade. E con questo? A proposito, come hai fatto a vederci?»
Lei ignorò completamente la seconda domanda (ringraziai il cielo che lo fece, non volevo sapere alcun dettaglio), e rispose, sempre con quel ghigno stampato in faccia: «E con questo ho sentito anche di quel piccolo patto che avete stipulato. Qualche problema nel trovare queste cinque fantomatiche motivazioni, Rein?»
Riuscii a percepire un velo di superiorità nella sua voce che pronunciava l’ultima domanda (non sapevo nemmeno come facesse a sapere che non avevo trovato alcun pretesto per far sì che Shade e Fine continuassero a star insieme), ma probabilmente era il suo solito tono che mi faceva pensare così. Feci le spallucce, come se la cosa non mi toccasse. Non avevo molta voglia di parlarne.
Più che altro, non riuscivo più a sopportare il ricordo che Shade mi baciava; era come se lui stesso fosse entrato nella mia mente per ficcarmi l’immagine bene nell’angolo dei ricordi, e che l’avesse ingrandita abbastanza in modo da farmi sentire a disagio ogni volta che mi passava davanti agli occhi, e tutto questo solo nelle poche ore in cui eravamo stati, anche se non tanto, a contatto.
Mi sentivo molto, molto irritata da lui.
Altezza batté le mani, come se avesse trovato una spiegazione/soluzione a tutto, anche se non mi disse di cosa si trattava. Dopodiché, mi guardò, quasi seria, dicendomi: «Ci sono tante cose che non sai».
Alzai un sopracciglio, pronta a chiederle a cosa alludesse, ma lei mi precedette: «Credo proprio che a tempo debito lo saprai».
Peccato che questo “tempo debito” sembrò già molto lungo.
Quella notte, non seppi perché, mi ritrovai a sognare il giorno in cui Shade e Fine si erano messi insieme.
Ricordavo che mia sorella era così felice ed eccitata che nessuno era riuscito a fermarla, era così allegra. Sebbene anche quel ragazzo avesse fatto parte di quella giornata, nel sogno non comparve. Svegliandomi nel cuore della notte, mi chiesi se sarei riuscita a trovare almeno una ragione, giusto per sapere di aver provato a difendere l’amore che provava mia sorella. Non riuscii più a chiudere occhio, mi girai e rigirai nel letto in cerca di sonno, alla fine mi misi a fissare insistentemente le gru colorate appese al soffitto, fino a quando, poco prima dell’alba, mi riaddormentai con una domanda in testa.
Avrei dovuto finire di piegare mille di quegli uccelli?
 
A partire da quella volta avevo capito che la felicità era riservata solo ai (tanti) privilegiati, e che io ero solo una delle poche persone che non potevano averla.
Lo scopo delle gru di carta era di ricordare i momenti felici.
Io i momenti felici li avevo persi, per questo smisi di farli e mi dedicai nel far sì che gli altri non se la passino come me. Non credevo che sarebbe più ritornato tutto normale.
Non dormii affatto, poiché la sveglia suonò una mezz’ora dopo, cosa che mi fece alquanto deprimere, perché sicuramente non sarei stata allegra e pimpante come tutti i giorni.
Poco prima di uscire mi guardai, un’ultima volta, allo specchio, giusto per vedere se ero davvero pronta. Avevo gli occhi un po’ rossi, ma le occhiaie non si vedevano tanto grazie allo strato di fondotinta che mi ero passata sulla pelle per nasconderle, e mi sentii fiera di me stessa: almeno alcune cose mi riuscivano ancora bene.
Continuando a rimirarmi allo specchio, mi dissi di farmi forza e di sforzarmi a non pensare a quante volte avrei dovuto cadere e rialzarmi da sola. Era quello lo scopo, dopotutto, del mio “lavoro”: evitare che le altre persone siano sole quando cadranno, ed evitare, soprattutto, che cadano, com’era successo a me. Non sapevo cosa pensare di me; volevo a tutti i costi che la felicità altrui non andasse perduta, ma io cosa ci guadagnavo, in fondo?
Giunsi a scuola, come al solito (per “solito” intendo quando mia sorella mi diceva di andare per non farmi arrivare tardi aspettandola), in perfetto orario. Quella nottataccia mi aveva tolto ogni forza e voglia di pensare di vincere la scommessa tra me e Shade, quindi mi accasciai direttamente sul banco in cerca di un po’ di sonno. Avevo voglia di un po’ di tranquillità, tutto qui. A dire il vero, di tranquillità ne avevo un sacco, dato che ero arrivata troppo presto e gran parte dei miei compagni non erano ancora arrivati. E forse era meglio così.
Almeno fino a quando, inaspettatamente, mi comparve niente meno che Shade davanti.
Ero appoggiata sul banco a riflettere su quello che facevo, quando lui fece irruenza (non esattamente) nella classe e dovetti dire addio alla serenità che già mi pregustavo.
A proposito di pregustare, in quel momento mi accorsi di aver dimenticato, il giorno prima, di acquistare una torta per Fine in quel negozio di dolci come premio per il suo pomeriggio di studio (e anche qualcosa per Mirlo per averla aiutata). Così, prima che lui potesse dire una singola parola, diedi voce ai miei pensieri: «Dopo scuola accompagnami alla pasticceria di ieri.»
«Come, prego?» mi chiese, con un sopracciglio alzato e un’aria perplessa. Avevo la brutta abitudine di dire quello che pensavo nei momenti e alle persone meno opportuni, cosicché mi ritrovavo spesso in situazioni spiacevoli e difficili da gestire. Ma ormai la frittata era fatta, seppur avevo intenzione di disdire tutto. «Ieri mi sono dimenticata di comprare qualcosa a Fine e a Mirlo, che non sono venute. Dovresti un po’ preoccuparti per la tua amica e – uhm – la tua ragazza» ribattei, cercando di volgere la situazione a mio favore. Non era di certo perché volevo uscire da sola con Shade! Il solo pensiero mi fece rabbrividire.
Lui fece le spallucce. «Se vuoi, tanto non ho mai niente da fare.»
Cercai di deviare l’argomento, ma mi precedette chiedendomi: «Però perché non ci vai direttamente con loro?» Sbuffai, cercando di essere più convincente possibile – Shade era uno abbastanza paranoico e scettico quando si trattava di credere agli altri su cose che lo riguardavano direttamente. «Perché voglio far loro una sorpresa! Dì un po’, tu ci prendi proprio gusto a tormentare gli altri con le tue domande sospettose, eh?» Per la seconda volta, fece le spallucce in segno di noncuranza. «A proposito, volevi qualcosa da me?» gli chiesi, questa volta appuntandomi di non far aprire più la sua boccaccia se non per rispondere alle mie domande. Dovevo pur fare qualcosa per alzare un muro di difesa!
Lui si mise le mani nelle tasche, dondolando leggermente da un piede all’altro – cosa poco comune nel comportamento di Shade – e mi disse, con un tono beffardo: «Ricordati che sono già passate due settimane. Se non riesci al più presto a convincermi di stare con tua sorella, io--»
«Shh! Stupido, non farti sentire!» gli ringhiai a tono basso, ringraziando il cielo che nella classe ci fossi solo io e che i brusii di sottofondo dei miei pochi compagni presenti nel corridoio non si fossero fermati. Mi avvicinai, furtiva, al ragazzo di mia sorella, mantenendo una distanza di sicurezza per paura che succedesse la stessa cosa dell’altra volta in cui eravamo rimasti soli. Mi maledissi per il fatto che sarei davvero rimasta sola con Shade una volta usciti dall’edificio scolastico.
«Scusa, che c’è di male nel parlarne?» mi chiese, con un’espressione così dannatamente strafottente sul viso che mi fece venire voglia di dargli un pugno direttamente in faccia. «Carissimo, sai cosa vuol dire essere con il ragazzo della propria sorella a parlare della loro imminente rottura a causa propria?!» gli risposi io, sperando di essere stata sufficientemente esauriente in modo tale che lui non facesse più domande a riguardo.
«Ma sì, tanto gli altri non sanno di cosa stiamo parlando» disse, ignorando bellamente gli sguardi minacciosi che gli rivolgevo. «Ad ogni modo, penso che tu debba sbrigarti. Non eri te quella che aveva detto che tre mesi sarebbero stati più che sufficienti per dimostrarmi che il fatto che io stia con Fine sia la cosa più giusta del mondo?»
Non era una domanda, in verità, era come se dicesse “Ammettilo, che non hai mai avuto il coraggio di guardare la realtà, che in verità fra me e Fine non c’è più niente da dire”, ma io non riuscivo ancora a capacitarmi del fatto che tutto stava, inevitabilmente, cadendo in basso, che non potevo più rimettere insieme i pezzi di un vetro rotto senza che i solchi si notino. Ero in un vicolo cieco, e stavo cercando, inutilmente, di abbattere quel muro che mi separava dalla meta, sebbene non sapessi dove mi stavo dirigendo.
C’era qualcosa, in quel momento, che mosse i miei pensieri, che fece vibrare i battiti del mio cuore. Tempo fa mi imposi di non fare gli stessi errori del passato.
Per niente al mondo ci sarei cascata ancora.
 
«Non ti hanno mai detto che sei noioso?» fu il mio commento prima di uscire da quella stramaledetta pasticceria (non perché non fosse accogliente, anzi), con in mano una di quelle scatolette di carta abbastanza spessa da sembrare un cartoncino vero e proprio, ma che aveva ancora la stessa consistenza della carta. Mi piaceva un sacco la superficie liscia di quel materiale, tanto che per i seguenti 10 minuti non feci altro che accarezzarla con il pollice quanto più potevo.
Avevo preso una fetta di torta alla fragola per mia sorella (lei era ossessionata dalle fragole), mentre per la mia compagna più grande avevo optato per una fetta all’arancia.
Shade non aveva detto niente per tutto il tempo in cui eravamo stati nel negozio di dolci, se non qualche borbottio che dovevano essere dei “Fa’ come vuoi” ad ogni mio “Che ne dici di questa torta?”. Insomma, nulla di nuovo.
Era sempre stato così, sin dalla prima volta che l’avevo visto: schivo, poco aperto agli altri, non amava conversare, ma ogni volta che apriva bocca era sempre molto schietto e senza peli sulla lingua, a volte anche un po’ sarcastico e (forse) sadico; uno così, di certo, non te  lo trovavi come vicino di casa o chissà cosa, eppure a me, sfortunatamente, era capitato come compagno di scuola più grande.
«Dipende dai punti di vista» rispose lui, continuando ad andare avanti. Odiavo il suo modo di camminare, era sempre troppo veloce ed io dovevo fare una fatica immensa per poter stare al suo passo. Cercai di mantenere una camminata dignitosa – sembravo un bradipo in letargo che cercava, goffamente, di imitare un ghepardo o chissà quale altro animale veloce – mentre gli dicevo: «Smettila di essere così menefreghista, mi irriti un sacco!»
«Fatti tuoi» mi rispose, e il mio livello di rabbia salì sempre di più. Un giorno di quelli lo avrei preso a calci. Sbuffai, avrei dovuto disdire subito quell’uscita.
Decisa ad ignorare quell’individuo, mi sedetti sul bordo della fontanella della piazza, stanca di cercare di camminare al suo passo. Mi misi a controllare il cellulare, e vidi un messaggio di Fine che mi chiedeva dove fossi finita, dato che si stava facendo buio e che, probabilmente, si sarebbe presto mettere a piovere.
Alzai lo sguardo e notai dei nuvoloni grigi che incombevano sulla mia testa, e solo allora sentii quanto il vento spirava odore di pioggia. Sperai che non si mettesse a piovere proprio in quel momento, così mi misi a pensare a come proteggere le fette di torta dall’acqua. Decisi di passare prima da Mirlo, per poi ritornare a casa.
«Guarda che se non ti muovi diventerai davvero “pioggia”» disse lui; le mani in tasca, i primi bottoni della camicia dell’uniforme sbottonati e la borsa appesa alla spalla sinistra gli davano l’aria di un normale liceale e non di uno psicopatico idiota che si divertiva alle spalle della propria ragazza e faceva risolvere i problemi alla sorella di quest’ultima. «Va bene, ho capito» risposi, alzandomi dal freddo marmo che mi stava letteralmente gelando il sedere – ottobre si faceva sentire.
D’improvviso, una domanda mi balzò in testa. «Se non riuscissi a trovare le ragioni per cui tu e Fine dovreste stare insieme, la lascerai per davvero?»
Riuscii a leggere un velo di sorpresa negli occhi del ragazzo davanti a me, che intanto si era voltato senza tenermi in considerazione. Era talmente ovvio che l’avrebbe fatto, d’altronde, non era un tipo che si rimangiava le promesse. Probabilmente era la domanda più futile che avessi mai fatto in vita mia, ma lo fece, comunque, rimanere in silenzio per qualche secondo, a riflettere su chissà cosa.
«Insomma, perché mi hai detto che dovevo riflettere sul comportamento delle persone? E perché continui a farmi dei discorsi che nemmeno riesco ad interpretare? Sembra che tu ti diverta a farmi sentire così. Cioè, se tu lo facessi per un motivo preciso, allora avrebbe tutto un senso, ma se non mi dici niente non riesco proprio a capire cosa diam--»
«E tu perché ti ostini a volere che gli altri non smettano di amare le persone a loro care?» mi interruppe, volgendomi uno sguardo glaciale. Non seppi cosa rispondere, in un primo momento, mi limitai, perciò, ad abbassare lo sguardo non sapendo dove guardare, incapace di formulare una frase sensata che non sia: “Per te non è normale pensare agli altri?”. «Se una volta è successo a te» continuò, «non vuol dire che tu abbia il diritto di decidere la felicità o l’infelicità altrui.»
«Non sono affari tuoi» ringhiai, ritornatomi in mente tutto quello che era successo un anno e mezzo prima. Lui conosceva tutto, tutti i miei amici lo sapevano, perfino l’ingenuo Tio, che allora aveva 13 anni. Tirai un respiro profondo, conscia del fatto che non sarebbe servito a niente e che Shade mi stava fissando con uno sguardo alquanto sospettoso. In realtà non avevo alcuna ragione per continuare a pensare alle storie altrui; ero una ragazza che, di solito, si faceva sempre gli affari suoi per non avere alcun tipo di problema. «E, comunque, cerco di fare il possibile per lei perché è mia sorella.»
«Allora dimmi: dimmi cosa dovrebbe indurmi a non rompere il rapporto tra me e Fine.»
Con lui era una vita perennemente “O la va, o la spacca”, per questo era odioso. «Lei ci spera.»
Notai lo sguardo perplesso che mi volse. In lontananza, il rombo di un tuono vibrò nelle mie orecchie, ma riuscii a sentirlo distintamente e sussultai per la sorpresa. «Tu non hai mai sperato in qualcosa? Lei ti ama. Non sai cosa succede al cuore quando tutto quello in cui credevi ti scivola di mano? Quando capisci che tutto è finito, che è inutile continuare a sperare in qualcosa oramai perduto?» Mi sembrava, in verità, di parlare più a me stessa che a lui, ma non ci feci caso perché non dovevo farci caso: sarebbe stato troppo difficile affrontare di nuovo il passato. «Il cuore si spacca in due. Non importa se riesci a rimetterne insieme i pezzi, rimarranno sempre le crepe. Forse è per questo – feci un leggero risolino – che faccio tutto questo.»
Ricordai il salice piangente. Quel giorno ero stata io che piansi per davvero.
Non seppi se il mio discorso preparato in due secondi netti avesse avuto effetto (d’altronde, non ero mai stata brava a parlare), era la prima cosa che mi era passata in testa e di certo non era una delle migliori risposte che avessi dato in vita mia.
Io mi preoccupavo solo di una cosa: Fine non doveva assolutamente piangere, e io, da brava sorella maggiore quale dovevo essere, avevo il compito di proteggerla.
«Muoviti, o rischiamo di prendere un raffreddore» se ne uscì, dopo qualche secondo, Shade. Non seppi come aveva reagito davanti a tutto quel mio parlare finché non mi disse: «Per questa volta la passi liscia. Le prossime quattro non saranno così facili.»
Un minuto dopo, la pioggia cominciò a scendere con forza.





















N/A: Non fidatevi mai di me. MAI. Tranne quando vi anticipo qualcosa della fiction.
Sono ritornata, signori, a rompervi ancora le parti basse. Sto aggiornando una volta ogni due settimane circa, e credo di star mantenendo il ritmo. Ergo, il prossimo capitolo non verrà postato prima di 14/15 giorni (per vostra fortuna).
Ebbene, in questo capitolo, finalmente, Rein riesce a convincere Shade. Giuro che non avevo pianificato che andasse così (in verità sarebbe dovuta essere ambientata a scuola), e intanto mi sono venute in mente delle idee davvero niente male. Giuro che vi sorprenderò, ma qualche segno già si vede :) Però adesso ho un vuoto totale su cosa la nostra ragazza normale dovrebbe dire per compiacere (?) Shade .-. Oh, ma che pignolooooo. [cit.]
Vediamo anche un piccolissimo stralcio dei ricordi di Rein, cosa le sarà successo? Perché ha deciso di fare questo “lavoro”? Cosa significano le gru di carta, per lei? E sembra proprio che Altezza (ripeto che è da stimare) sappia qualcosa che lei non sa… chissà di cosa si tratterà, eheh.
Sto scrivendo un sacco di pensieri di Rein su Shade, sembra proprio che non cagCOFF tutti gli altri personaggi, soprattutto Fine. Devo trovare un pretesto per inserirla ancora di più nella storia.
Ho un bisogno immenso di dire una cosa: le storie con tutti quei paroloni, che nessuno usa mai (no, non ti preoccupare, non sto parlando di te, mamma Ieia (non so come chiamarti se non così) (: ), oppure con periodi di una complessità grammaticale assurda e con troppe metafore non mi piacciono proprio. Cioè, ci sono modi più semplici di esprimere un concetto, mica i lettori devono andare a cercare sul dizionario cosa significa l’intera frase, dai! Ok, a volte può essere simpatico, ma se una storia è perennemente scritta in questo modo è chiaro che chi legge si stanchi facilmente, anche se l’idea di partenza è interessante. Per questo mi piace come scrivo: non mi sembra molto difficile da interpretare, e sono abbastanza diretta e non mi spreco molto in parole, se non strettamente necessario; correggetemi se sbaglio.
Anyway, ringrazio tutti quelli che mi supportano/sopportano, e spero che il mio modo di scrivere e la mia fiction continuino a piacervi allo stesso modo della prima volta in cui mi avete letta :)
Beh, al prossimo aggiornamento!
Noth aka Rainy.
   
 
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