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Autore: Callie_Stephanides    19/10/2011    3 recensioni
È un vento epico, quello che sfiora Sasuke e Itachi, nell’ora più buia della storia di un clan maledetto e potentissimo.
È un vento che sa di guerra e di vendetta, come di un amore indicibile che corre nel sangue e nel sangue muore.
Sakura racconta le ultime ore di Konoha e la privatissima, desolata guerra di un ragazzo che non l’ha mai vista davvero, perché dietro ai suoi occhi, no: lei non c’è mai stata.
[ATTENZIONE: what if post cap. 351 del manga]
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Akatsuki, Itachi, Un po' tutti | Coppie: Sasuke/Sakura, Shikamaru/Temari
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
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Checché fosse comodo credere o recriminare il contrario, Itachi Uchiha non aveva mai odiato il fratello. Non entrava in conto il sangue, né il suo folle progetto di restaurare un clan decaduto partendo proprio da chi l’aveva generato, eletto e feroce come solo il sangue di un demone può garantire.
Non aveva parte neppure una qualche affezione imposta dall’età o da una primogenitura protettiva.
Se quella notte di sangue e di vendetta Itachi Uchiha aveva risparmiato Sasuke era stato non solo per la disperata voglia di vivere che il terrore di un bambino gridava, quanto per la luce che aveva colto troppe volte in due profondi occhi neri.
Prima ancora di un padre austero e indifferente, e di una madre mite e generosa, ma troppo debole per sopravvivere alla storia, Itachi aveva percepito appieno le potenzialità che custodiva un bambino taciturno, schivo, ma pronto nel cogliere ogni dettaglio.
Sasuke gli somigliava come nessuno degli Uchiha avrebbe mai potuto: erano uomini senza nerbo, che vivevano di una rispettabilità macchiata di sangue – eppure negata per quella sua stessa sorgente. La restaurazione del clan era divenuta un olocausto, prima ancora che per la sua feroce determinazione, per l’imbecillità di chi aveva osato opporglisi: la via della giustizia, come quella dell’ambizione, dell’eccellenza e dell’odio non tollerava fragili canne inclini a piegarsi. Itachi era divenuto la katana della purificazione.
La falce della morte.
La mano di Dio.
Sasuke, nondimeno, poteva ancora servirgli. Per cosa? Per un rituale empio, senz’altro. Ma non era abbastanza. Gli serviva a vivere e a trovare ogni giorno una giustificazione per una persistenza che la continuità mediocre del tempo rendeva intollerabile.
Nascere provvisto di ogni dono non è che una condanna differita alla noia.
L’odio di Sasuke era una corrente vitale che sosteneva non uno, ma due cuori, perché Itachi sapeva – ne era convinto proprio per quell’ostilità colpevole che aveva sempre colto negli occhi dell’altro – che Sasuke sarebbe divenuto sempre più forte.
Che Sasuke, in un tempo non ancora compiuto, sarebbe stato l’avversario che aspettava dal giorno in cui aveva respirato la vita per la prima volta e scoperto ch’era tutto troppo facile per uno come lui.
Itachi non aveva mai simulato il proprio affetto per Sasuke: la simulazione, come il sorriso, erano attitudini che appartenevano ai deboli, costretti a cedere a simili mezzucci per poter sopravvivere. Quelli come Uchiha potevano permettersi una ruvida e scontata schiettezza – la stessa per cui Sasuke era stato anche il solo a ricevere i suoi sorrisi.
Ricordava bene quei giorni tersi, illuminati dall’atmosfera ovattata che crea sempre il ricordo: giorni in cui il peso leggero di un fratellino stretto al suo collo non gravava quanto l’apatia di un talento inutilizzato.
Sasuke era il solo che guardasse ai suoi doni come a una conquista. Era il solo cullasse, assieme all’ammirazione, una vera fame di eccellenza. Era una delle ragioni per cui lo tollerava con sé. Era una maieutica dell’ambizione e dell’egoismo. Perfettamente riuscita, per altro.
Per gli Uchiha, Itachi era una bandiera ed era un mezzo. Come il Quinto Hokage aveva confessato a Jiraiya, nel corso dell’assedio di Konoha, il suo tradimento era stato il prevedibile corollario di un’ambizione sconsiderata.
Lo raccontava anche la storia di Gaara: non puoi fare di un’anima un simbolo senza pensare che possa esserne divorata.
Il cercotero della sabbia si era ribellato contro i suoi stessi evocatori. Itachi Uchiha aveva divelto nel sangue ogni legame – non Sasuke, però, perché l’ambizione senza speranza di quel piccolino era comunque un segno d’appartenenza a un clan che in tal sentimento aveva trovato una cifra distintiva e un chiaro segno di eccellenza.
Gli Uchiha del Fuoco non potevano essere acque chete: il parricida, il transfuga, il criminale non aveva fatto altro che ribadire il concetto intridendo di plasma una scontata evidenza.
Il giorno in cui Juugo gli sbarrò il cammino, senza osare davvero un solo passo nella sua direzione – per un ordine? Per prudenza? Non era comunque nulla che gli interessasse davvero – Itachi non manifestò la minima sorpresa.
Il vento aveva trascinato con sé la memoria di un’altra esecuzione, svegliando il suo istinto di lupo: un cucciolo tornava al branco più affamato che mai.
Orochimaru non aveva mai rappresentato una concreta minaccia per chi dominava lo Sharingan nella sua accezione più nobile e pericolosa, ma nessuno avrebbe mai osato sostenere che non fosse un eccezionale combattente, né l’avrebbe fatto ora che conosceva la mano dell’assassino. Una mano che ricordava piccola e fragile, come il polso che aveva spezzato con straordinaria facilità, ma nessun guerriero concede alla memoria di falsare le carte al punto da tradurre la nostalgia in una condanna a morte.
Quel giorno, non a caso, Itachi aveva compreso chi fosse il padrone e quale messaggio lo attendesse.
Era stato l’ultimo a muoversi dell’Akatsuki, perché a dispetto di quegli shinobi disperati conosceva abbastanza la Foglia da temerne le remiganti di fenice. Soprattutto, poi, aveva intuito di Naruto il potere più segreto e pericoloso: quello che non nasceva da Kyuubi, ma dalla determinazione di uomo e di amico. Quello che avrebbe potuto portare al rinnovamento di un antichissimo patto di potere, rinsaldando l’alleanza tra il demone-volpe e un eletto degli Uchiha: un eletto che gli somigliava, fuorché per gli occhi tristissimi.
Lo stesso che ora lo chiamava in giudizio oltre Konoha e senza testimoni.
Juugo – coperto del sangue delle stragi che aveva già perpetrato – rideva sguaiato indicando i fuochi dell’assedio, oscillando come una belva impazzita. Era una deviazione imposta e sgradita, la sua: si coglieva dall’impazienza con cui fissava la devastazione alle proprie spalle, temendo forse di perdere uno spettacolo di cui voleva pure essere il mattatore.
“Ti aspetta, ti aspetta.”
Era una cantilena folle. Un disco rotto e fisso su note stridenti.
“Vacci o muori. L’ha detto quel bastardo. Ha detto che ti aspetta.”
Itachi aveva fissato quella patetica imitazione di un essere umano con l’interesse che forse un entomologo avrebbe portato a un insetto: un’attitudine scientifica, priva di sentimenti o di emozioni palpabili. Non v’era calore, né simpatia, né curiosità; procurava anzi un singolare fastidio osservare quella pelle ingrigita su cui, lentamente, ma con perniciosa costanza, fiorivano piaghe brunastre, degne di una fiera tropicale.
“Hai paura? Hai paura?”
Juugo era la chimera di un demiurgo folle, bavosa e repellente. Per un pugno d’istanti aveva provato quasi simpatia per quel fratellino apparentemente così fragile, che pure aveva imparato a convivere con le proprie emozioni al punto da esorcizzare lo schifo, poi si era detto che non aveva comunque senso donarsi alla tenerezza, se la vita non conosceva quel lemma e lo negava piuttosto con assoluta pervicacia.
Non era per niente che l’aveva torturato sin quasi alla follia: l’amore di Itachi poteva esprimersi anche in un lascito come quello.
“Indicami la direzione e poi vattene. Sei fastidioso,” aveva detto con una violenza che quella creatura primitiva e disgustosa doveva aver colto nei suo accenti più profondi, perché si era discosta dopo aver lanciato un ululato raggelante.
Oltre la foresta, in direzione del villaggio, schianti ripetuti e secchi annunciavano la battaglia in corso. Avrebbe potuto unirsi alle fila di Alba e concedere ai propri compagni qualche opportunità di vittoria.
Poteva voltare loro le spalle come aveva fatto nei confronti di tutto quel che gli era riuscito a noia. Non esisteva altro che una scelta obbligata, dunque, scandita dallo scrosciare delle acque che avrebbero lavato l’intero destino di un clan.
Itachi aveva rinunciato alle emozioni anni prima, o avrebbe colto quel fremito leggero che suggeriva al suo cuore l’imminenza dello scontro e forse persino la felicità corrotta dall’odio di un inevitabile incontro.
Erano passati ancora tre anni: Sasuke non avrebbe più avuto il diritto di deluderlo. Non avrebbe potuto negargli l’uomo e l’assassino.
La Valle della Fine distava ancora un giorno di marcia dal punto in cui si era arrestato. Passo dopo passo, era quasi assaporare a ritroso un antico cammino, segnato da speranze troppe volte deluse.
La stessa Alba, nella smisurata violenza delle proprie ambizioni, non era che l’espressione di un’umanissima mediocrità. Nessuno dei singoli membri pareva assaporare, solo, il gusto dell’eccellenza: c’era chi inseguiva la vendetta, chi il denaro, chi una forma distorta d’arte, chi l’ambizione di una lama. Eppure il desiderio più bruciante di tutti – quello di una sfida senza speranza – non pareva sfiorare alcuno.
Itachi ricordava bene l’orgoglio con cui le labbra sprezzanti di un padre tradito si piegavano sempre quando suo figlio veniva definito per quello che era: una macchina da guerra senza pietà.
E una machine-gun alimenta se stessa con la persistenza di un fine che la pace annienta.
Itachi, tuttavia, non disprezzava la pace in quanto tale, ma la sua ipocrisia. La pace era anche la sotterranea dichiarazione d’amore e di guerra che Sasuke gli aveva sempre mosso, crescendo e nutrendosi di un sentimento deviato.
Solo in quell’accezione la quiete poteva dirsi accettabile, perché rinfocolava le sempiterne braci del fuoco degli Uchiha. Oltre non restava che la ruggine meschina del rimpianto: la stessa che aveva grattato via, lubrificando con il plasma la lama del proprio orgoglio.
Tra le fitte fronde di un verde brillante, il sole si annunciava con pennellate d’oro puro. Forse era stata l’abitudine ad ambienti chiusi e asfittici, terragni e nascosti, ma quella bellezza imprevista solleticava corde che credeva di aver resecato eoni prima: le memorie di un tempo rinnegato, inghiottito e vomitato con ogni scrupolo residuo volteggiavano come scimmie dispettose e terrificanti tra il rigoglio naturale della vegetazione.
In giorni come quelli, accanto a Shisui, era solito avventurarsi nel folto, per provare la propria abilità con qualunque ostacolo avesse incontrato lungo i propri passi. E Shisui, ombra fedele, lo seguiva con ammirevole dedizione, senza che mai si spegnesse nei suoi occhi una devozione che suonava quasi canina e avvilente.
Sì: avvilente, perché non v’era nulla di più umiliante che non vedere un Uchiha schiavo di un’altra primazia, arreso a quell’eccellenza sino al punto da rinunciare alla lotta come i veri perdenti.
La notte in cui l’aveva ammazzato il cielo ero di un nero tanto intenso da somigliare a petrolio; nembi diffusi oscuravano la volta, inghiottendo persino le stelle e rendendo incerti i passi dei pavidi.
Non i suoi.
Itachi non aveva mai sperimentato sulla propria pelle né la paura né l’esitazione. Persino in quel momento, mentre muoveva incontro al destino, si sentiva svuotato da ogni sentimento che non somigliasse a una placida attesa.
Solo i deboli temono le prove. I forti ne necessitano come dell’aria che respirano. Anzi, in misura maggiore, perché l’aria è di tutti, mentre il potere sorride solo a chi sa maneggiarlo.
Shisui gli era stato dietro come faceva sempre: un cagnolino fedele o una pecora destinata all’abisso della propria stessa stupidità. Aveva temporeggiato fin troppo, dividendo con lui i suoi sogni pur di concedergli l’opportunità di salvarsi, ma l’altro non l’aveva voluto intendere.
Seguitava a pronosticargli un avvenire da Hokage, come se una carica avesse davvero senso.
Itachi non chiedeva gli onori di un seggio, né un vincolo di protezione eterna verso chi neppure sapeva apprezzare; la sua ambizione muoveva dalle braci di un antico fuoco, che non tollerava più l’acquerugiola urticante di una manifesta decadenza.
Dunque Shisui era stato il primo – una preda facile. Una preda che non gli aveva dato la minima soddisfazione, perché era crollato al primo jutsu illusorio.
Cosa poi? Si era limitato a usare lo sharingan per profetizzare quel che sarebbe accaduto: la morte, il sangue e una luna indifferente, tinta di un porpora così intenso da lasciar pensare alla legittima vergogna di un’intera stirpe.
Shisui aveva gridato, ponendo troppe domande destinate a restare senza risposta. Come tutti i perdenti si arroccava sulle cause, senza cercare piuttosto il movente nel fine: non era degno della sua amicizia. Non era degno neppure della propria vita.
Shisui era morto nella Valle della Fine. La corrente aveva trascinato il suo corpo ben oltre la celebre conca, ma era tra i due colossi che le sue patetiche spoglie erano precipitate.
Nel buio, Itachi aveva avvertito il tonfo sordo con cui quella fragile conchiglia si era lasciata annullare dall’abbraccio del nulla e della propria pavidità, donandogli pure l’ultima vista.
Sasuke avrebbe seguito la stessa sorte, se non fosse stato un vero Uchiha e avesse dunque scelto di odiarlo.
Aveva affrettato il passo, con una risolutezza che la meta rendeva al contempo feroce e drammatica, perché la memoria non è mai usa concedere sconti, men che mai a chi neppure conosce la parola pietà.
In un punto ormai non troppo lontano dello spazio, Sasuke lo stava aspettando: Sasuke che aveva ormai quindici anni e – ne era certo – legava al volto delicato e tenero di una madre ormai dimenticata gli occhi spietati del padre che l’aveva rinnegato.
Non avrebbe combattuto un solo avversario, quanto i fantasmi di un’intera epoca, e quei fantasmi, con la loro indolente marcia, gli tenevano compagnia nel breve tratto che lo conduceva alla fine – per quanto poi, a ben vedere, fosse proprio da lì ch’era cominciato tutto.
Da quel bambino e dal desiderio inesausto che covava dietro i suoi occhi neri.

Continuavamo a combattere, ma di Itachi non apparve neppure l’ombra. Né, come prevedibile, si fece vedere Sasuke.
Sapevamo che c’era e che non poteva essere troppo lontano, perché la sua orribile squadra combatteva contro l’Akatsuki e contro la Foglia, a pochi metri dalle nostre fila.
Mi sembrava impossibile associare la sua bellezza algida e composta a quegli scherzi della natura, ma Karin, poco prima di essere uccisa, era stata ben lieta di vomitarmi addosso quell’inaccettabile verità. Solo su di un punto non le avevo mai creduto: quello in cui sosteneva d’essere la sua preferita. La compagna di Uchiha.
In giorni non troppo lontani, ero stata la prima a muovere quell’arrogante pretesa, perché mi dicevo che una come me meritava un eroe e niente di meno. Io ero fatta per essere la donna di un eroe, dunque di Sasuke. Ero cresciuta: sotto le mura di Konoha c’era una donna e c’era un ninja. Per quanto mi pungesse il cuore, non ero disposta a farmi distrarre da nulla – neppure da Uchiha, se fosse arrivato. Ma non lo vedemmo.
Le parole di Sai assumevano un significato sempre più corposo e desolante: era vero che ci aveva cancellati. Non contavamo più nulla ai suoi occhi.
In compenso quel compagno che non volevamo accettare – e che piuttosto ci aveva umiliati con i suoi sorrisi senza sorriso – restava al nostro fianco, quasi fosse davvero parte del Gruppo Sette. Era un’utopia nominalistica anche quella, nondimeno, poiché eravamo lontani secoli dai giorni incantati. Con il cuore, soprattutto.
Di un’epoca d’oro non restava che una rabbia bruciante e un’attesa sconfitta.
Gli shinobi di Alba erano spaventosi. I sicari di Sasuke li eguagliavano in violenza. Konoha tremava, ma non si arrendeva.
Juugo fu l’ultimo a essere eliminato. Non riuscivo a guardarlo senza sentirmi bruciare il cuore, perché oltre quelle macchie grottesche rivedevo il mio Sasuke, non la maldestra imitazione di essere umano. Fu quella bestia ad aprirmi gli occhi, però; a costringermi a guardare la realtà per quella che era, senza gli inutili filtri con cui avevo tentato di abbellirla o, almeno, pennellare colore in un inferno di grigio.
Naruto, che alla fine aveva combattuto malgrado la mano ferita e si teneva in piedi a stento, si avventò su quel corpo ormai in agonia con una rabbia cieca, eppure umanissima.
“Dove sono Sasuke e Itachi! Dicci dove sono!”
Le sue urla erano la voce stessa di Konoha, poiché eravamo tutti consapevoli del significato riposto di un’omissione impietosa.
Juugo ci ferì due volte e poi crepò.
La prima fu quando sibilò compiaciuto che uno dei due Uchiha era già senz’altro morto, là, in un bacino lontano in cui pure Uzumaki aveva tentato di trattenere la speranza.
La seconda, invece, germogliò con una crudeltà che solo le sue ultime parole rendono appieno, per quanto pure faticoso fosse intenderle, soffocate dal sangue com’erano.
Poco lontano dal punto in cui era caduto, c’era ancora la vecchia Tagliateste. Ne restava appena un moncone, ma bastò perché lo piantasse nello sterno del principale artefice della sua disfatta.
Almeno uno di noi doveva seguirlo all’Inferno, latrò, e scelse Shikamaru.
Lo vedemmo piegarsi senza un lamento, come pure muto fu il grido di Temari, mentre si precipitava a sostenerlo. Nara chiuse gli occhi, deglutì a fatica e poi ci ricordò che c’era ancora un compagno da salvare.
Non gli era mai stato simpatico, ma non era quella la legge di Konoha.

   
 
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