Checché fosse comodo credere o recriminare il contrario,
Itachi Uchiha non aveva mai odiato il fratello. Non entrava in conto il sangue,
né il suo folle progetto di restaurare un clan decaduto partendo proprio da chi
l’aveva generato, eletto e feroce come solo il sangue di un demone può
garantire.
Non aveva parte neppure una qualche affezione imposta
dall’età o da una primogenitura protettiva.
Se quella notte di sangue e di vendetta Itachi Uchiha aveva
risparmiato Sasuke era stato non solo per la disperata voglia di vivere che il
terrore di un bambino gridava, quanto per la luce che aveva colto troppe volte
in due profondi occhi neri.
Prima ancora di un padre austero e indifferente, e di una
madre mite e generosa, ma troppo debole per sopravvivere alla storia, Itachi
aveva percepito appieno le potenzialità che custodiva un bambino taciturno,
schivo, ma pronto nel cogliere ogni dettaglio.
Sasuke gli somigliava come nessuno degli Uchiha avrebbe mai
potuto: erano uomini senza nerbo, che vivevano di una rispettabilità macchiata
di sangue – eppure negata per quella sua stessa sorgente. La restaurazione del
clan era divenuta un olocausto, prima ancora che per la sua feroce
determinazione, per l’imbecillità di chi aveva osato opporglisi: la via della
giustizia, come quella dell’ambizione, dell’eccellenza e dell’odio non tollerava
fragili canne inclini a piegarsi.
Itachi era divenuto la katana della purificazione.
La falce della morte.
La mano di Dio.
Sasuke, nondimeno, poteva ancora servirgli. Per cosa? Per un
rituale empio, senz’altro. Ma non era abbastanza. Gli serviva a vivere e a
trovare ogni giorno una giustificazione per una persistenza che la continuità
mediocre del tempo rendeva intollerabile.
Nascere provvisto di ogni dono non è che una condanna
differita alla noia.
L’odio di Sasuke era una corrente vitale che sosteneva non
uno, ma due cuori, perché Itachi sapeva – ne era convinto proprio per
quell’ostilità colpevole che aveva sempre colto negli occhi dell’altro – che
Sasuke sarebbe divenuto sempre più forte.
Che Sasuke, in un tempo non ancora compiuto, sarebbe stato
l’avversario che aspettava dal giorno in cui aveva respirato la vita per la
prima volta e scoperto ch’era tutto troppo facile per uno come lui.
Itachi non aveva mai simulato il proprio affetto per Sasuke:
la simulazione, come il sorriso, erano attitudini che appartenevano ai deboli,
costretti a cedere a simili mezzucci per poter sopravvivere. Quelli come Uchiha
potevano permettersi una ruvida e scontata schiettezza – la stessa per cui
Sasuke era stato anche il solo a ricevere i suoi sorrisi.
Ricordava bene quei giorni tersi, illuminati dall’atmosfera
ovattata che crea sempre il ricordo: giorni in cui il peso leggero di un
fratellino stretto al suo collo non gravava quanto l’apatia di un talento
inutilizzato.
Sasuke era il solo che guardasse ai suoi doni come a una
conquista. Era il solo cullasse, assieme all’ammirazione, una vera fame di
eccellenza. Era una delle ragioni per cui lo tollerava con sé. Era una maieutica
dell’ambizione e dell’egoismo. Perfettamente riuscita, per altro.
Per gli Uchiha, Itachi era una bandiera ed era un mezzo. Come
il Quinto Hokage aveva confessato a Jiraiya, nel corso dell’assedio di Konoha,
il suo tradimento era stato il prevedibile corollario di un’ambizione
sconsiderata.
Lo raccontava anche la storia di Gaara: non puoi fare di
un’anima un simbolo senza pensare che possa esserne divorata.
Il cercotero della sabbia si era ribellato contro i suoi
stessi evocatori. Itachi Uchiha aveva divelto nel sangue ogni legame – non
Sasuke, però, perché l’ambizione senza speranza di quel piccolino era comunque
un segno d’appartenenza a un clan che in tal sentimento aveva trovato una cifra
distintiva e un chiaro segno di eccellenza.
Gli Uchiha del Fuoco non potevano essere acque chete: il
parricida, il transfuga, il criminale non aveva fatto altro che ribadire il
concetto intridendo di plasma una scontata evidenza.
Il giorno in cui Juugo gli sbarrò il cammino, senza osare
davvero un solo passo nella sua direzione – per un ordine? Per prudenza? Non era
comunque nulla che gli interessasse davvero – Itachi non manifestò la minima
sorpresa.
Il vento aveva trascinato con sé la memoria di un’altra
esecuzione, svegliando il suo istinto di lupo: un cucciolo tornava al branco più
affamato che mai.
Orochimaru non aveva mai rappresentato una concreta minaccia
per chi dominava lo Sharingan nella sua accezione più nobile e pericolosa, ma
nessuno avrebbe mai osato sostenere che non fosse un eccezionale combattente, né
l’avrebbe fatto ora che conosceva la mano dell’assassino. Una mano che ricordava
piccola e fragile, come il polso che aveva spezzato con straordinaria facilità,
ma nessun guerriero concede alla memoria di falsare le carte al punto da
tradurre la nostalgia in una condanna a morte.
Quel giorno, non a caso, Itachi aveva compreso chi fosse il
padrone e quale messaggio lo attendesse.
Era stato l’ultimo a muoversi dell’Akatsuki, perché a
dispetto di quegli shinobi disperati conosceva abbastanza la Foglia da temerne
le remiganti di fenice. Soprattutto, poi, aveva intuito di Naruto il potere più
segreto e pericoloso: quello che non nasceva da Kyuubi, ma dalla determinazione
di uomo e di amico. Quello che avrebbe potuto portare al rinnovamento di un
antichissimo patto di potere, rinsaldando l’alleanza tra il demone-volpe e un
eletto degli Uchiha: un eletto che gli somigliava, fuorché per gli occhi
tristissimi.
Lo stesso che ora lo chiamava in giudizio oltre Konoha e
senza testimoni.
Juugo – coperto del sangue delle stragi che aveva già
perpetrato – rideva sguaiato indicando i fuochi dell’assedio, oscillando come
una belva impazzita. Era una deviazione imposta e sgradita, la sua: si coglieva
dall’impazienza con cui fissava la devastazione alle proprie spalle, temendo
forse di perdere uno spettacolo di cui voleva pure essere il mattatore.
“Ti aspetta, ti aspetta.”
Era una cantilena folle. Un disco rotto e fisso su note
stridenti.
“Vacci o muori. L’ha detto quel bastardo. Ha detto che ti
aspetta.”
Itachi aveva fissato quella patetica imitazione di un essere
umano con l’interesse che forse un entomologo avrebbe portato a un insetto:
un’attitudine scientifica, priva di sentimenti o di emozioni palpabili. Non
v’era calore, né simpatia, né curiosità; procurava anzi un singolare fastidio
osservare quella pelle ingrigita su cui, lentamente, ma con perniciosa costanza,
fiorivano piaghe brunastre, degne di una fiera tropicale.
“Hai paura? Hai paura?”
Juugo era la chimera di un demiurgo folle, bavosa e
repellente. Per un pugno d’istanti aveva provato quasi simpatia per quel
fratellino apparentemente così fragile, che pure aveva imparato a convivere con
le proprie emozioni al punto da esorcizzare lo schifo, poi si era detto che non
aveva comunque senso donarsi alla tenerezza, se la vita non conosceva quel lemma
e lo negava piuttosto con assoluta pervicacia.
Non era per niente che l’aveva torturato sin quasi alla
follia: l’amore di Itachi poteva esprimersi anche in un lascito come quello.
“Indicami la direzione e poi vattene. Sei fastidioso,” aveva
detto con una violenza che quella creatura primitiva e disgustosa doveva aver
colto nei suo accenti più profondi, perché si era discosta dopo aver lanciato un
ululato raggelante.
Oltre la foresta, in direzione del villaggio, schianti
ripetuti e secchi annunciavano la battaglia in corso. Avrebbe potuto unirsi alle
fila di Alba e concedere ai propri compagni qualche opportunità di vittoria.
Poteva voltare loro le spalle come aveva fatto nei confronti
di tutto quel che gli era riuscito a noia. Non esisteva altro che una scelta
obbligata, dunque, scandita dallo scrosciare delle acque che avrebbero lavato
l’intero destino di un clan.
Itachi aveva rinunciato alle emozioni anni prima, o avrebbe
colto quel fremito leggero che suggeriva al suo cuore l’imminenza dello scontro
e forse persino la felicità corrotta dall’odio di un inevitabile incontro.
Erano passati ancora tre anni: Sasuke non avrebbe più avuto
il diritto di deluderlo. Non avrebbe potuto negargli l’uomo e l’assassino.
La Valle della Fine distava ancora un giorno di marcia dal
punto in cui si era arrestato. Passo dopo passo, era quasi assaporare a ritroso
un antico cammino, segnato da speranze troppe volte deluse.
La stessa Alba, nella smisurata violenza delle proprie
ambizioni, non era che l’espressione di un’umanissima mediocrità. Nessuno dei
singoli membri pareva assaporare, solo, il gusto dell’eccellenza: c’era chi
inseguiva la vendetta, chi il denaro, chi una forma distorta d’arte, chi
l’ambizione di una lama. Eppure il desiderio più bruciante di tutti – quello di
una sfida senza speranza – non pareva sfiorare alcuno.
Itachi ricordava bene l’orgoglio con cui le labbra sprezzanti
di un padre tradito si piegavano sempre quando suo figlio veniva definito per
quello che era: una macchina da guerra senza pietà.
E una machine-gun alimenta se stessa con la persistenza di un
fine che la pace annienta.
Itachi, tuttavia, non disprezzava la pace in quanto tale, ma
la sua ipocrisia. La pace era anche la sotterranea dichiarazione d’amore e di
guerra che Sasuke gli aveva sempre mosso, crescendo e nutrendosi di un
sentimento deviato.
Solo in quell’accezione la quiete poteva dirsi accettabile,
perché rinfocolava le sempiterne braci del fuoco degli Uchiha. Oltre non restava
che la ruggine meschina del rimpianto: la stessa che aveva grattato via,
lubrificando con il plasma la lama del proprio orgoglio.
Tra le fitte fronde di un verde brillante, il sole si
annunciava con pennellate d’oro puro. Forse era stata l’abitudine ad ambienti
chiusi e asfittici, terragni e nascosti, ma quella bellezza imprevista
solleticava corde che credeva di aver resecato eoni prima: le memorie di un
tempo rinnegato, inghiottito e vomitato con ogni scrupolo residuo volteggiavano
come scimmie dispettose e terrificanti tra il rigoglio naturale della
vegetazione.
In giorni come quelli, accanto a Shisui, era solito
avventurarsi nel folto, per provare la propria abilità con qualunque ostacolo
avesse incontrato lungo i propri passi. E Shisui, ombra fedele, lo seguiva con
ammirevole dedizione, senza che mai si spegnesse nei suoi occhi una devozione
che suonava quasi canina e avvilente.
Sì: avvilente, perché non v’era nulla di più umiliante che
non vedere un Uchiha schiavo di un’altra primazia, arreso a quell’eccellenza
sino al punto da rinunciare alla lotta come i veri perdenti.
La notte in cui l’aveva ammazzato il cielo ero di un nero
tanto intenso da somigliare a petrolio; nembi diffusi oscuravano la volta,
inghiottendo persino le stelle e rendendo incerti i passi dei pavidi.
Non i suoi.
Itachi non aveva mai sperimentato sulla propria pelle né la
paura né l’esitazione. Persino in quel momento, mentre muoveva incontro al
destino, si sentiva svuotato da ogni sentimento che non somigliasse a una
placida attesa.
Solo i deboli temono le prove. I forti ne necessitano come
dell’aria che respirano. Anzi, in misura maggiore, perché l’aria è di tutti,
mentre il potere sorride solo a chi sa maneggiarlo.
Shisui gli era stato dietro come faceva sempre: un cagnolino
fedele o una pecora destinata all’abisso della propria stessa stupidità. Aveva
temporeggiato fin troppo, dividendo con lui i suoi sogni pur di concedergli
l’opportunità di salvarsi, ma l’altro non l’aveva voluto intendere.
Seguitava a pronosticargli un avvenire da Hokage, come se una
carica avesse davvero senso.
Itachi non chiedeva gli onori di un seggio, né un vincolo di
protezione eterna verso chi neppure sapeva apprezzare; la sua ambizione muoveva
dalle braci di un antico fuoco, che non tollerava più l’acquerugiola urticante
di una manifesta decadenza.
Dunque Shisui era stato il primo – una preda facile. Una
preda che non gli aveva dato la minima soddisfazione, perché era crollato al
primo jutsu illusorio.
Cosa poi? Si era limitato a usare lo sharingan per
profetizzare quel che sarebbe accaduto: la morte, il sangue e una luna
indifferente, tinta di un porpora così intenso da lasciar pensare alla legittima
vergogna di un’intera stirpe.
Shisui aveva gridato, ponendo troppe domande destinate a
restare senza risposta. Come tutti i perdenti si arroccava sulle cause, senza
cercare piuttosto il movente nel fine: non era degno della sua amicizia. Non era
degno neppure della propria vita.
Shisui era morto nella Valle della Fine. La corrente aveva
trascinato il suo corpo ben oltre la celebre conca, ma era tra i due colossi che
le sue patetiche spoglie erano precipitate.
Nel buio, Itachi aveva avvertito il tonfo sordo con cui
quella fragile conchiglia si era lasciata annullare dall’abbraccio del nulla e
della propria pavidità, donandogli pure l’ultima vista.
Sasuke avrebbe seguito la stessa sorte, se non fosse stato un
vero Uchiha e avesse dunque scelto di odiarlo.
Aveva affrettato il passo, con una risolutezza che la meta
rendeva al contempo feroce e drammatica, perché la memoria non è mai usa
concedere sconti, men che mai a chi neppure conosce la parola pietà.
In un punto ormai non troppo lontano dello spazio, Sasuke lo
stava aspettando: Sasuke che aveva ormai quindici anni e – ne era certo – legava
al volto delicato e tenero di una madre ormai dimenticata gli occhi spietati del
padre che l’aveva rinnegato.
Non avrebbe combattuto un solo avversario, quanto i fantasmi
di un’intera epoca, e quei fantasmi, con la loro indolente marcia, gli tenevano
compagnia nel breve tratto che lo conduceva alla fine – per quanto poi, a ben
vedere, fosse proprio da lì ch’era cominciato tutto.
Da quel bambino e dal desiderio inesausto che covava dietro i
suoi occhi neri.
Continuavamo a combattere, ma di Itachi non apparve neppure
l’ombra. Né, come prevedibile, si fece vedere Sasuke.
Sapevamo che c’era e che non poteva essere troppo lontano,
perché la sua orribile squadra combatteva contro l’Akatsuki e contro la Foglia,
a pochi metri dalle nostre fila.
Mi sembrava impossibile associare la sua bellezza algida e
composta a quegli scherzi della natura, ma Karin, poco prima di essere uccisa,
era stata ben lieta di vomitarmi addosso quell’inaccettabile verità. Solo su di
un punto non le avevo mai creduto: quello in cui sosteneva d’essere la sua
preferita. La compagna di Uchiha.
In giorni non troppo lontani, ero stata la prima a muovere
quell’arrogante pretesa, perché mi dicevo che una come me meritava un eroe e
niente di meno. Io ero fatta per essere la donna di
un eroe, dunque di Sasuke. Ero cresciuta: sotto le mura di Konoha c’era una
donna e c’era un ninja. Per quanto mi pungesse il cuore, non ero disposta a
farmi distrarre da nulla – neppure da Uchiha, se fosse arrivato. Ma non lo
vedemmo.
Le parole di Sai assumevano un significato sempre più corposo
e desolante: era vero che ci aveva cancellati. Non contavamo più nulla ai suoi
occhi.
In compenso quel compagno che non volevamo accettare – e che
piuttosto ci aveva umiliati con i suoi sorrisi senza sorriso – restava al nostro
fianco, quasi fosse davvero parte del Gruppo Sette. Era un’utopia nominalistica
anche quella, nondimeno, poiché eravamo lontani secoli dai giorni incantati. Con
il cuore, soprattutto.
Di un’epoca d’oro non restava che una rabbia bruciante e
un’attesa sconfitta.
Gli shinobi di Alba erano spaventosi. I sicari di Sasuke li
eguagliavano in violenza. Konoha tremava, ma non si arrendeva.
Juugo fu l’ultimo a essere eliminato. Non riuscivo a
guardarlo senza sentirmi bruciare il cuore, perché oltre quelle macchie
grottesche rivedevo il mio Sasuke, non la maldestra imitazione di essere umano.
Fu quella bestia ad aprirmi gli occhi, però; a costringermi a guardare la realtà
per quella che era, senza gli inutili filtri con cui avevo tentato di abbellirla
o, almeno, pennellare colore in un inferno di grigio.
Naruto, che alla fine aveva combattuto malgrado la mano
ferita e si teneva in piedi a stento, si avventò su quel corpo ormai in agonia
con una rabbia cieca, eppure umanissima.
“Dove sono Sasuke e Itachi! Dicci dove sono!”
Le sue urla erano la voce stessa di Konoha, poiché eravamo
tutti consapevoli del significato riposto di un’omissione impietosa.
Juugo ci ferì due volte e poi crepò.
La prima fu quando sibilò compiaciuto che uno dei due Uchiha
era già senz’altro morto, là, in un bacino lontano in cui pure Uzumaki aveva
tentato di trattenere la speranza.
La seconda, invece, germogliò con una crudeltà che solo le
sue ultime parole rendono appieno, per quanto pure faticoso fosse intenderle,
soffocate dal sangue com’erano.
Poco lontano dal punto in cui era caduto, c’era ancora la
vecchia Tagliateste. Ne restava appena un moncone, ma bastò perché lo piantasse
nello sterno del principale artefice della sua disfatta.
Almeno uno di noi doveva seguirlo all’Inferno, latrò, e
scelse Shikamaru.
Lo vedemmo piegarsi senza un lamento, come pure muto fu il
grido di Temari, mentre si precipitava a sostenerlo. Nara chiuse gli occhi,
deglutì a fatica e poi ci ricordò che c’era ancora un compagno da salvare.
Non gli era mai stato simpatico, ma non era quella la legge
di Konoha.