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Autore: Mary P_Stark    22/10/2011    2 recensioni
Cosa succederebbe se gli dèi dell'Olimpo e gli eroi greci camminassero tra noi? Quali potrebbero essere le conseguenze, per noi e per loro? Atena, dea della Guerra, delle Arti e dell'Intelletto, incuriosita dal mondo moderno, ha deciso di vivere tra noi per conoscere le nuove genti che popolano la Terra e che, un tempo, lei governava assieme al Padre Zeus e gli Olimpici. In questa raccolta, verranno raccontate le avventure di Atena, degli dèi olimpici e degli eroi del mito greco, con i loro pregi, i loro difetti e le loro piccole stravaganze. (Naturalmente, i miti sono rivisitati e corretti)
Genere: Commedia, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.
 


 

Atty sedeva come al solito al suo scrittoio, la finestra aperta sul giardino che si apriva a ventaglio sul retro di casa. Il profumo delle erbe officinali e delle rose tee inondava la stanza, mentre lo sguardo malinconico e pensieroso della sua civetta le accarezzava il volto eburneo.

Non v’era nulla di strano in quell’immagine, nulla che non ricalcasse i suoi ultimi anni a Pebble Beach, nei pressi di Monterey, California. La Sunridge Road – dove lei abitava – era sempre percorsa dalle auto dei facoltosi residenti, e l’abbaiare lontano dei cani da guardia era solo un lieve brusio che spezzava il silenzio di quel colle rivolto verso l’oceano.

Eppure, quella mattina, qualcosa di diverso dal solito c’era; lo sentiva.

Fu la brezza proveniente dall’oceano a portare la conferma ai suoi sospetti.

Prima ancora che il suono del campanello si allargasse nella villa in stile country in cui viveva da dieci anni, Atty si era già alzata dalla sedia di vimini su cui era rimasta assisa fino a quel momento.

In poche, rapide falcate, raggiunse la porta d'ingresso per poi aprirla, ritrovandosi dinanzi l’ospite più inatteso che le sarebbe potuto capitare in mille anni.

Biondo e dai riccioli mollemente rilasciati sulle spalle, il cugino Hermes sorrise bonario ad Atty e, levando una mano recante una busta vergata elegantemente, esordì dicendo: “Buongiorno, cugina. Sono secoli che non ci vediamo, eh?”

Aggrottando la fronte con espressione dubbiosa, Atty aprì completamente la porta d’ingresso per lasciar entrare il baldo cugino, abbigliato con una camicia hawaiana, pantaloncini corti e infradito ai piedi.

Squadrandolo dall’alto al basso con aria a metà tra il divertito e lo sconcertato, Atty disse a mezza voce: “Disturbato mentre eri in vacanza?”

“Esatto. Ma quando il grande capo chiama, bisogna muovere il culo, no?” ridacchiò Hermes, guardandosi intorno con espressione curiosa e astuta assieme.

Atty non dubitò neppure per un istante che, al suo ritorno a casa, avrebbe spifferato tutto sul suo conto al padre. Come dubitarne anche solo per un secondo, visto chi aveva appena fatto entrare in casa?

Hermes era tutto meno che discreto, e avrebbe riportato con dovizia di particolari ciò che in quel momento stava scrutando con tanta attenzione.

La villa ove abitava ricordava il Messico e le sue tradizioni, dalle pareti intonacate grossolanamente e con caldi colori del bronzo e dell’ocra, alle tende leggere di organza, che danzavano dal giallo paglierino al rosso vivace. Le linee minimaliste del mobilio, e l’utilizzo di legni scuri e grezzi, non facevano che accentuarne la memoria storica.

Le librerie poste nell’ampio ingresso erano semplici, senza fronzoli ad abbellirle. Niente stile roccocò o liberty, per lei.

Su di esse, disposti in bella mostra, diversi oggetti appartenenti al popolo Maya erano esposti allo sguardo degli ospiti e della padrona di casa, vestigia di un antico passato a cui Atty era molto legata.

Hermes fissò ironico per alcuni attimi la sua preziosa collezione, prima di passare oltre. Di certo, immaginava i motivi di quella scelta stilistica ma non commentò in alcun modo, proseguendo lungo il corridoio abbellito da fotografie raffiguranti il sito archeologico di Tulum.

Fissandone una in particolare, Hermes lanciò uno sguardo significativo alla cugina che, accigliata, sibilò: “Non osare aprire bocca.”

“Carini” si limitò a dire lui, ammiccando all’indirizzo della coppia fotografata di fronte a una piramide a gradoni.

Brontolando un insulto tra i denti, Atty sospinse il cugino fino al salotto, un’ampia stanza rettangolare dove un’enorme vetrata lasciava intravedere l’oceano dabbasso. Le piante ad alto fusto che scivolavano lungo il declivio sibilavano leggermente al passaggio del vento, e il loro agreste profumo giungeva nella stanza, permeandola.

Continuando a guardarsi intorno incuriosito, Hermes le disse: “Di casa tua non hai esposto nulla, a quanto vedo.”

I divani di quel salotto, bassi e in legno lavorato grossolanamente, erano ricoperti da cuscini sui toni del rosso e del giallo, così come le poltrone affacciate sulla veranda. Sui muri color ocra, arazzi ricamati raffiguravano dei quetzal dalle lunghe piume verdi appollaiati sulle statue di alcuni dèi di pietra.

No, a ben vedere, della terra natale di Atty, non v’era davvero nulla.

Atty si accigliò a quel commento, e mormorò: “Non avevo motivi per esibire oggetti provenienti dalla Grecia.”

“Ma dalla terra natia di…” cominciò col dire Hermes, subito azzittito dall’occhiata omicida di Atty. “Okay, mi muro la bocca.”

“Bene” ringhiò lei, volgendogli le spalle.

Aggirando il piano bar in legno e marmo verde d’Irlanda, Atty aprì il frigorifero da cui estrasse una bottiglia di scotch, due bicchierini e un cestello di cubetti di ghiaccio. Ciò fatto, poggiò il tutto sul tavolino che separava i due sofà e si servì un goccio di liquore, senza però badare a fare lo stesso con il suo ospite.

Sorridendo derisorio nel rendersi conto che la cugina non gli avrebbe versato da bere, il giovane prese la bottiglia di liquore e lasciò scivolare un paio di dita di scotch in un secondo bicchiere. Senza poi attendere alcun invito, si accomodò disordinatamente sul divano che dava le spalle all’oceano.

Scrutandolo meditabonda, Atty non fece granché caso all’arrivo della sua civetta che, con eleganza, si posò sul piano bar e scrutò a sua volta il nuovo venuto.

Nuovo venuto che, perforato dallo sguardo di uccello e donna, ridacchiò nervosamente prima di esalare: “Ehi, ambasciator non porta pena, Atty! Prenditela con chi di dovere, non con me!”

“Non dovevano neppure sapere che io ero qui, se ben ricordo. Avevo schermato la casa di proposito” precisò Atty, sorseggiando lo scotch prima di sedersi di fronte al cugino.

Hermes ebbe la decenza di arrossire e Atty, allentando un poco la stretta sul bicchiere, aggiunse con maggiore calma: “Senti, so quanto possa essere pressante nostro padre, quando vuole una cosa. Che ha di così importante da dirmi, per aver inviato niente meno che te?”

Hermes le allungò la busta color crema che ancora teneva in mano e Atty, dopo averla afferrata e averne percepito sotto il polpastrelli la filigrana grossa e irregolare, sospirò e spezzò il sigillo di ceralacca con un secco strattone.

Dopo un momento di indecisione ne estrasse un foglio ripiegato in due, che dispiegò con cautela e, aggrottata impercettibilmente la fronte, cominciò a leggere.

 
Mia cara figlia, conosco bene i motivi che ti spingono
a rimanere incatenata al luogo dove tutt’ora dimori, lasciando
la tua famiglia fuori dalla tua vita e dal tuo dolore.
Vorrei solo che credessi alle parole di tuo zio, quando
afferma di non aver avuto alcun ruolo nella morte di tuo marito.
Nulla avrebbe potuto farlo più felice che renderti la vita di Miguel,
ma nessuno può reclamare la sua anima, una volta varcate le porte dell’Oltretomba.
Torna da me e riappacificati con tuo zio. Ne trarrete entrambi giovamento.
 
Levando lo sguardo dallo scritto, Atty sospirò lasciando ricadere la lettera sulle gambe e, con voce resa roca dal rancore, disse: “Dovrà cadere il sole, prima che ciò avvenga.”

Hermes sgranò gli occhi, scrutando allarmato fuori dalla vetrata per accertarsi che non stesse succedendo nulla di preoccupante, prima di esclamare: “Per tutti gli dèi dell’Olimpo, Atty! Non parlare così! Una dea non dovrebbe esprimersi a questo modo. Sai che le nostre parole hanno un peso!”

Fulminandolo con occhi adamantini, Atty si levò in piedi ed esclamò: “Pensi che le parole degli umani non l’abbiano?!”

Levandosi a sua volta in piedi, Hermes oltrepassò in tutta fretta lo spazio che li separava e, afferrando la cugina per le spalle, mormorò comprensivo: “Atty, Atena, ascoltami. Non volevo mancare di rispetto a tuo marito. Sono più che sicuro che i voti che vi siete scambiati fossero sinceri, e che le sue parole avessero davvero un peso e un’importanza reali. Ma tu sei e rimani la dea della guerra, delle arti e dell’intelletto, non puoi dimenticarlo. Non puoi parlare a vanvera.”

Atena tremò sotto la sua stretta prima di reclinare il viso e lasciare che una massa di morbide ciocche ramate ne velasse i tratti del volto perfetti ed eternamente belli.

Trattenendo lacrime che non avrebbe mai versato in presenza di Hermes, Atena sussurrò con voce rotta dal dolore: “Non c’è più, Hermes. Non è più con me.”

Arrischiandosi ad abbracciarla, Hermes le carezzò la lunga chioma dorata, sussurrando contro la sua chioma morbida: “Sono proprio la persona meno adatta per questo ruolo, sorella. Riprenditi, o comincerò a piangere anch’io.”

Scoppiando in una risatina sgangherata, Atena si scostò da Hermes e disse: “Scusa. Ma era da tempo che non ne parlavo con qualcuno.”

“Quanto tempo è che non vedi gente? Quattro anni? Da quanto tempo non vai a trovare Apollo, o Artemide? Sai che sentono tremendamente la tua mancanza?” le domandò Hermes, dandole delle goffe pacche sulle spalle.

Allontanandosi da Hermes, Atena tornò a sedersi sul divano mentre la sua civetta, Pallade, svolazzava sullo schienale andando a posarsi accanto a lei. Con un movimento elegante della testa, sfiorò la sua chioma ramata emettendo un suono simile a un lamento.

Sorridendo all’amica, Atena ne carezzò il piumaggio sericeo e scuro prima di tornare ad osservare Hermes e chiedergli: “Poseidone non ha neppure il coraggio di scrivermi di persona? Deve lasciare che nostro padre interceda per lui?”

“Senti, Atty, se nostro zio avesse mandato uno dei suoi tritoni come ambasciatore, avresti dato in escandescenze, magari friggendolo sul posto” protestò bonariamente Hermes, finendo il suo scotch prima di poggiare il bicchiere sul tavolino di cristallo e tornare a sedersi sul divano.

Allungate poi le braccia sul bordo dello schienale, Hermes riprese il discorso, aggiungendo: “L’astio tra te e Poseidone è vecchio di millenni, Atty, e lo sai. Non avresti mai accettato un suo portavoce alla porta, ma avresti accettato me.”

“Potrei sempre decidere di far mangiare i tuoi sandali alati a Pallade” precisò Atena, sollevando ironicamente un sopracciglio.

Sentendosi interpellata, Pallade lanciò un grido stridente prima di fissare male Hermes che, ridacchiando, sollevò immediatamente le mani per calmare l’uccello ed esclamare: “E dai, sorella! Non scherzare su queste cose! Non voglio restare bloccato sulla Terra per settimane, mentre le muse mi consegnano un nuovo paio di calzari!”

Scuotendo con noncuranza una mano, Atena celiò: “E pensi davvero che la mia Pallade si abbasserebbe a punzecchiarti i sandali?”

Guardando per un momento l’altezzoso rapace, Hermes borbottò: “E’ troppo vanitosa per farlo, mi sa.”

“E’ una signora, dopotutto” precisò Atena, prima di tornare seria e aggiungere: “Poseidone dovrà strisciare alla mia porta, prima che io decida di tornare sull’Olimpo per parlargli. Ciò detto, puoi raggiungere nuovamente le tue onde, darti alle scorribande nel cielo o a dove diavolo ti pare, fratello.”

“Sempre la solita scorbutica” brontolò Hermes, sollevandosi con un movimento aggraziato prima di piegarsi verso di lei e chiosare: “Portare il lutto in eterno pensi possa far riposare in pace l’anima di Miguel?”

Atena non disse nulla ma Hermes notò immediatamente la tensione riverberare nel corpo longilineo della cugina e, sorridendo compiaciuto, se ne andò senza più dire nulla, lasciando che al suo posto rimanesse il consueto profumo legato agli dèi.

Ambrosia.

Da quanto non ne avvertiva il sapore sublime sul palato? Davvero un sacco di tempo, ma per nulla al mondo si sarebbe abbassata a tornare sull’Olimpo solo per sentirne il divino aroma.

Quel profumo, però, riverberò tra le pareti di casa per molto tempo ancora dopo la dipartita di Hermes, e finì con l’angustiarla a tal punto che, dopo aver aperto le imposte per far circolare l’aria, uscì dalla villa per andarsene un po’ da quel posto.

Non sarebbe rimasta a casa un solo attimo di più, finché quel profumo dolciastro non fosse scomparso.

Imboccata la via con il suo pick-up rosso fuoco, oltrepassò il colle e scese a Monterey.

Non badò molto al traffico cittadino o al profumo salmastro dell’oceano che penetrava nell’abitacolo attraverso i finestrini aperti. Voleva solo rivedere un luogo a lei caro, anche se questo significava avvicinarsi tremendamente al mondo governato da suo zio.

Miguel però lo aveva amato, e tutto ciò che lui aveva amato aveva un posto speciale nel suo cuore.

Impiegò quasi un’ora per raggiungere il Monterey Bay Aquarium e, dopo aver parcheggiato l’auto quasi a un miglio di distanza dall’entrata, riuscì finalmente a prendere la via dell’ingresso.

Attorno a lei, famiglie in vacanza con i figli, scolaresche o semplici turisti, erano in coda più o meno diligentemente in attesa di poter prendere il biglietto per entrare.

Non potevano certo immaginare che al loro fianco, abbigliata con un semplice chemisier di seta azzurro cielo, vi fosse una potente dea greca, signora di Atene e maestra delle arti e della guerra.

Stanca ormai da secoli di vivere nel suo tempio, appollaiato sopra la chiassosa Atene e divisa dai mortali dalla sua magia immortale, si era allontanata da esso per scrutare con occhi nuovi il mondo moderno.

Lo scorrere del tempo osservato attraverso le alte colonne di marmo del tempio, l’aveva resa irrequieta, e questo l’aveva spinta a partire. Partecipare attivamente alla vita delle genti era stato il suo scopo, e così era discesa in mezzo agli uomini per tornare a vivere avventure in prima persona, e non più a esserne spettatrice.

Secoli e secoli erano passati da quando il suo popolo aveva officiato riti e preghiere in suo onore, offrendo libagioni e doni in oro nel suo tempio.

Non che pretendesse ancora la devozione cieca di un tempo, ma si era sentita sola in quell’enorme casa vuota, senza alcuno con cui condividere le ore del giorno e della notte.

Abbandonando così le sue terre e trasferendosi nel Nuovo Mondo, aveva dimenticato i suoi altisonanti titoli per diventare semplicemente Atty.

Aveva vagato da uno Stato all’altro per conoscere in prima persona i cambiamenti avvenuti nel mondo, e aveva gioito di molte invenzioni dell’uomo, come di altre aveva pianto sconsolata.

Si era lasciata strappare una lacrima dai primi film a colori visti al cinema, e aveva riso delle esilaranti commedie di Charlie Chaplin. Aveva provato il gusto delle bevande gassate come dei panini presi al fast-food ma, più di ogni altra cosa, aveva goduto nel vivere come una donna normale.

Non più venerata e idolatrata, Atena aveva scoperto cosa volesse dire essere una donna mortale nel mondo in subbuglio degli Anni 60. Aveva marciato al fianco dei pacifisti durante i cortei contro la Guerra nel Vietnam e aveva condiviso, con un certo divertimento, lo stile di vita degli hippies.

Durante quel periodo di svago, passato a conoscere se stessa e il mondo moderno, Atena non era più tornata al suo tempio in Grecia.

Inutilmente, suo padre aveva tentato di ricondurla in seno alla famiglia, trovando le sue scorribande terrene un pessimo esempio per tutti gli altri dèi dell’Olimpo.

Incurante dei suoi richiami, Atena aveva solo in seguito scoperto che, dopo la sua fuga volontaria dal mondo divino, altri dèi l’avevano seguita, a cominciare dal litigioso Ares.

Tra i suoi mille interessi, aveva posto la sua attenzione sul Progetto Manhattan, finendo poi con il forzare la mano al presidente degli Stati Uniti perché sganciasse le bombe su Hiroshima e Nagasaki.

Di quello non era stata per nulla contenta e, durante un aspro battibecco con suo fratello, Atena e Ares avevano finito con il far quasi esplodere una centrale nucleare a causa del potere che avevano sprigionato durante la loro baruffa.

Dopo quell’evento, di comune accordo e per evitare che Zeus intervenisse, richiamandoli tutti sull’Olimpo, gli dèi presenti sulla Terra avevano giurato di non interferire più in alcun modo con gli eventi umani.

Atena, però, aveva continuato per anni a credere che Ares, in fondo, non avesse smesso affatto di ficcanasare e mettere mano nelle decisioni degli uomini.

Non essendo comunque un problema suo, aveva accettato di buon grado il patto, non desiderando affatto interagire fino a quel punto con gli esseri umani, ma volendo solo godersi quella lunga vacanza lontano da casa.

Fu durante una visita all’acquario di Monterey che era avvenuto ciò che Atena non si era aspettata potesse succedere.

Miguel era lì, in compagnia di un paio di amici, mentre pazientemente attendeva di entrare. Scorgendolo in mezzo alla folla grazie alla sua altezza considerevole, Atena era rimasta colpita dal suo sguardo puro e dal suo viso scolpito.

Adone stesso non avrebbe potuto essere altrettanto bello e, pur non avendo desiderato avvicinare un uomo per averlo come amante – i tempi di Woodstock le erano bastati – Atena non era riuscita a togliergli gli occhi di dosso.

Per tutta la durata del giro all’acquario, si era sempre tenuta a debita distanza ma senza mai perderlo d’occhio quando, di punto in bianco, il giovane si era allontanato dal gruppetto per avvicinarsi a lei.

Pur sapendo di non doversi sentire in imbarazzo – diavolo, era una dea, dopotutto! – Atena aveva reclinato timida il viso mentre lui, con passo sicuro e sguardo affascinante, l’aveva raggiunta e aveva esordito dicendo: “Posso chiederti se ci siamo già visti da qualche parte? Mi sembra di conoscerti, sai? Forse abbiamo frequentato la stessa scuola?”

Un po’ sorpresa da quell’approccio così diretto, Atena aveva levato i suoi occhi adamantini su di lui che, accentuando il sorriso, aveva continuato asserendo: “Cavoli, sei davvero alta. E’ raro che una donna possa guardarmi negli occhi come fai tu.”

“Siamo tutti alti, in famiglia” aveva commentato Atena, prima di aggiungere: “Non ci siamo mai visti, credo, eppure i tuoi lineamenti mi ricordano qualcuno.”

“Vorrà dire che ci siamo conosciuti in un’altra vita” aveva riso lui, prima di allungare l’ampia mano abbronzata e dire: “Sono Miguel Rodriguez. E tu?”

“Atena Parthenos. Ma puoi chiamarmi Atty” aveva subito detto lei, stringendo quella calda e rassicurante mano con la propria.

“Hai lo stesso nome della dea greca? I tuoi genitori sono per caso degli storici?” le aveva chiesto, sinceramente stupito.

“Qualcosa del genere” aveva chiosato lei, sorridendo tra sé.

Da quel momento, lei e Miguel erano diventati inseparabili, le due metà di un intero, le due facce di una stessa medaglia e, cosa che per Atena era parsa impossibile fin dagli albori del tempo, dopo un breve fidanzamento, si erano sposati.

Divisi tra il lavoro di Miguel come istruttore di surf, che lo impegnava quasi tutti i giorni sulla spiaggia di Monterey, e la villa che Atena aveva preso per entrambi – dopo lunghissime trattative, alla fine Miguel aveva accettato di lasciar pagare tutto a lei – la loro vita era andata avanti così per una decina d’anni.

Un giorno di maggio, però, durante una giornata particolarmente ventosa, il telefono aveva squillato, innervosendola.

Samantha, una collega di Miguel, l’aveva chiamata per dirle di un incidente in mare. Senza badare a nulla se non a raggiungere quanto prima l’ospedale dove era stato ricoverato d’urgenza, si era lanciata in auto verso la città con il cuore pesante e l’animo affranto.

Quando era giunta a destinazione, Samantha l’aveva avvolta con un braccio alla vita, protettiva come una madre, e l’aveva condotta all’interno dell’ospedale. Camminando leste nei corridoi, le aveva spiegato come un’onda particolarmente violenta l’avesse sbalzato dal surf, facendolo finire sott’acqua.

Annuendo senza realmente ascoltarla, Atena si era poi rivolta al dottore di turno che, vedendola incinta e pallida come un cencio, l’aveva fatta accomodare prima di raccontarle l’atroce realtà dei fatti.

Nella caduta, Miguel aveva colpito il fondale, spezzandosi l’osso del collo. La corsa in ospedale era stata inutile.

Atena era crollata contro lo schienale della poltroncina su cui era accomodata e, dopo meno di mezz’ora, anche il suo bambino, il primo bambino che avesse mai deciso di avere, aveva seguito il padre nel regno dell’Oltretomba.

Samantha si era offerta di aiutarla a superare quel tragico momento, e così pure tutti gli amici e la famiglia di Miguel ma, sorda e cieca alle loro dimostrazioni di affetto, Atena si era chiusa nel suo personale dolore.

I giorni erano diventati settimane e le settimane mesi e, poco alla volta, lei era rimasta sola.

Unica sua compagna era rimasta Pallade, la fida civetta che, fin dal momento della sua partenza da Atene, non l’aveva mai abbandonata.

E’ da masochisti tornare qui, pensò tra sé Atena mentre prendeva un biglietto.

Non pensi mai di tornare a casa, figlia?”

La voce del padre le sfiorò la mente, a sorpresa, dopo più di un decennio di silenzio.

Senza farsi cogliere in fallo, o mostrare ad alcuno il suo stupore, Atena porse il proprio biglietto all’addetto perché lo controllasse dopodiché entrò nell’acquario dicendo mentalmente al padre: “Quale onore… il padre degli dèi si ricorda di avere una figlia in giro per il mondo?”

“Non usare questo tono con me, ragazza. Posso ancora rivoltarti sulle ginocchia e suonartele” la rimbrottò Zeus, prima di sospirare pesantemente. “Perché, con te, deve sempre finire a male parole?”

Perché non ho voglia di parlarti?” ipotizzò lei, fermandosi di fronte alla vasca enorme dei pesci tropicali.

Una murena boccheggiava minacciosa dalla sua tana di pietra, ricoperta da leggere concentrazioni di corallo rosato e di anemoni di mare dalle papille ondeggianti. Alcuni ippocampi, leggiadri come uccelli in volo, galleggiavano apparentemente senza peso dinanzi ai suoi occhi.

Un gruppetto di pesci pagliaccio, nel frattempo danzava allegramente poco più in là, attirando l’attenzione di alcuni bambini che, ridacchiando tra loro, ne imitavano le movenze per il divertimento dei genitori e delle persone presenti.

Anche lei sorrise deliziata immaginandosi, per un attimo, di veder compiere le stesse divertenti evoluzioni dal figlio che non aveva mai potuto prendere in braccio.

Quel ricordo le procurò una fitta al costato che la fece quasi barcollare e suo padre, intervenendo con minor acredine che in precedenza, mormorò: “E’ spiaciuto a tutti noi, lo sai. Ma non ci è stato possibile salvarlo dalle mani di Thanatos. Se avessimo saputo che eri incinta, avrei tenuto sotto controllo la situazione e sarei intervenuto io stesso, ma…”

“Conosco le leggi dell’Oltretomba, padre. Non c’è bisogno che tu mi ricordi queste cose” sbottò Atena, allontanandosi dal gruppo dei bambini per avviarsi verso la sala dei pinguini.

“Avrei gradito sapere che stavo per diventare nonno!” ringhiò Zeus nella sua testa, portandola ad aggrottare la fronte per il fastidio.

Posando una mano sulla tempia destra come per chetare un principio di mal di testa, Atena replicò seccata: “Non mi era parso di aver capito che Miguel ti piacesse. Se non ricordo male, quando ti ho invitato al matrimonio, hai risposto sdegnato che non ti interessava mescolarti agli umani. Ti piace solo gozzovigliare con le donne mortali giusto per far incavolare a morte Era!”

“Tu, piccola… non ti permetto di trattarmi a questo modo!” brontolò Zeus con voce resa insicura dalla realtà dei fatti esposta da Atena.

Sapeva di aver rifiutato sdegnosamente l’invito, sapeva di non aver mai voluto conoscere il marito della figlia, sapeva di non averla mai chiamata dopo la morte del giovane umano.

Niente di ciò che aveva detto la figlia era sbagliato, però…

“Senti, padre, non ho intenzione di rivangare il passato con te. Sono qui per passare un giorno in santa pace. Vuoi concedermelo?”

“E vai proprio in un luogo che ti ricorda lui?”

“Si dà il caso che i ricordi di Miguel siano piacevoli” precisò Atena prima di chiudere la mente alle sue parole e ai suoi richiami. Si era già stancata di lui.

Non voleva perdere tempo con le recriminazioni di suo padre, vista soprattutto la ritrosia che lui aveva sempre dimostrato nei confronti di Miguel.

Inoltre, lei non aveva mai odiato il mare.

La sua città sorgeva su uno dei mari più belli del pianeta, e la visuale dello splendore del Mediterraneo visto dal Partenone non era eguagliata da nulla al mondo.

Era con lo zio che ce l’aveva, non con il regno che lui governava.

“Sono buffi, vero?” esordì una voce al suo fianco, sorprendendola.

Era raro, per non dire impossibile, che lei venisse colta di sorpresa, eppure avvenne.

Volgendosi a mezzo, Atty scrutò l’uomo al suo fianco che, a mani intrecciate dietro la schiena, osservava con un sorrisino divertito le evoluzioni rocambolesche di alcuni pinguini di Adelia all’interno dell’enorme vasca di vetro temperato.

Annuendo lievemente, Atena commentò piatta: “Affascinanti.”

“Mi perdoni. Forse l’ho disturbata, con il mio intervento inopportuno” sorrise bonario l’uomo, mettendo in mostra due fossette sulle gote rasate di fresco.

Accentuando il proprio sorriso, ora carico di contrizione, Atena scosse il capo e replicò: “No, mi scusi lei. Mi sono comportata da vera maleducata.”

“Sembrava persa in pensieri molto tristi” commentò educatamente l’uomo, abbigliato con camicia bianca a righe azzurre e semplici pantaloni scuri dalla piega perfetta. Ai piedi, portava dei mocassini di pelle chiara, e sembrava appena essere rientrato da un giro in barca.

Profumava di salsedine e di mare aperto.

“Abbastanza” ammise Atena, tornando a guardare i pinguini, impegnati a sorvolare uno spuntone di roccia il più velocemente possibile.

“Io vengo qui tutte le volte che voglio ricordare mia moglie. E lei?” chiosò con casualità l’uomo, lanciandole un breve sguardo prima di ammirare le evoluzioni degli strani uccelli acquatici.

Un po’ sorpresa, Atena lanciò uno sguardo alla mano sinistra dell’uomo che, in effetti, recava una fede dall’aria antica mentre al mignolo, una più piccola, accompagnava la gemella.

Quel particolare non le parve strano, come se lo avesse già visto da qualche altra parte, anche se non rammentò dove.

Proseguendo, l’uomo mormorò perso nei ricordi: “Morì in barca, circa dieci anni fa. Era così brava nel portare il suo due alberi, ma si avvicinò troppo a una secca e colpì un masso con lo scafo, ribaltandosi. Nella caduta, rimase impigliata nel sartiame e morì affogata. I soccorsi non fecero in tempo a salvarla.”

Atena sospirò spiacente e disse: “Mi dispiace tantissimo. Anche io ho perso mio marito. Morì in un incidente con il surf.”

“Per questo viene qui?” chiese allora lui.

“Sì. Questo posto gli era molto caro, così vengo qui quando mi sento sola. E’ così anche per lei?” gli spiegò Atena, prima di sorridere comprensiva.

Annuendo, l’uomo disse: “Lei amava il mare più di se stessa. Ma mi prendo la colpa di averle insegnato a navigare. Non fosse stato per me, forse ora sarebbe ancora viva.”

“Gli uomini chiedono e gli dèi dispongono” motteggiò amaramente Atena. “Lei desiderava che sua moglie imparasse, ma gli dèi hanno deciso di farle ricadere sulle spalle questo desiderio esaudito. Non dipende quindi da una sua decisione, ma dal modo in cui le Moire vedono il mondo. E cioè in maniera piuttosto ironica e, spesso e volentieri, cinica.”

“Crede nelle Tessitrici dei Destini?”

“A volte” ridacchiò Atena prima di allungare una mano verso l’uomo e dire: “Mi chiamo Atena Parthenos. Molto piacere.”

Sollevando un sopracciglio bruno con evidente sorpresa, l’uomo strinse la sua mano replicando: “Ah, un nome divino, …letteralmente. Io sono Morgan Dark. Piacere mio.”

A quel nome, Atena sorrise bonaria e ribatté: “Anche il suo ha un che di mistico. ‘Uomo venuto dalle oscurità del mare’. E’ poetico.”

“Lo pensava anche mia madre” annuì divertito Morgan, allontanandosi un poco dalla piscina dei pinguini per proseguire il giro.

Al cenno dell’uomo di proseguire, Atena annuì con un sorriso e si mise al suo fianco, cominciando a chiacchierare del più e del meno.

Tra un discorso e l’altro, ammirando di volta in volta scenari sempre nuovi e rammentando episodi ogni qualvolta diversi, Atena parlò a Morgan di Miguel e lui, a sua volta, le raccontò di sua moglie Sophie.

Fu solo verso sera che la coppia uscì dall’acquario e, trovandosi a osservare i colori caldi e infuocati del cielo al tramonto, sorrisero divertiti, dicendo quasi all’unisono: “Tardino, direi…”

Ridendo suo malgrado – era da tempo che non le succedeva –, Atena fissò un istante Morgan e il riflesso dei colori del crepuscolo sui suoi capelli scuri, striati di fili argentati e, colta da un impulso improvviso, gli domandò: “Posso invitarti a cena?”

Sorridendo, Morgan annuì dopo un istante e disse: “Mi hai battuto sul tempo. Se ti va, conosco un localino qui vicino dove servono dell’ottimo pesce appena pescato.”

“Perfetto. Adoro il pesce” annuì Atena.

“Possiamo andare anche a piedi. E’ vicino” le propose lui, offrendole galante il braccio.

Accettandolo di buon grado, Atena si incamminò con lui lungo il marciapiede, avviandosi verso l’interno di Monterey, lasciando che il rumore delle auto lungo la via non la disturbasse come avveniva di solito.

Tutta la sua attenzione era rivolta a Morgan che, con la sua voce suadente da tenore, le raccontò di come avesse scoperto quel piccolo ristorantino assieme alla moglie, una sera in cui pioveva a dirotto.

Impiegarono circa dieci minuti per raggiungere il Bistrot Moulin.

Ristorante francese rinomato nella zona, era caratterizzato da piccoli tavolini con tovaglie allegramente colorate, bandierine francesi appese al soffitto e svariate stampe raffiguranti Parigi, oltre a locandine degli spettacoli del Moulin Rouge.

“Quando entrammo qui, quella volta, gocciolavamo come rubinetti rotti” ridacchiò Morgan nel terminare il suo racconto.

“Immagino” sorrise Atena, subito investita dal profumo di pesce cotto alla griglia e di squisite salsine dagli aromi invitanti.

Guardandosi intorno, ammirò affascinata la sfilata di bottiglie di vino francese scrupolosamente sistemata su alcuni pensili di legno bianco e, scrutando alcuni nomi particolarmente noti, commentò: “Si trattano bene.”

“Amo questo posto anche per i vini” annuì Morgan prima di salutare il gestore del locale e dire: “Bonsoir, Philippe. Hai un tavolo libero per me e la signora?”

“Oh, ma certo, ma certo, signor Dark. Prego, venite” annuì il piccolo proprietario del locale, illuminandosi in viso nel vedere Morgan.

Accompagnata la coppia a un tavolo d’angolo, vicino a una stampa raffigurante Montmartre, monsieur Philippe elencò loro tutta la varietà di piatti sul menù e pubblicizzò in particolare i tagliolini all’astice, di cui il loro cuoco era specialista.

Sorridendo a più riprese di fronte all’espansività del proprietario del locale, Atena annuì ordinando proprio quel piatto assieme a Morgan, che si occupò anche di ordinare del vino adatto all’occasione.

Dopo aver servito loro del fresco Chardonnay e aver portato loro un cestino di pane, il cameriere chiese a Morgan se desiderassero anche degli stuzzichini in attesa del primo piatto. Al suo cenno di assenso, giunsero quindi dei deliziosi amuse bouche di pesce, sistemati in piccole ciotole di ceramica smaltata di azzurro.

Nell’assaggiare il primo boccone, Atena sorrise tra sé, pensando a quanto fosse stata bizzarra quella giornata, e come lo fosse altrettanto quella stramba serata.

 
***
 
Ferma di fronte alla sua auto, gli occhi stanchi e appesantiti dal buon vino, Atena sorrise a Morgan e mormorò: “Grazie per la bella serata, Morgan. Era da tempo che non uscivo con qualcuno.”

“Anch’io. E sono lieto che la serata ti sia piaciuta, Atena” le disse lui, sorridendole benevolmente.

“Spero non ti dispiacerà se però torno a casa da sola” ridacchiò lei, aprendo la portiera dell’auto.

Morgan sollevò un sopracciglio con ironia e celiò: “Oh, beh, mi lusinghi a pensare una cosa simile, ma ho il doppio dei tuoi anni, e non me la sentirei proprio di provarci con te. Anche se, ad aver avuto vent’anni di meno…”

Scoppiando a ridere, Atena sfiorò un braccio di Morgan con la mano e disse per contro: “Devo essere davvero ubriaca per lasciarmi scappare certe frasi.”

“Mi fai temere per te, dicendomi questo” replicò Morgan, tornando serio.

Imitandolo, Atena sorride docile e disse per contro: “Non preoccuparti, non mi succederà nulla. Se preferisci, comunque, posso chiamarti quando arrivo a casa per rassicurarti sulle mie condizioni di salute.”

“Mi piacerebbe” annuì Morgan.

Salita che fu in auto, Atena accese il motore e disse: “Ci vediamo domani, allora.”

“A domani” annuì ancora Morgan, prima di vederla avviarsi verso l’uscita del parcheggio.

Rimasto solo, scrutò i fari sempre più lontani del pick-up di Atena e sussurrò tra sé: “Spero solo che tu capisca.”







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Cos'avrà voluto dire, Morgan, con quelle parole???
  
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