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Autore: Colonnello    30/10/2011    1 recensioni
Diecimila anni dalla Fondazione di Roma (circa 3000 d.C.). L'Impero Romano domina su più della metà dell'Europa e dell'Asia e su tutto il Nuovo Continente... ma la sua egemonia sta per essere messa in discussione...
Genere: Avventura, Azione, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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2 Piccola premessa. Non sono molto soddisfatta di questo capitolo, in particolare del modo in cui viene spiegata la situazione politica e sociale nella provincia romana. Ho la sensazione che qualcosa non fili liscio nella narrazione... ma avevo la stessa sensazione anche per il prologo (era pronto da quasi due anni ormai!). Siccome, però, non posso concentrarmi solo su un capitolo e scriverlo e riscriverlo all'infinito, con il rischio di rovinarlo definitivamente, l'ho pubblicato e buonanotte! Buonanotte sul serio perchè l'orologio segna le due del mattino!

***********

A svegliarlo fu l’aroma del kave caldo che stava riempiendo lentamente il piccolo dormitorio riservato ai tribuni. Avvolto dalla testa ai piedi nelle pesanti coperte riscaldate elettricamente, ci mise un po’ a ricordare dov’era e cosa ci faceva lì. Era facile dimenticarlo dentro quel bozzolo di calore. A svegliarlo definitivamente e bruscamente fu la voce di uno dei commilitoni.
-Forza, Scipione, sveglia!- al richiamo seguì un calcio da sotto la branda- Il nostro turno inizia fra meno di un’ora!
Scostò le coperte quanto bastava a tirare fuori la testa e si guardò intorno. Gli altri erano già svegli e nella stanzetta poco illuminata fervevano i preparativi per un’altra faticosa giornata. Giunio Attico e Furio Olennio si stavano vestendo dopo una veloce e approssimativa sciacquata di acqua fredda sul viso, mentre Sesto Licinio Balbo teneva d’occhio il bollitore dove lentamente filtrava il kave, nero e forte, carburante ideale per una giornata che per loro iniziava in piena notte. Non che lì fosse possibile distinguere fra giorno e notte; come in tutti i locali scavati nel cemento, il dormitorio non aveva finestre e l’aria passava solo attraverso il bocchettone posto sul tetto; le uniche aperture verso l’esterno, e per di più rivolte verso il territorio nemico, erano le feritoie delle casematte, degli osservatori e delle torrette dell’artiglieria poste in cima al vallo; per il resto, era come vivere in una tomba e i veterani, a causa della prolungata assenza di esposizione al sole, avevano tutti assunto un colorito cadaverico che bastava da solo a rendere l’idea di quanto quel servizio fosse faticoso e opprimente.
Dopo aver lottato contro gli ultimi residui di sonno, Publio Giulio Scipione gettò indietro le coperte e saltò giù dalla branda. Nella latrina adiacente alla camerata, si sciacquò anche lui il viso con l’acqua fredda e lanciò una fugace occhiata al suo riflesso nello specchietto appeso alla parete con un chiodo. Lui non aveva ancora assunto il colorito pallido dei veterani, ma la barba trasandata e gli occhi leggermente infossati per le lunghe ore di veglia nell’osservatorio denunciavano la sua stanchezza. Si trovava lì da meno di un mese e doveva ancora abituarsi alla vita di guarnigione di confine. Se non altro, però, l’aspetto trasandato gli conferiva un aspetto maturo e mascherava i suoi diciannove anni da poco compiuti. A parte Giunio Attico, che aveva già ventiquattro anni, gli altri tribuni del dormitorio avevano tutti più o meno la stessa età; li mandavano lì dopo un paio d’anni di addestramento, per fare esperienza al comando del legato di una legione o di un presidio di confine; il servizio di sorveglianza dei confini dell’Impero di Roma era considerato tranquillo e allo stesso tempo sufficientemente impegnativo da far apprendere ai giovani rampolli di nobile o ricca famiglia romana i rudimenti dell’arte militare; pochi erano i giovani che proseguivano la carriera militare per più di cinque anni; la maggior parte vedevano il servizio nelle legioni come una pratica fastidiosa, ma sfortunatamente necessaria per lanciare la loro carriera politica. Era così per Sesto, figlio di un famoso retore e avvocato romano, del quale attendeva di seguire le orme; e anche per Giunio Attico, erede di uno dei più grossi cantieri aerionavali dell’Impero. Lui, Publio, invece, trovava assai soddisfacente la vita militare e non aveva fatto fatica ad abituarsi ai rigori e alle fatiche che questa comportava. Non avrebbe potuto essere altrimenti; lui, come suo padre, le legioni le aveva nel sangue.
Tornò nel dormitorio. Attico e Furio erano già usciti per prendere servizio, e Sesto gli porse una tazza di kave che lui sorseggiò mentre si affrettava a vestirsi. La tunica bianca da tribuno stonava un po’ sulle brache e il corsetto di cuoio rosso sangue, ma non importava, perché sopra l’uniforme era obbligatorio indossare l’armatura integrale, rossa pure lei, anche se si era di servizio all’interno delle fortificazioni.
-Dove sei di servizio oggi?- chiese Sesto quando uscirono anche loro dal dormitorio.
-Alla pesante- rispose Publio sbuffando- Proprio sotto i piedi di Rufo… speriamo bene!
Sesto era invece di servizio per tutto il giorno al deposito munizioni e non ne era affatto entusiasta. Laggiù, sotto le fondamenta del vallo fortificato, avrebbe trascorso un’ora dopo l’altra senz’altro stimolo che quello di contare e ricontare i contenitori delle munizioni e osservare gli ausiliari metterli in ordine secondo il capriccio del centurione. In realtà, però, qualunque servizio lì al confine era noioso.
Sesto s’infilò nel primo elevatore libero per scendere di sotto, mentre Publio proseguì lungo i camminamenti scavati nel cemento, verso il caposaldo dov’era stato assegnato per quel giorno. “La pensante”, come la chiamavano i legionari, era un caposaldo la cui postazione principale era costituita da una grossa mitragliatrice che sporgeva dalla feritoia e puntava verso la terra di nessuno, oltre il confine; l’osservatorio si trovava nello stesso locale dei serventi il pezzo, ma gestiva anche le operazioni delle postazioni minori poste ai lati della pesante. Sopra, sotto e ai lati, gli altri presidi della XXVIII Legione “Puviana”.
La legione era stata assegnata già quattro anni prima nella provincia di Alasia, nell’estremo settentrionale della Nova Terra. Da sei mesi era in servizio presso il confine alasiano, in particolare nella piana di Nuvuco, a sua volta la regione più settentrionale della provincia. I legionari della XXVIII Legione si sarebbero ben volentieri vantati di trovarsi in cima al mondo, se non fosse stato che la piana di Nuvuco non era che una distesa desolata e inospitale di neve e gelo e che più della metà della legione era letteralmente seppellita viva all’interno della maestosa opera di fortificazione nota come Vallo di Alasia. Il Vallo era stato costruito circa sedici anni prima, poco dopo che i romani erano riusciti a respingere l’ultima orda di mercenari e banditi nionici provenienti dall’Asia e intenzionati a sconfinare e saccheggiare la provincia romana. Nonostante l’esistenza di un trattato di non belligeranza fra Roma e Impero di Nion, il Tenno e i suoi samurai non erano troppo interessati a mantenere un forte controllo sui loro possedimenti nell’Asia settentrionale; privi di un vero e proprio governo, i ronin erano liberi di spadroneggiare come volevano e, quando l’inverno gelava lo stretto che separava l’Asia dalla Nova Terra, ne approfittavano per attraversarlo e assalire gli insediamenti indigeni e romani in Alasia. Per questo motivo, oltre alla costruzione del Vallo, i romani avevano lasciato libere poche miglia di territorio fra lo stretto e il Vallo e che da allora costituivano terra di nessuno, pressoché disabitata con l’eccezione di pochi indigeni ostinati a non voler abbandonare i loro vecchi insediamenti.
Nonostante i turni di guardia lunghi e spossanti, Publio si era impegnato fin dal suo arrivo per svolgere al meglio i compiti che gli erano stati assegnati. Aveva accolto con insolito entusiasmo il trasferimento dalla Mauretania, dove aveva fatto l’addestramento, all’Alasia. La remota provincia romana, in effetti, aveva un significato importante per lui e per la sua famiglia. Lì oltre il Vallo, nell’attuale terra di nessuno, diciannove anni prima suo padre aveva combattuto contro i ronin ed era rimasto ferito, e il fratello di sua madre, del quale aveva avuto il praenomen, vi aveva trovato la morte. Da giovane romano di nobile e antica famiglia, Publio considerava quindi un dovere portare avanti l’onorevole tradizione che legava la sua famiglia a quella terra lontana e dai più considerata ostile e inospitale. E, come sempre, anche quel giorno si sforzò di reprimere la stanchezza e la noia incombenti, ripromettendosi di svolgere il proprio dovere con diligenza e disciplina.

Il centurione Nasica tirò un silenzioso sospiro di sollievo quando il tribuno del turno di notte ricevette finalmente il cambio. Il tribuno Tiburtino aveva appena vent’anni, ma si atteggiava ad uomo adulto e, cosa ben peggiore, a soldato esperto e maturo. Come la maggior parte dei nobili era pieno di boria e di superbia, trattava i legionari con disprezzo, alla stregua dei suoi schiavi, e non mostrava alcun rispetto per l’anzianità e l’esperienza del centurione, che pure passava giorno e notte al caposaldo, mangiando e dormendo, quando poteva ovviamente, davanti alla feritoia che dava al di là dei confini di Roma.
Il tribuno del turno di giorno, invece, era tutta un’altra cosa, anche se aveva anche lui diciotto anni e non aveva alcuna esperienza di combattimento; non si dava arie e trattava con rispetto sia lui che i legionari, mostrando di tenere in considerazione l’esperienza dei veterani. Inoltre, era sveglio e intelligente, svolgeva i propri doveri diligentemente, senza risparmiarsi. Una volta acquisita maggiore esperienza, sarebbe potuto diventare un buon comandante… e se la situazione in Alasia avesse continuato come negli ultimi mesi, Nasica temeva che tutti i giovani della legione sarebbero presto diventati dei veterani.
Sbuffò mentre distoglieva lo sguardo dalla feritoia per salutare il tribuno che entrava. Che servizio inutile!, pensò. Intere legioni stanziate lungo un confine morto come questo e sottoposte a turni di sorveglianza massacranti, quando alle nostre spalle rischiamo la guerra civile!
-Ave, tribuno Scipione!- salutò, battendosi il pugno destro sul petto.
Publio lo raggiunse con un sorriso e gli batté una mano sulla spalla.
-Nasica…- lo salutò a sua volta, prima di dare un’occhiata fuori- Passata una notte tranquilla?
-Come sempre, tribuno.
Publio si limitò ad annuire, anche se sapeva che quel borioso pallone gonfiato di Tiburtino l’aveva probabilmente tenuto in piedi tutta la notte e aveva seguitato ad accusare lui e i legionari di turno di non essere abbastanza solerti e disciplinati nel loro lavoro. Ed era anche sicuro che mentre quei poveracci si spaccavano la schiena, chi alla manutenzione della mitragliatrice, chi alle feritoie, chi ai computatori di sorveglianza, lui aveva dormito della grossa dopo essersi impossessato della cuccetta riservata al centurione in un angolo della stanza.
-Va pure, Nasica- disse al centurione- Fatti una dormita.
Il centurione annuì, non osando comunque mostrare troppo apertamente la sua gratitudine. Salutò militarmente, poi raggiunse la branda e tirò la tenda, scomparendo dietro di essa.
Rimasto solo al comando dell’avamposto, Publio cominciò innanzitutto con il controllo delle varie postazioni che componevano l’osservatorio; le tre feritoie da osservazione, quella centrale adibita al controllo di tiro della mitragliatrice, erano tutte occupate dalle sentinelle; osservavano il paesaggio piatto e monotono con allacciati sugli occhi i binoculi elettronici, capaci di estendere il loro campo visivo fino a venti miglia dalla loro posizione. Ma la sorveglianza riguardava anche e soprattutto le immediate vicinanze del Vallo, e visto che dalle feritoie non ci si poteva sporgere per guardare ai piedi della muraglia corazzata, tutti gli osservatori erano muniti di computatori collegati ad una fitta rete di videocamere poste alla base delle fortificazioni; qualora le sentinelle addette avessero individuato qualcosa, avrebbero dato l’allarme e una centuria sarebbe stata fatta uscire nei pressi del settore minacciato; oppure, all’occorrenza, avrebbero fatto saltare le pirobule terrestri accuratamente nascoste sotto il terreno lungo tutto il confine. Le ultime due postazioni dell’osservatorio erano quella del legionario addetto alle trasmissioni e quella del comandante dell’osservatorio e di tutte le postazioni da questo dipendente; di giorno, salvo nuovi ordini da parte del praefectus castrensis, il comandante era lui, Publio.
Dopo essersi assicurato che tutto fosse in ordine, andò a sedersi al centro della stanza, da dove poteva comodamente controllare tutto. Come prima cosa controllò i rapporti arrivati durante la notte sul computatore. Man mano che leggeva aggrottava la fronte. Lungo il confine, tutto taceva, ma la situazione interna in Alasia stava cominciando a farsi sempre più preoccupante. Era già da qualche mese, da prima che Publio arrivasse lì dall’Africa, che si sentiva parlare di un certo malcontento in Alasia. I coloni chiedevano la cittadinanza romana persa dai loro antenati o da loro stessi al momento dell’emigrazione nella provincia relativamente nuova, o almeno il riconoscimento di alcuni dei diritti di cui godevano i cittadini romani e persino i funzionari governativi residenti in Alasia. Publio non sapeva bene cosa pensare di quella situazione. Era sì sostenitore del conferimento della cittadinanza romana agli abitanti delle città coloniali nelle province d’oltreoceano, dopotutto li si poteva considerare cittadini romani di fatto, ma i crescenti disordini e le accese manifestazioni di dissenso contro il Senato romano e il governatore della provincia non poteva in alcun modo giustificarli. Da cittadino romano qual’era, non poteva in coscienza mettere in discussione la legittimità del potere di Roma, né poteva schierarsi dalla parte di chi lo faceva. Esser cittadino romano, d’altro canto, era cosa seria e non si poteva pretendere la cittadinanza senza dare nulla in cambio a Roma, alla Repubblica. Lui stesso, pur avendo diritto alla cittadinanza per nascita, stava servendo la Patria nelle legioni e in cuor suo sentiva che solo quando avrebbe avuto sufficienti anni di servizio alle spalle si sarebbe sentito degno di definirsi cittadino romano.
-Tribuno! Vieni a guardare, presto!
Le sue riflessioni erano state interrotte dalla voce di uno dei legionari, seduto di fronte ad un computatore di sorveglianza. Publio lo raggiunse alla postazione e sul monitor dell’apparecchio vide un frammento di immagine fissa della base del Vallo, proprio sotto di loro; l’immagine mostrava una serie di buche scavate nella neve e nel terreno sottostante, proprio nei punti dove avrebbero dovuto esservi le mine. Publio sentì un tuffo al cuore, mentre le implicazioni di quella scoperta si facevano largo nella sua mente; qualcuno aveva rimosso le mine per aprire un varco! Un tentativo di violazione dei confini!
Allo sgomento, però, subentrò immediatamente una fredda lucidità.
-Chiama immediatamente il legato!- ordinò all’addetto alle trasmissioni.
Il legionario obbedì e poco dopo il legato della XXVIII Legione raggiungeva l’osservatorio. Tiberio Plauto Corinno era un uomo imponente, famoso per i modi spicci e rudi e per una certa aggressività nel carattere. Gestiva il comando di quel presidio con estrema fermezza e severità; nessuna mancanza veniva tollerata. Neanche lui, bisognava dirlo, si risparmiava, tanto che un paio d’anni prima, durante un attacco dei ronin, c’era chi giurava di averlo visto insieme agli ausiliari a caricare munizioni sui montacarichi per mandarle ai vari avamposti mentre questi sparavano all’impazzata. Doveva continuamente dare prova di essere un valido ufficiale e di non godere di favori da nessuno. Corinno aveva infatti sposato, qualche anno prima, Lavinia, la figlia più grande dell’attuale governatore dell’Alasia. Da allora erano cominciate a circolare voci circa il fatto che questo matrimonio gli avesse consentito di ottenere un comando stanziale e di tutto riposo, quale molti credevano fosse quello di comandante di presidio presso il Vallo di Alasia. In realtà, Corinno aveva gli occhi perennemente cerchiati a causa della prolungata mancanza di sonno e l’aspetto sempre trasandato. Anche quel giorno, non fece eccezione, presentandosi all’osservatorio dov’era stato chiamato d’urgenza con la barba di almeno tre giorni, i capelli arruffati e l’uniforme in disordine, con alcuni pezzi dell’armatura che pendevano. Quando Publio gli mostrò l’immagine che il legionario aveva fissato sul computatore, il suo aspetto e il suo umore si fecero visibilmente più cupi.
-Questa è proprio una brutta faccenda, Scipione!- mormorò- Quei mercenari stanno di nuovo tentando di sfondare il confine!
-Forse è solo un atto di sabotaggio isolato, legato- azzardò Publio- Devono aver rimosso le mine durante la notte, ma adesso non c’è nessuno nelle vicinanze.
-Probabilmente perché per il momento si limitano a saggiare il terreno- intervenne il centurione Nasica, che Publio aveva buttato giù dal letto non appena resosi conto dell’accaduto- Chissà, magari dopo aver tolto le mine, hanno effettuato dei rilevamenti lungo la barriera per tentare di aprire un varco.
-Sarebbe possibile?- chiese Publio dubbioso.
-È altamente improbabile, ma dai ronin puoi aspettarti di tutto- rispose Corinno- Sapevi che lo scorso anno hanno tentato la scalata al Vallo?
Sorrise dell’espressione esterrefatta del giovane tribuno, quindi raggiunse di corsa il telefono posto in un angolo e compose il codex del praetorium. Mentre attendeva risposta, si rivolse all’addetto alle trasmissioni.
-Trasmetti un messaggio alla coorte zappatori- ordinò- Che mi raggiungano qui sotto con mine e cercamine.
Il legionario annuì e si mise subito al lavoro. Corinno, invece, parlò con un tribuno anziano in servizio al praetorium, gli spiegò dettagliatamente la situazione e gli ordinò di trasmettere immediatamente la notizia di quanto accaduto ad Aleupoli, città formalmente riconosciuta come capitale della provincia e sede del governatorato. Riagganciò quindi il ricevitore e abbandonò l’osservatorio per andare incontro agli zappatori.
Riassunto nuovamente il comando, Publio ordinò ai legionari di riprendere il loro compito. Dopo quanto era successo, non era proprio il caso di abbassare la guardia; inoltre toccava a loro fornire copertura agli zappatori quando questi si fossero messi al lavoro là fuori.
Mentre girava fra le postazioni, Publio ripensò alla reazione del legato quando gli aveva riferito e mostrato la scomparsa delle mine; era sbiancato di colpo, neanche si fosse ritrovato di fronte a Cerbero alle porte del Tartaro. Gli sembrava strano che un soldato esperto come Corinno avesse una simile reazione di fronte ad un accadimento ormai consolidato; i ronin tentavano di varcare il confine praticamente ogni anno, e ogni anno, da quando c’era il Vallo, tornavano indietro come cani bastonati. Corinno aveva invece reagito come se il pericolo fosse reale, come se davvero ci fosse la possibilità di un’invasione. E aveva addirittura ordinato di allertare il governatore!
-Il legato avrebbe bisogno di riposare di più- commentò, non sapendo cos’altro pensare.
Nasica, che in quel momento stava appoggiato al muro vicino una delle feritoie, si voltò e scosse la testa. Il ragazzo era promettente, ma aveva ancora molto da imparare e c’erano molte cose che non sapeva del posto in cui era andato a capitare.
-Non è per la stanchezza che ha reagito in quel modo, tribuno- rispose- Quest’anno l’Alasia sta affrontando più di un problema oltre quello dei ronin.
-Per via della situazione interna?- chiese Publio- Sì, suppongo che se scoppiassero dei tumulti, il governatore sarebbe costretto a spostare parte delle legioni che sono qui nell’interno- concesse- Ma non credo sarebbe difficile per poche legioni mantenere un’adeguata sorveglianza del confine.
-È proprio qui il problema- Valerio Massimo, il comandante militare della provincia, è convinto che i più facinorosi fra gli esponenti del malcontento locale stiano formando una specie di alleanza con i ronin, per aiutarli a passare il confine.
Publio rimase a guardarlo stupito per un momento, mentre il centurione riempiva con calma la propria pipa e l’accendeva, tornando poi a guardare dalla feritoia, mentre piccole volute di fumo uscivano dalla stessa.
-Ma… che vantaggio ne potrebbe trarre la popolazione locale da un’invasione da parte di mercenari nionici?- chiese Publio finalmente.
-Nessuno, a parte quello di gettare l’Alasia nella totale anarchia- rispose Nasica- Ma quando si è disperati, ci si aggrappa a qualsiasi speranza. E i nostri coloni, qui, sono più disperati di quanto tu possa credere, giovane tribuno.
-Com’è possibile, centurione?- fece Publio ridendo- L’Alasia non è che un grosso giacimento di petrolio! Come può la gente che vive qui essere disperata con quanta ricchezza.
Il centurione fece una smorfia, ma non rispose. Non sapeva se gli conveniva rispondere, né cosa rispondere. Una volta aveva cercato di esporre ad un tribuno i disagi cui erano sottoposti i legionari di stanza al confine, e in cambio aveva ricevuto da questi parole sprezzanti e derisorie, oltre che l’accusa di non essere altro che un lavativo. Scipione, però, non sembrava quel genere di ufficiale, così, di fronte ad una richiesta di spiegazioni da parte del tribuno, decise di abbozzare una risposta quanto più possibile pacata.
-Tutti gli impianti di estrazione del petrolio appartengono a facoltosi cavalieri romani che non risiedono qui. Il petrolio viene imbarcato quasi tutto sull’Oceano e portato via. La popolazione locale vede ben poco della ricchezza che produce con tanto lavoro.
Publio non rispose. Anzi, si sentì avvampare di vergogna per la propria presunzione. Dell’Alasia, lui non aveva visto che il confine e da che era lì non aveva avuto la possibilità di entrare in contatto con le popolazioni locali. Il centurione Nasica era lì da quasi vent’anni, stava per ricevere il congedo, e non avrebbe avuto alcun motivo per raccontargli menzogne. Se gli abitanti dell’Alasia venivano derubati del prodotto del loro lavoro e delle loro fatiche, nessuna meraviglia che protestassero a gran voce e c’era piuttosto da stupirsi che si fossero limitati alle parole, almeno fino a quel momento. Ecco perché chiedono la cittadinanza, realizzò improvvisamente. Cercavano di ottenere uno status equiparabile a quello dei loro sfruttatori, per far sì che la loro parola e le loro proteste avessero un peso in Senato, dove di fatto il loro rappresentante non era che un soprammobile.
Improvvisamente, provò anche lui la sensazione di trovarsi di fronte alla porte del Tartaro.    

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Uff! Finalmente ho finito!

Beh... non credevo che avrei dovuto farlo così presto, ma ecco i dovuti ringraziamenti!
Innanzitutto a Edge of Darkness, alias Eleonora, la quale mi ha dato un po' di consigli (sempre graditissimi) e il cui parere è assai significativo, visto che lei scrive da più tempo di me. E inoltre è stata la mia prima lettrice, quindi... a Cesare quel ch'è di Cesare, giusto che siamo in argomento...
Un sentito grazie anche ad Alice, con la quale ho avuto un'interessante conversazione in merito all'argomento non certo semplice della mia storia, che mi ha fatto posare gli occhi su alcune potenziali lacune di natura storico-sociale che cercherò di evitare, o almeno di colmare man mano che scrivo.
Insomma, due belle critiche prudentemente positive!
E poi un sentito grazie a mio fratello Alessandro, la mia collega di università Maria e chiunque abbia letto l'inizio della mia storia e magari pensa di continuare afarlo.
Grazie!
  
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