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Autore: esmeralda92    05/11/2011    2 recensioni
La fanciulla si sentì afferrare improvvisamente al gomito. Era un braccio scarno, che usciva da un pertugio praticato nel muro, e che la teneva come una mano di ferro.
"Tieni forte!" disse il prete."E' la zingara che è scappata. Vado a cercare le guardie. La vedrai impiccare."
A quelle sanguinanti parole rispose dall'interno del muro una risata gutturale: "Ah! ah! ah!"
La zingara vide il prete allontanarsi di corsa in direzione del ponte di Notre Dame. Da quella stessa parte si udì lo scalpitìo della cavalleria.- passo tratto dal romanzo di Victor Hugo]
Cosa accadrebbe invece se a un tratto l'arcidiacono cambiasse direzione e tornasse indietro per salvare Esmeralda? Accetterebbe il suo aiuto? lo perdonerebbe mai per ciò che ha fatto al "suo amato Febo"? E se si incontrassero dopo anni dai fatti descritti nel libro? Riuscirà l'Amore a vincere l'orgoglio?
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Claude Frollo, La Esmeralda
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il sole era sorto da appena tre ore, la città era nel pieno della propria attività quando gli occhi caldi e grandi della piccola fanciulla si riaprirono. Da lontano giunsero i rumori della folla che tranquilla aveva ripreso la sua normale attività dopo il primo giorno di smarrimento. La corte dei Miracoli era talmente silenziosa e vuota che qualsiasi rumore, anche la più piccola percezione era palpabile e udibile come se quel suono si fosse propagato solo a pochi metri dal loro rifugio. Si alzò e si lavò il viso con l'acqua fredda. Era stata una nottata lunga, quasi interminabile dovuta anche alle alte temperature e all'umidità caratteristiche del mese di Luglio. Il vestito, ancora quello bianco che le avevano dato in prigione e che lei aveva tenuto anche quando era rimasta a Notre Dame, nella stessa casa di quel vecchio prete, ora le era aderente al corpo, bagnato. Attraversò in punta di piedi il salone, mentre la sua mente ripercorreva tutti gli eventi cui aveva assistito in quella sala, non per ultimo il racconto di Pierre sull'assalto alla cattedrale e della fine che avevano fatto gli altri zingari. Quando arrivò alla porta, la sua mano esitò. Fuori c'era il mondo, immenso e crudele, che in quegli ultimi mesi non aveva fatto altro che portarle dolore e sofferenza, che era stato cattivo nei suoi confronti, giovane zingara spensierata, semplice e ingenua che era uscita dal proprio bozzolo per ballare fresca e leggiadra, come una ventata di primavera anticipata per le vie di Parigi. Già, e proprio danzando aveva attirato l'attenzione del suo bellissimo Febo, il suo sole. Aveva fatto breccia nel cuore della persona che amava e che sarebbe arrivata un giorno a portarla via; via da quella città, da quel paese, via da quel mondo tanto crudele che le aveva fatto male.
Sarebbero partiti insieme per un viaggio senza meta, con l'unico scopo di scappare, fuggire via e non far sapere più niente di loro. Liberi di amarsi, lontano dagli occhi di tutti, e soprattutto, lontano da quel prete che tanto la voleva senza però amarla! Quel vecchio prete che aveva tentato di uccidere il suo Febo, il suo bellissimo e splendente sole! Ah, ma il bene trionfa sempre! Il suo Febo, ferito gravemente, era tornato e presto, molto presto, il prete avrebbe pagato per le sue azioni. Sarebbe andata da lui, avrebbe raccontato a lui la verità, come effettivamente erano andate le cose e avrebbero trovato insieme il modo di farla pagare a quel vecchiaccio della malora. E poi... Sarebbero fuggiti in un posto dove nessuno poteva conoscerli e lì, finalmente, avrebbero vissuto felici e contenti. Djali e sua madre sarebbero partiti con loro e tutti avrebbero vissuto felici e contenti.
Prese un respiro e aprì la porta tutta contenta. Il Sole, bello, rotondo giallo illuminava le strade su uno sfondo celeste. Il cielo era limpido, senza una nuvola. E le case diroccate della Corte, che di notte assumevano toni spaventosi e lugubri, neanche fossero le abitazioni di qualche spirito fantasma, si mostravano nella loro vera natura, quella di case troppo malandate per ospitare nelle ore più fredde della notte, soprattutto d'inverno, i suoi coraggiosi quanto incoscienti abitanti. Per questa ragione gli accattoni tutte le notti si ritrovavano in quella sudicia taverna, in cui restavano fino a ora tarda. Diede ancora un ultimo sguardo alla taverna e poi guardò il sole. E alla fine scelse il sole. Uscì da quella tavernaccia, e iniziò a correre ridendo per le strade e guardando più il cielo che non la strada, che avrebbe potuto benissimo percorrere a occhi chiusi, tanto la conosceva bene. Corse a più non posso finché ebbe forza nelle gambe, a perdifiato. Corse, allontanandosi un poco dalla città, correndo per i campi di fiori, e di grano appena mietuto. Corse leggera, come se i suoi piedini di fata non toccassero il suolo, come se ella fosse fatta di aria, o una graziosa ninfa dei campi. Corse felice ridendo, con una leggera brezza che le scompigliava quei capelli color dell'ebano. Corse assaporando dopo mesi di sofferenze e dolori l'aria pura della Libertà, così dolce e fresca che capì perché tutti la cercassero, a volte per tutta la vita. Donava una carica e un'energia tale che chi la possedeva si sentiva padrone di se stesso, e padrone del mondo. Almeno questo era quello che molti gitani le avevano sempre detto fin da quando era piccola, quando lei con i lacrimoni agli occhi chiedeva perché gli altri bambini, quelli che non era gitani, non volevano giocare con lei e la escludevano e venivano portati via dalle madri.

Perché sono invidiosi di noi. Perché noi gitani siamo liberi! Non abbiamo fissa dimora e possiamo girare il mondo; perché la nostra società non deve rispettare le loro stupide etichette e soprattutto perché siamo tutti liberi di gestire la nostra vita come più crediamo. Perché non c'è legge, se non la nostra, cui dobbiamo sottostare. Perché anche se non siamo ricchi e non viviamo in mezzo a tutti quegli agi come fanno loro, noi siamo più felici di loro.” questa solitamente era la spiegazione dei più grandi; e anche Clopin gliel'aveva ripetuto queste cose.
Al ricordo di colui che era stato suo padre, suo fratello, e il suo migliore amico si fermò, con le lacrime agli occhi. Si fermò e cadde in ginocchio piangendo. L'aveva lasciata sola anche lui. Alla fine. L'aveva lasciata quando invece le aveva promesso che le sarebbe stata accanto finché lei avesse voluto e ne avesse avuto bisogno. Perché non hai mantenuto la promessa? Io mi fidavo di te!! io ho ancora bisogno di te, papà. Papà dove sei... perché mi hai abbandonata? Io sono sola al mondo... Ho ritrovato la mia mamma, è vero ma... non è la stessa cosa. Tu.. mi hai cresciuta, mi hai amata come una figlia. Sei stato l'unico a esserti preso cura di me. Cosa ho fatto di male da farti arrabbiare? Perché mi hai lasciato? Avevi promesso...pensò rimanendo inginocchiata per terra per lungo tempo.


***

E mentre la piccola e innocente piangeva, qualcun altro, ignaro di ciò, si svegliò per poter svolgere le proprie funzioni religiose. Ripeteva a macchinetta quelle parole che ormai dopo anni di predicazione, sapeva a memoria. La cattedrale, maestosa e silente, trasmetteva ai fedeli, o almeno gli sembrava, poiché questa era la sensazione che egli percepiva, un'aura di sacralità solenne e incombente, accentuata dai lumi dei lampadari a candele e dei ceri accesi dagli stessi fedeli per chiedere aiuto e soccorso per se stessi e i propri familiari. Era un'aura che non percepiva da anni, o che forse fino a quel momento non aveva mai percepito. Era l'aura di una cattedrale ancora offesa per l'umiliazione subita. Umiliazione che ancora bruciante si manifestava ai fedeli, come per renderli colpevoli e complici di quanto era accaduto. Per non essere intervenuti a proteggere la loro Signora che tante volte aveva accolto le loro richieste e che era sempre stata presente e pronta ad accogliere chi aveva bisogno del suo aiuto. Non si era mai negata a nessuno. E cosa aveva ottenuto, a aiutare sempre il prossimo? La più totale indifferenza. Quei fedeli, che si erano proclamati tanto devoti, nel momento del bisogno l'aveva abbandonata in balia del proprio destino, di quel massacro reputato ingiusto persino dall'arcidiacono, per quanto odiasse i “sans papiers”. Un'empietà commessa nella dimora di Dio! Come potevano ancora quei soldati professarsi cristiani cattolici e entrare in chiesa con disinvoltura, come se niente fosse successo?! Come osavano?!
Quei pensieri annebbiavano la mente dell'arcidiacono, e la rabbia era talmente grande che quasi, per qualche strano e fortuito caso, era riuscito a tenere lontano da lui il pensiero della bella zingara dalla sua mente per qualche istante. Quella zingara! Riusciva a penetrare nei suoi pensieri anche durante le funzioni! Era incredibile! Non le bastava più presentarglisi davanti ai suoi occhi sotto forma di visione a tutte le ore del giorno e della notte. Lo voleva per sé anche durante le funzioni religiose, in uno dei momenti più sacri della giornata. L'avrebbe davvero distrutto se avesse continuato a tormentarlo così. Quel disprezzo nello sguardo quando aveva preferito il patibolo a lui, quell'indifferenza quando lui per l'ennesima volta le aveva confessato il proprio amore e desiderio piangendo, inginocchiato di fronte a lei, come non aveva mai fatto nella sua vita, quelle parole dure e taglienti che gli aveva rivolto dopo che lui era tornato indietro per salvarla dalla forca, perché, nonostante il dolore, lui l'amava, tutto ciò era ancora ben impresso nella sua mente, e bruciava, e il suo cuore era diviso in due: da una parte l'Orgoglio ferito, che reclamava Vendetta per l'oltraggio subìto, dall'altra parte il Cuore, che nonostante soffrisse per l'essere stato respinto era sempre innamorato di lei e che voleva impedire che alla fanciulla fosse torto un capello, perché quella leggiadra e graziosa piccina aveva già troppo sofferto le ingiustizie del mondo a causa sua.
Vacillante e con le immagini della bella donzella davanti ai propri occhi, riuscì ad arrivare integro, almeno fisicamente, alla fine della S. Messa. Quando tutti i fedeli si furono allontanati, si appoggiò all'altare e chinò il capo. E prese dei respiri profondi. Doveva calmarsi. Doveva farlo. Dei non riusciva a togliersi dalla mente quello sguardo duro che gli aveva rivolto quando si era fermata per poi dividersi da lui definitivamente. Le faceva così tanto orrore? Perché? Perché aveva ferito il suo bel capitano? Che, ne era certo, non l'amava ma la desiderava soltanto? Perché non voleva capire che in realtà lui non la amava, che l'aveva desiderata soltanto. Che l'unica persona che l'amava davvero.. era un povero prete che si era ritrovato a consacrare la sua anima a quella fanciulla, per la quale provava un amore grande quanto era l'odio che lei gli riservava nei loro incontri.
Sì, incontri, perché di questo si trattava, di pochi, brevi e taglienti incontri. Si stava dannando l'anima e niente e nessuno avrebbe mai potuto distoglierlo da quel pensiero fisso che gli stava logorando e lacerando l'anima. Mai niente e nessuno aveva occupato così invadentemente e prepotentemente la sua mente, fino a farlo delirare durante le notti, nelle quali prendere sonno diventava notte dopo notte una impresa sempre più ardua. La Religione, la Scienza, l'Alchimia con i loro misteri ancora da scoprire, persino loro discipline severe e rigide, erano state più clementi di quella fanciulla. Persino loro avevano concesso riposo all'arcidiacono, per permettergli di riacquistare le forze per poter tornare all'opera il giorno seguente. Invece lei no, non gli dava tregua. Sembrava che il tormento della sua anima fosse la forma più sublime di divertimento per quella bambina. Che vederlo piangere d'amore, essere il centro di tutte quelle attenzioni, e rifiutarlo ogni volta, provocasse un piacere talmente forte da convincerla a perseguire su quella strada. Per torturarlo ancora, fargli visita nei sogni, durante gli esperimenti di alchimia che da mesi non riusciva a concludere, come se avesse spazzato in un attimo la conoscenza che aveva accumulato in tutti quegli anni di studio, in cui tanto aveva primeggiato e si era distinto dagli altri suoi coetanei. Sospirò e dopo aver messo a posto, se ne tornò nella sua torre. A finire gli esperimenti che il giorno prima aveva interrotto per la troppa stanchezza. Sospirò e si mise all'opera, senza arrivare, ovviamente, ad alcun risultato.

***


Non seppe da quanto era lì in quel campo a piangere, ma quando alzò nuovamente lo sguardo verso il cielo, si accorse che era passato comunque troppo tempo. Sua madre si sarebbe preoccupata per lei, doveva assolutamente tornare a casa prima che calasse il sole. Mancava ancora qualche ora al tramonto. E visto che non sapeva dove fosse, non avendo badato alla strada che aveva percorso quel mattino, presa da un momento di liberazione. Da tutte quelle angosce, paure, da quelle mura che avevano tenuto imprigionata la sua anima e il suo corpo in un luogo tetro e lugubre come doveva essere la morte. Quella morte che aveva evitato per un soffio, proprio grazie all'intervento di quel vecchio prete che l'aveva accusata di stregoneria. Quell'uomo che l'aveva posta di fronte a una scelta. O il patibolo, o lui, o la morte o l'amore. E che amore! “L'amore di un dannato!” aveva detto lui. E quello era. Niente di più niente di meno. Non sapeva molto sulla religione delle Chiese, chi era quel Dio che il buon popolo di Parigi, come quello delle molte altre città che lei nella sua breve vita da zingara aveva visitato, tanto osannava. L'unica cosa che sapeva era che i pastori, così si facevano anche chiamare i preti, l'aveva scoperto la sera precedente, non potevano sposarsi né amare nessuno che non fosse il loro Dio. Ne ignorava la ragione ma tanto bastava per far nascere nel palpitante cuore della zingarella nuovo odio e disprezzo nei confronti di quell'uomo tutto vestito di nero che tanto la desiderava. Si alzò da quel suolo dove aveva riposato per ore, pensando a tutti i tristi eventi che avevano caratterizzato quegli ultimi mesi. Si alzò e scosse la terra che aveva macchiato il suo misero abito. E poi iniziò a vagare cercando di ripercorrere la strada che aveva percorsa all'andata. Iniziò a camminare con passo sempre più spedito mentre il cielo diveniva sempre più scuro e il sole si avviava sempre più verso il momento del tramonto, colorandosi di toni sempre più accesi, fino al rosso sangue. La povera bambina, sola, lontana dalla città, lontana da tutto e da tutti, senza alcuna possibilità di incontrare nessuno e di essere dunque portata a casa. Era lontana da sua madre, dall'unica persona della sua famiglia che le fosse rimasta e che potesse prendersi cura di lei. Corse a perdifiato verso il Sole, sperando di intravedere i primi casolari della città, mentre lucenti e cocenti lacrime le solcavano il viso. Non era mai stata da sola lontano da casa per più di qualche ora, né mai si era allontanata, né ne aveva avuto il desiderio. In seguito però a quella serie di eventi che si erano susseguiti, e a quel perenne essere circondata da mura, e fredde pareti di pietra, la tentazione di evadere, di liberarsi da tutte quelle costrizioni, non adeguate al proprio animo libero, era stato troppo forte e non aveva saputo resistere.
Corse e camminò a fasi alternate, quando i polmoni bruciavano per lo sforzo cui la giovane fanciulla li sottoponeva. Infine la notte calò, e il Sole, anche quel giorno, andò a salutare l'altra parte del mondo, nascondendosi agli occhi della gitana, che man mano la notte si faceva sempre più nera, si sentiva sempre più spersa. E a poco valeva la presenza delle stelle luminose in una notte come quella. Non riusciva a tranquillizzarla niente. Solo la presenza del suo bel capitano avrebbe potuto alleviare quella tetra notte, nera come nera era la veste di quell'uomo del demonio. E questo la terrorizzava, la rendeva ancora più insicura di quanto già non fosse. Dei... che cosa le era saltato in testa di uscire da sola senza neanche Djali con se e non badare alla strada che percorreva. Era sola in un posto che non conosceva. E non sapeva quali brutti e spaventosi ceffi si potessero nascondere nell'oscurità della notte. Notte nera senza Luna, oltretutto. Con tante stelle, sì, ma senza luna. Iniziò a pregare la sua famiglia, Clopin e la sua anima che l'accompagnasse e l'assistesse. Che non l'abbandonasse proprio quella notte. Che tornasse a casa sana e salva. Pregò camminando finché le gambe non cedettero e lei dovette arrestare la sua camminata. Forse è meglio fermarmi. So quello che ho visto ma non quello che vedrò. Se andassi avanti probabilmente potrei fare brutti incontri, e ora come ora è l'ultima cosa di cui ho bisogno. Qualcuno mi verrà a cercare... Almeno spero. Pensò la fanciulla.


***


E non aveva tutti i torti. Più di una persona, sua madre e Gringoire, si erano messi a cercarla, non avendola vista tutto il giorno. Con il cuore in affanno aveva girato quelle vie per tutto il giorno cercandola, con il terrore di averla persa nuovamente, proprio quando l'aveva ritrovata dopo quindici lunghi anni lontana da lei. A lei si era unita subito la capretta, seguita a ruota dal giovane poeta, timoroso egli di perdere la capretta, nonché la sua migliore allieva. L'avevano cercata in lungo e in largo azzardando persino qualche via vicino alle porte di Parigi, senza però inoltrarsi più del necessario nella città.
-La mia bambina, la mia bambina... Hai trovato la mia bambina, la mia piccola Agnes, Pierre, dimmi di sì!- ripeteva ormai come una cantilena ogni volta che lo incontrava in un punto di ritrovo che decidevano di volta in volta, per evitare di non perdersi, almeno loro. E ogni volta il poeta dissentiva.
All'ennesimo incontro, Pierre sorrise e propose:
-Sentite, signora, e se andassimo a chiedere al monsignore della Cattedrale? È un mio amico e sono certo che se gli chiederemo aiuto per trovare la nostra giovine rondine, non ce lo negherà.- fece sorridendo al ricordo del suo amico che qualche giorno prima, proprio con lui, aveva ammesso di pensare a quella fanciulla. Inutile dire che la donna accolse con entusiasmo la proposta. Poi parve riflettere bene un attimo sull'idea.
-E se ci vedessero le guardie?- chiese lei timorosa. -L'arcidiacono ci ha detto di non farci vedere in città per un po'.- disse ricordando le parole del prete.
-Andremo non appena il sole sarà tramontato. Stanotte è una notte senza luna.- disse lui. La donna rincuorata sorrise.
-Ottimo, allora.- rispose lei anche se l'idea di non fare nulla fino al tramonto non la tranquillizzava per niente. Guardò il cielo e rivolse alla sua bambina un pensiero di conforto, come se potesse sentirla. E poi ritornò al rifugio accompagnata dalla capretta e dal poeta.


***


Il sole era tramontato da tre ore, la notte era buia e nei vicoli poco lontano dalla cattedrale si stava già animando la notte cui partecipavano tutti i malviventi della città. Ladri, tagliaborse, prostitute, allibratori, soldatacci da taverna animavano quella città dalla duplice natura, sostituendo la ricca borghesia benpensante di Parigi. Si sentiva già il vociare della feccia della città, così l'arcidiacono di Josas definiva quelle anime perse e senza morale e dignità da fare del proprio corpo e dei vizi capitali la loro principale fonte di guadagno.
La notte era senza luna, solo le stelle illuminavano una notte che altrimenti sarebbe stata nera. Sulla città, già ampiamente oscurata, si stagliava l'immensa figura dell'imponente cattedrale. Era nera come la notte e le sculture, i Gargoyle e gli altri mostri incombevano nella loro mostruosità e repellenza sulla popolazione parigina. Solo una luce testimoniava la presenza di una persona vivente all'interno di quell'architettura gotica. La luce flebile di una candela, tanto forte da sembrare un fuoco infernale per la gente ignorante, illuminava, nella torre di destra di Notre Dame, una scrivania di legno cosparsa di fogli e pergamene, alcune scritte e altre vuote, e un volume di alchimia aperto sopra tutto il resto. Chino su di esso, Claude Frollo vergava con nero inchiostro appunti, parole scritte nella speranza di scoprire finalmente il segreto della pietra filosofale, e riuscire a trovarla. Stava scrivendo meccanicamente, senza soffermarsi realmente sull'esatto significato delle parole, tanto era concentrato dal seguire la linea d'ombra che si andava creando sulla pergamena a mano a mano che il pennino rilasciava l'inchiostro nero. Nero come la notte, come la sua tonaca che mai avrebbe potuto togliere e disconoscere, quella stessa tunica per il quale era tanto odiato dalla sua bella Esmeralda. Nero come l'ebano, il colore dei suoi capelli, ricci. Ancora lei! Dannazione non è possibile che mi torturi così anche ora! Lasciò cadere stanco il pennino sulla scrivania e si appoggiò stancamente sulla sedia, passandosi stancamente la mano sugli occhi e sul viso. Forse avrebbe dovuto dormire un po'. Stava per alzarsi e andare a dormire quando sentì bussare alla porta.
-Avanti.- disse lui stancamente.
-So che è tardi, Arcidiacono. Mi dispiace disturbarvi. Posso?- chiese il poeta aprendo la porta.
-Non stavo facendo niente di particolare: in cosa posso aiutarti?- chiese sorridendo.
-Non è me che dovresti aiutare, ma una donna.- fece lui per poi voltarsi verso l'uscio, dove Paquette restava timorosa. Erano anni che non entrava nella dimora di un uomo di Chiesa e i ricordi ora riaffioravano prepotentemente alla memoria. -Non avere paura, Paquette, vieni pure.- fece il poeta sorridendo. La donna prese un sospiro ed entrò. Rimanendo stupita quando vide Claude, e tirò un sospiro di sollievo. Claude a sua volta la guardò preoccupato. Era la madre della sua piccina, perché venire se non per...
-È successo qualcosa a Esmeralda?- chiese tradendo leggermente il tono preoccupato della sua voce.
-Non la trovo più. È tutto il giorno che la cerco, che la cerchiamo, ma non la troviamo. L'abbiamo cercata ovunque. Potete aiutarci?- chiese lei con le lacrime agli occhi. Tutte uguali le donne. Quando hanno bisogno non esitano a fare gli occhi dolci e pietosi e una volta che ottengono ciò che desiderano, si voltano dall'altra parte e ti disprezzano.
-E perché chiedete a me? Sono certo che non ha alcuna intenzione di farsi trovare da me.-
-Vi scongiuro, monsignore.- fece lei piangendo. La guardò per qualche istante. Prese il mantello e mentre spegneva la luce della candela, iniziò a scendere le scale seguito dai due per poi uscire fuori all'aria fresca della notte in piazza. In quella piazza che aspettava fremente di poter mettere fine alla vita della piccola rondine.
-Avete cercato anche in città?-chiese lui.
-No ma non vedo perché avrebbe dovuto allontanarsi da sola così tanto.- fece la madre. I due uomini si guardarono.
-Per andare dal suo bel capitano.- fece lui. E iniziò a dirigersi verso la casa della giovane ricca borghese. Le luci erano ancora accese e il palafreno di quel soldato c'era. Se era qui, non poteva esserci la zingarella: avrebbe passato il tempo nelle segrete a interrogarla e processarla, magari anche torturarla. Trasalì a quel pensiero mentre gli tornavano in mente le grida della sua piccina mentre la torturavano e lui non poteva fare niente per evitarle tutta quella sofferenza.
Sospirò e riprese a cercare in città fino a spingersi fuori città, oltre le porte di Parigi, lanciando più volte occhiate al cielo, sempre più nero. Il tempo passava, la visibilità sempre più scarsa. Si spinse fino ad allontanarsi dalla città totalmente e iniziare a camminare per i campi, chiamandola per nome con tutto il fiato che aveva in gola. Sia per trovarla, sia per poter gridare al mondo il nome della sua amata, trovando un certo sollievo nel poter dire quel nome tanto dolce ad alta voce. La chiamò mentre il suo cuore esplodeva dalla gioia nel gridare quel nome.


***

La notte era sempre più buia, fredda e non riusciva più a tenere il corpo fermo, che tremava dal freddo. Era rimasta ferma per ore, senza mai muoversi per quanto il suo corpo lo desiderasse. Presto era arrivato il formicolio ai piedi, poi alle gambe. E ora muovere ogni minimo arto la infastidiva fortemente. Il viso nascosto tra le ginocchia era perennemente bagnato da lacrime di terrore, paura solitudine e disperazione. Voleva il suo sole, il suo amore. Voleva il giorno, il suo Febo. Quella notte la spaventava. Le ricordava quel prete di cui non sapeva neanche il nome. Tutta quella sofferenza, quel dolore! Voleva solo dimenticare lui e tutto quello che era successo.
Vieni a portarmi via! Portami via sui monti dell'Andalusia! Ti scongiuro. Questa è una città cattiva, che mi ha fatto soffrire tanto. Non voglio più vederla questa città. Mai più nella mia vita! Pensò lei. Voleva andarsene, voltare pagina, farsi una nuova vita lontano da quel mondo pieno di violenza. Voleva scappare lontano da quel vecchio prete che la desiderava e che non perdeva occasione di riconfermare il suo amore.
Pianse fino a non avere più lacrime da versare. Proprio in quel momento sentì l'erba accanto a sé frusciare. E una figura avvicinarsi.
-Chi.. Chi è?- chiese spaventata strozzando un urlo in gola, pronta a urlare nel caso ce ne fosse stato bisogno; intanto la nera figura avvolta in un mantello si avvicinava a passo sicuro verso di lei, come se fosse lei, proprio lei che voleva.


***


L'aveva cercata per ore e ore, nel freddo della notte. Chiamandola continuamente. Finché non sentì dei sussulti. E dei singhiozzi. Si avvicinò titubante finché nell'oscurità non vide una sagoma rannicchiata. La schiena scossa da sussulti, mentre si raggomitolava per i brividi sempre di più.
Si avvicinò sempre di più e quando la fanciulla alzò gli occhi neri, i capelli ricci di ugual colore, il suo cuore perse dei battiti. Iniziò a battere sempre più forte. Più forte di un tamburo. Si avvicinò a passo sempre più sicuro, mentre la fanciulla arretrava, o almeno ci provava sempre di più. Quella graziosa ninfa, quella piccola leggiadra rondine danzante, intimorita ora, era poco distante da lui, a pochi passi. Quel corpo da dea, che aveva sognato per notti intere, giovane, caldo, era lì. E ora che erano soli... No! La desiderava moltissimo.. ma non l'avrebbe mai presa senza la sua volontà. Per quanto la desiderasse non si sarebbe mai comportato come quel soldataccio che lei amava tanto. Perché se i ruoli fossero stati invertiti, lui ne avrebbe approfittato di certo.
-Esmeralda, piccina mia, sono io. Non avere paura.- disse lui dolcemente.


***


Nel vedere quella figura, lei si ritraeva. Le mani a terra arretrava mentre le gambe trovavano di nuovo la loro vitalità e si sottraevano a quella figura spaventosa e inquietante. Quella voce...
-No! Va via prete maledetto! Va via! Io voglio il mio Febo!- fece lei mentre sentiva le lacrime salire nuovamente. -Lui mi ama. Perché non c'è? Che ne hai fatto?!- e mentre le lacrime sgorgavano mentre la sua mente ricordava quella terrificante notte.
Lui la guardò e la prese per i polsi, mentre lei si ribellava dimenandosi come una furia. Lui la fece girare e la strinse fortemente a sé, con la sua schiena contro il proprio petto. -lasciami! Lasciami!- fece lei gridando e piangendo.


***


La stava tenendo stretta a sé, ancora non gli sembrava ancora vero. La sua pelle giovane e morbida, ambrata, era separata dal suo corpo solo da qualche strato di vestiti. Lei che si dimenava, versava lacrime, desiderando di essere salvata da una persona che non la voleva e non la amava.
-Sht, tesoro, non piangere. Va tutto bene... Tua madre è venuta a cercarti, con Pierre. Ma tuo marito non è stato abbastanza bravo da trovarti.- disse mentre le sue dita accarezzavano i suoi capelli e il suo collo. Il corpo ora era rigido, come se aspettasse da un momento all'altro la colpisse.
-Perché? Perché non mi lasciate in pace? Perché non mi lasciate andare dal mio Febo.- chiese lei.
-Perché ti amo e lui no. Perché IO sono qui. IO sono venuto a cercarti. IO e non lui. IO ti amo. Io, lo capisci?- chiese lui voltandola verso di sé, tenendola per le braccia. Lei si divincolò.
-Non toccatemi, vecchio prete. So che lui mi ama. E io amo lui. Lui e non te, prete infernale. Non toccarmi mai più.- fece lei. Claude la lasciò andare, senza cercare di afferrarla.
In quel momento arrivarono la madre e il marito della ragazza.


***


-Mamma!- fece vedendo la figura femminile dietro quell'uomo nero. Lo superò come se non ci fosse e corse tra le braccia della madre piangendo felice.
-Tesoro!! Ma dove eri finita! Non farlo mai più. Mai più mai più tesoro mio! Sono stata così tanto in pena...- fece lei piangendo a sua volta.
-Scusa, mamma, non accadrà più. Volevo... allontanarmi, dimenticare tutto ciò che era successo quest'anno e poi... ho perso la strada del ritorno. Perdonami mamma, non lo farò mai più.- fece stringendosi a lei, ricambiata.
-Non importa. L'importante è che tu ora stia bene. Dai, torniamo a casa.- disse la madre dolcemente. E dopo aver ringraziato ancora i due uomini, tornò con la sua bambina alla Corte dei Miracoli.

Angolo Autrice:  chiedo perdono per il ritardo con cui ho postato il capitolo ma sono state due settimane piene e questo è l'ultimo anno di liceo.. però questa storia la sto scrivendo con tanta partecipazione e credo che sarà la prima che finirò.... XD magari potrei postare un capitolo a settimana... così aggiornerei regolarmente per la mia e la vostra felicità!!! (spero!! XD). Ringrazio ancora tantissimo Minimelania per aver recensito e aver aggiunto la la storia tra i preferiti.  Ringrazio ancora Claudio Frollo e x_LucyLilSytherin per aver aggiunto la storia tra i preferiti. e chiunque sia passato di qui a leggere. per qualunque consiglio o critica eventuale... Sono pronta ad ascoltarvi!!!!! Al prossimo capitolo un bacio a tutti!! 

Lady N.

  
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