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Autore: Angemon_SS    08/11/2011    2 recensioni
Il mio primo giorno di scuola superiore fu alquanto movimentato. Mi accusarono di omicidio, mi ruppero il naso e feci una visitina al pronto soccorso. Ci furono anche rimpatriate con vecchie facce come quella di merda di Shaorang e la mia vecchia amica Tomoyo. Potevo lasciar perdere le accuse di omicidio ma quando la polizia cercò di arrestarmi dovetti correre verso il luogo dove accadde tutto. Se non sbaglio il colpevole torna sempre sul luogo del delitto, ed oltre l'avventura da Road Movie non dimenticherò mai che ho rischiato di morire e di cancellare un'intera città dalle cartine mondiali. La storia spero vi piaccia però va letta solo da chi è in grado di credere davvero alle carte di Clow Reed e all'esistenza dell'esoterismo del sud Europa. Vostra Sakura
Genere: Avventura, Azione, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Secondo

 

Sembrava che non ci fosse verso di poter essere una normale studentessa.

Kerochan si posò sulla mia spalla e non parlò per tutta la serata, non sapeva che dire ma voleva lo stesso essermi di conforto, io invece, stavo seduta sul letto, con la testa vuota e non sapevo se dovermi disperare o scervellarmi per trovare una spiegazione logica alla situazione nella quale mi trovavo. Alla fine scelsi la seconda opzione e pensai e ripensai fino a farmi venire il mal di testa: non era possibile che io fossi diventata un’assassina! Non ero mai stata in Europa, mai andata oltre Hong Kong se proprio vogliamo dire le cose come stanno; inoltre, essendo una fifona, non ero mai riuscita a sopportare la visione del sangue, figuriamoci riderne.

Successivamente il mio pensiero ricadde sulla ragazza che accusava, Rika Suzuki, era davvero sicura che io fossi l’assassina del padre, tanto da andare alla polizia e denunciarmi. Quella sera papà mi spiegò che di li a poco saremo stati chiamati davanti al giudice, quest’ultimo avrebbe deciso se rimandarmi a giudizio, ovvero decidere o no se si sarebbe dovuto fare il processo in Italia, quindi il mio arresto.

Naturalmente i mali non vengono mai da soli. Mentre mi scoppiava la testa arrivò un messaggio al cellulare e, se non ricordo male, faceva così:

 

Ciao, sono Li. Sapendo che hai cancellato il mio numero e sicuramente cambiato anche SIM, l’ho chiesto a Tomoyo. In questi giorni sarò a Tomoeda per sbrigare alcune commissioni per conto di mia madre. Mi piacerebbe poterti rivedere e offrirti un frappé o un gelato.”

 

Non fui così seccata come vi possiate asepttare.

La prima cosa che mi venne in mente fu che forse lui avrebbe potuto trovare una spiegazione logica alla faccenda dell’omicidio. Senza pensarci ulteriormente chiamai il numero dal quale era stato inviato il messaggio ma, dopo decine di squilli, non rispose nessuno. Dopo tre vani tentativi dovetti scendere per la cena e per la prima volta la mia famiglia cenò in completo silenzio, non accendemmo nemmeno la televisione, si potevano addirittura sentire le macchine passare nella strada di fronte e i cani dei vicini, una sensazione tremenda, c’era una tensione innaturale nell’aria.

La suoneria a tutto volume del mio telefonino mi risvegliò da quella trance e corsi su per le scale più veloce che potevo, rischiando anche di rotolare giù; quasi sfondai la porta della mia camera e volai sul letto rispondendo alla chiamata prima che riattaccassero.

“Ciao, Sakura!” La voce, sebbene con un timbro un po’ più grave, era quella inconfondibile e accentata al mandarino di Li. “Mi stavi chiamando?”

“Si.” La mia voce, invece, tremava ed ansimava per la corsa.

“Dimmi tutto.”

“Perché sei tranquillo ed io così nervosa?” Non so perché gli feci quella domanda ma non rispose, sentii solo i rumori di sottofondo. “Ho bisogno del tuo aiuto: credo di essermi cacciata in qualcosa di troppo grande e nemmeno Kerochan sa spiegarlo.” Li stette in silenzio per altri secondi ma alla fine decidemmo che ci saremo incontrati la mattina successiva: io non sarei andata a scuola e lui mi avrebbe raggiunta con un taxi.

Quella notte andai a letto un po’ più sollevata, ancora non so spiegarmi il motivo. Dopo aver passato il resto della serata con le budella in rivolta, come se fossero in balia di decine di roditori e una nausea che pareva inarrestabile, sentii un piacevole calduccio che mi cullò finché non presi sonno. Come ho già detto non so il perché, forse mi aspettavo che con il suo arrivo tutto si sarebbe sistemato, che avrebbe lottato affinché tutti capissero che io non avevo fatto quella cosa terribile, mi avrebbe difeso con le unghie e con i denti, ne ero sicurissima!

Dopo tutto, qualche tempo fa, ci siamo voluti bene, così bene da dirci “ti amo”; pareva una cosa così lontana e assurda, eppure in quel momento non nascondo che mi sarebbe tanto piaciuto un suo abbraccio. Lo desideravo così tanto che lo sognai e la mattina dopo ero ancora più confusa. Restai con lo sguardo perso nel vuoto, ad osservare il soffitto, per molti minuti mentre la radiosveglia urlava canzoni e la rassegna stampa mattutina; Kerochan, invece, continuò a russare finché non mi alzai e lo svegliai tarandogli un orecchio.

“Sei crudele! Stavo sognando un mondo fatto di caramello, non mi piace questa legge del se sono sveglia io devi esserlo anche tu!”

Sapendo di essere sola in casa mi feci una doccia molto più lunga del normale, ebbi così tempo per potermi riprendere da una notte passata a sognare abbracci da parte di quella persona, colei che mi aveva distrutto e condizionato la vita per tutte le scuole medie; proprio quando stavo superando il dolore riappare, per potermi uccidere di nuovo.

La radiosveglia continuò a suonare finché non la zittii con un colpo secco. Kerochan tornò a nanna appena le canzoni cessarono, almeno non lo avrebbe.

Come mi aspettai sentì il cuore esplodermi nel petto. Non mi aspettavo che fosse cambiato così tanto. Appariva molto più grande dell’età che avrebbe dovuto dimostrare. Alto e ben piazzato lasciava intuire che negli ultimi anni aveva praticato uno sport molto assiduamente. La barbetta giovanile e incolta, dava l’impressione di poca cura personale ma pensai che fosse per il viaggio.

“Ehi!” Fu la sua prima parola. Non sapevo se dovermi incazzare o lasciar correre. A dir la verità furono molte le cose che quella mattina lasciai correre; come ad esempio il fatto che lui fosse lì proprio quando avevo bisogno di aiuto, sapevo che Tomoyo aveva appreso della mia situazione e l’aveva sicuramente avvisato per e-mail o tramite qualche social network – e’ davvero un’ottima amica, peccato che in quel periodo non me ne fossi accorta –, un’altra cosa era il fatto che non avesse con se una valigia e i vestiti erano in perfetto ordine, significava che era in città già dalla notte prima.

Non mi guardò per tutto il tempo che impiegammo per arrivare al bar più vicino dove, molto cortesemente ordinò un caffè per lui ed un frappé alla fragola per me. Il fatto che si ricordasse ancora cosa ero solita ordinare in quelle situazioni mi fece molto piacere.

“Non ti nascondo che mi fai paura…hai una faccia” Fu la seconda frase che mi rivolse e mi assalii una tale voglia di prenderlo a botte che quasi lo feci, poi ricordai di trovarmi in un luogo pubblico, inoltre, aveva ragione, in quei giorni ero davvero frustrata.

“Ed io non ti nascondo che ti odio!” Sono partita puntando sul pesante, lo so, ma fu la prima cosa che mi venne in mente.

“Ok…era davvero necessario saltare la scuola?”

“Tanto oggi non mi sarei persa niente” In realtà avrei dovuto sostenere due compiti in classe, me malefica! “Hai qualche idea?”

“Certo: penso la tua compagna di scuola abbia il cervello totalmente di traverso. Non sarò di sicuro il primo a dirlo ma se tu non sei mai stata in Italia, e ne hai le prove, non puoi aver commesso il fatto. Non pensare nemmeno per un secondo alle carte di Clow, le hai catturate tutte e non può essere opera loro. A meno che tu non le abbia di nuovo perse…”

“Certo che no. Eppure pensavamo lo stesso prima che si presentasse la carta del Nulla, comunque Eriol mi ha confermato che non ne esistono altre.”

“Allora non so proprio a che pensare.” Non mi piacque quella sua frase, non avevo accettato d’incontrarlo solo per farmi ripetere cose che già conoscevo.

“Un mago antagonista di Clow Reed?”

“Clow aveva tanti nemici, come ogni mago, ma stiamo parlando di secoli e secoli fa, inoltre, un nemico con poteri magici, quindi vincolato dalle leggi magiche, attaccherebbe di persona e non cercherebbe di incastrarti, sarebbe un disonore per lui."

Finalmente arrivarono le ordinazioni e Li terminò il caffè senza nemmeno metterci lo zucchero. Il quel momento sentii una volante della polizia passare davanti al bar a sirene spiegate, un brivido mi attraversò la schiena e questo non sfuggì al mio accompagnatore, molto gentilmente cambiò argomento.

“Domani è il tuo compleanno!” Frugò in tasca ed estrasse un piccolo pacchetto. “Pensavo che non fosse giusto presentarmi senza un regalo.”

Non sapevo che dire, ovviamente mi lasciò spiazzata perché non mi aspettavo nemmeno che si ricordasse il giorno del mio compleanno. Sulle prime pensai che volesse comprare il mio perdono e restai in silenzio, mi accorsi subito che quello era un pensiero avvelenato dalla mia frustrazione, lo conoscevo molto bene e non lo ritenevo capace di fare una cosa simile, quindi accettai il regalo cercando di sorridere. Nel prendere quel pacchetto le nostre dita si sfiorarono e fu come se ricevetti una scarica elettrica, insieme a quella scossa mi attraversarono la mente decine e decine di momenti sorridenti passati insieme e ricordai, mio malgrado, quanto mi fosse mancato in tutto quel tempo.

“Non dovevi.” Quella solita frase fatta, in queste occasioni è d’obbligo.

“Figurati, mi fa piacere.”

Non so perché arrossii, fortunatamente mi tornò l’appetito e terminai il mio frappé con un unico sorso. Quando lui si alzò dal tavolino per andare a pagare non erano passati neanche quindi minuti dal nostro ingresso. Uscimmo in strada diretti verso casa e nessuno dei due fiatò per tutto il tragitto; camminargli accanto mi fece tornare bambina e di questo me ne vergognai infinitamente. Non era possibile che io continuassi a essere triste e rimpiangere quel mio fidanzatino del tempo delle elementari; mi sentivo una stupida, a quattordici anni si dovrebbe essere molto più maturi ed invece, si trovava accanto a me, le mie mani fremevano di poterlo sfiorare.

“Siamo arrivati.” Mi svegliò dalla valanga di pensieri.

“Grazie del frappé.” Nel dire quella frase arrossii di nuovo.

“Sarò a Tomoeda fino a domani sera, poi tornerò fra altre due settimane e ci aggiorneremo, parlerò con mia madre e vediamo che dice sulla situazione.” Aveva un tono così gentile. “Sai, ogni tanto mi chiede come state tu e Tomoyo, ogni volta non so che dirle su di te, se non quello che mi dice la tua amica. Mi piacerebbe poter…riallacciare i rapporti.”

“Sakura_Clow@nifty.com”

“Come?”

“E’ il mio indirizzo di posta elettronica, non mi sommergere di pubblicità e cazzate varie.”

Mentre si annotava il contatto sul cellulare calò di nuovo il silenzio e tornò la voglia di sforargli la mano, com’era accaduto poco prima. La allungai quasi impercettibilmente ma la ritrassi subito, spaventata da una vecchietta che passava li accanto.

“Allora, ci vediamo tra due settimane.” Dette quelle parole attese che io tornassi in casa per andarsene tranquillo lungo la strada. Mi accorsi di avere il cuore che batteva all’impazzata solo quando richiusi la porta. Rivederlo fu così bello quanto terribile, venivo attraversata da una marea di sensazioni e non sapevo a quale dare retta, credo anche di aver pianto per alcuni secondi, ma questo forse era meglio non dirlo, mi vergogno già troppo.

 

“Bentornata” Tre giorni dopo, papà, mi attendeva in cucina e non appena mi vide si tolse il grembiule che utilizzava sempre ai i fornelli. “Mi dispiace ma devi rimetterti le scarpe, stamattina ha chiamato l’avvocato e ci aspetta dal giudice. Ci sono novità!”

“Belle o brutte?”

“Non l’ha specificato.”

Venni letteralmente trascinata dentro un taxi e dopo quasi un mezz’ora di viaggio arrivammo in pretura. Era la volta che entravo in quel palazzo, gli altri incontri erano stati sempre fatti nello studio dell’avvocato amico di papà, che in realtà era casa sua. L’ingresso ci accolse con una lunga scalinata in marmo bianco e due grandi portoni in ferro dorato con la scritta in caratteri cubitali PALAZZO DI GIUSTIZIA. Una volta dentro, un’altra lunga scalinata, questa volta in marmo nero, con un frenetico sali e scendi di gente ben vestita; chiaramente distinguibili gli avocati in abiti costosi, seguiti dai clienti con abiti un po’ più borghesi, personale del tribunale, poliziotti in divisa mai vista prima e decine e decine di altre persone che andavano da una parte all’altra.

Entrammo in un ascensore e salimmo di quattro piani. Appena si aprirono le porte mi ritrovai faccia a faccia con Rika Suzuki. Credevo che mi avrebbe assalito di nuovo, invece, aveva un viso beatamente rilassato ma con una smorfia di soddisfazione indescrivibile. Prese l’ascensore che io e papà avevamo appena lasciato nello stesso momento in cui ci venne incontro l’avvocato livido in volto.

“Quella ragazza è insopportabile.” Kenichi, così si chiamava, era un uomo più o meno della stessa età di mio padre, scoprii più avanti che erano andati alla stessa scuola superiore ma per l’università si erano divisi, senza però troncare i contatti. Prese mio padre da parte e lo informò, con fare molto gesticolante, di alcune cose che non riuscii a udire, quanto si riavvicinarono a me potei intuire dai loro volti che le novità non erano a nostro favore.

Finalmente fummo ricevuti in un ufficio molto grande, con grandi finestre, una bandiera giapponese appesa al muro ed una scrivania enorme. Ad attenderci, un uomo di mezza età barbuto che fumava una pipa mentre leggeva alcuni fogli di una cartella rosa.

Al nostro ingresso si alzò in piedi e ci strinse le mani presentandosi come Giudice per le indagini preliminari, fu lui a convocarci e dopo un breve colloquio, nel quale venne analizzata per la trentesima volta la situazione, accese un televisore e quello che apparve non mi piacque per niente.

“Questo è ciò che ha registrato una telecamera di sorveglianza all’ingresso del centro storico della città di Agropoli, dov’è successo il fatto. Ecco! Come potete notare ci sono i fuochi d’artificio e sono la fonte di luce maggiore, anche perché uno dei lampioni era non funzionante. Ora si vede la vittima che si allontana dalla famiglia per riuscire a filmare meglio lo spettacolo pirotecnico.”

Non potevo credere ai miei occhi: ad un certo punto vidi apparire nell’inquadrature due individui che ricordavano la mia figura, con lo scettro, e quella di Li, con la spada. Ero basita!

“Una delle due figure è voltata verso la telecamera e si può chiaramente riconoscere la qui presente, Kinomoto Sakura, e proprio in questo momento, ecco qui, colpisce il signor Suzuki alla nuca con il bastone, lo si vede accasciarsi privo di sensi sul muraglione. A questo punto la seconda figura, maschile, che ancora non siamo riusciti a identificare, allontana chi cerca di intervenire brandendo una grossa spada.”

Non nascondo che ero sempre più sconvolta.

“Ora potete notare che la figura femminile colpisce di nuovo la vittima alla testa rompendo visibilmente il cranio. Lo spinge giù dal muretto e la vittima sparisce dalla visuale, ancora pochi secondi e le due figure si allontanano lasciando i parente disperati e i curiosi che guardano oltre il muretto.”

Visionammo di nuovo il filmato per decine di volte ma non c’erano dubbi che l’assassina del video fossi io, o per lo meno, era identica a me. Mio padre era sbiancato e guardava speranzoso l’amico avvocato che si mangiava nervosamente le unghie senza dire una parola.

“Allora.” Il giudice spense il televisore e posò la pipa sul tavolo. “Signorina Kinomoto, la famiglia Suzuki e i loro avvocati sono già stati qui ed hanno confermato ciò che si vede nel filmato. Il video ci è stato spedito dalla Procura di Salerno, stanno svolgendo loro le indagini ed intendono andare fino in fondo. In questi giorni emetteranno un mandato di custodia cautelare nei suoi confronti.”

“Mi arrestano?” Lo dissi con la voce rotta dal pianto.

“Si, ma prima che questo possa essere convalidato devono fare richiesta di estradizione al nostro paese. Questo verrà valutato e qualora venisse approvato da Tokyo, dovrai essere condotta fino in Italia dove verrai arrestata, sarai affidata agli psicologi, e verrà svolto il processo a tuo carico.”

Sentii come se un muro mi fosse crollato sulle spalle. “Non posso essere io quella del video, io non sono mai stata in Europa, non sono mai stata in Italia e non sono mai stata neanche in quella città, non riesco nemmeno a pronunciarne il nome. Sono innocente, non voglio essere arrestata, voglio studiare, voglio pattinare, voglio stare con i miei amici, non voglio andare in prigione, non per qualcosa che non ho mai fatto.” Stavo urlando ma non mi fermai finché non finì l’aria.

Mio padre mi abbracciò così forte da farmi male e guardandolo in viso, notai che stava cercando di nascondere le lacrime.

Prima di tornare a casa passammo per l’ufficio dell’avvocato. Mi sommerse di domande finché papà non decise che fu ora di tornare. Finirono per rassicurarmi sul fatto che in caso di processo avevano le prove che non mi ero mai allontanata da Tomoeda nel periodo dell’omicidio, del fatto che non era stata ritrovata la presunta arma del delitto e ovviamente non vi era alcun movente.

Nessun movente

Eppure doveva pur esserci un motivo per il quale ammazzare quell’uomo. Non ho mai trovato sensata la possibilità di uccidere qualcuno solo per il gusto di farlo, anche quando nei film si parla di serial killer che uccidono tanto per tenersi occupati, rimango basita, deve sempre esserci un motivo per il quale viene la voglia ti stroncare una vita.

Rincasammo stanchi, l’ora del pranzo era passata già da un pezzo e la prima cosa che feci fu quella di salire in camera e buttarmi sul letto. Presi il cellulare, dovevo assolutamente riferire a  Li del suo coinvolgimento; optai per un sms e sperai che lo leggesse prima di tornare ad Hong Kong: ovviamente non lo fece immediatamente, quella sera mi spedì una mail nella quale mi esprimeva tutta la sua rabbia e la sorpresa.

 

Nei giorni successivi si sparse la voce e i giornalisti si appostarono con i loro camper nelle vie limitrofe alla mia casa. Ogni volta che uscivo per andare a scuola o per commissioni, venivo sommersa di domande, il più delle volte spintonata e strattonata tra un cronista e l’altro, chiamata assassina dai passanti, e fotografata fino alla nausea. A scuola la cosa non migliorava di certo. Isolata e derisa dalle stesse persone che ad inizio anno mi avevano dimostrato la loro disponibilità e amicizia, passavo le pause in isolamento e le lezioni a parare pallottole di carta e proiettili bavosi di cerbottane. Abbandonai il club del pattinaggio e, dato che il regolamento scolastico imponeva di partecipare ad almeno un club, mi iscrissi al club della lettura. Era dedito alla cura della biblioteca e finalmente potevo stare tranquilla perché era obbligatorio il silenzio; non dovevo fare altro che ordinare i libri secondo l’alfabeto, spolverarli, e registrarli quando uscivano o rientravano dal prestito.

Ogni volta che tornavo a casa, dopo aver fatto lo slalom tra i giornalisti, dovevo assolutamente mettere lo stereo al massimo volume. Mi serviva per staccare la spina al cervello, almeno per qualche minuto, dopo, quasi sempre, piangevo, era una situazione stressante. Furono le due settimane più lunghe della mia vita ma finalmente arrivò il giorno nel quale sarebbe tornato a Tomoeda lui. Li Shaoran.

Decisi che l’avrei incontrato quella sera stessa e corsi nella casa dove era solito stare durante i soggiorni in città. Avevo bisogno di un qualsiasi volto amico. Quando mi ritrovai davanti al cancello avevo il cuore impazzito, non per la corsa, bensì perché lo avrei finalmente rivisto. Ovviamente continuavo a sentirmi sempre più stupida, ma quella volta avevo una buona ragione per vederlo.

“Ho deciso di andare in Italia!” Fu la prima cosa che gli dissi non appena mise il muso fuori.

“Come scusa?!”

“Voglio vedere il posto dov’è accaduto il fatto, voglio sentirne le vibrazioni e scoprire chi, e per quale motivo, sta cercando di incastrarci, e voglio che tu mi accompagni.”

“Sei pazza!” Li si chiuse dietro la porta ed avanzò fino al cancello.

“No, ho solo bisogno di capire, non puoi immaginare cosa devo sopportare ogni giorno. Questa situazione mi sta uccidendo poco a poco.”

“Sai bene che non posso accompagnarti.”

“Infatti DEVI” Nel pronunciare quella parola credo di averlo sputacchiato.

“Come sarebbe a dire?”

“Sei in debito con me, per come mi hai trattato, per come mi hai fatto soffrire, per come mi hai abbandonata, per non avermi detto nemmeno un ti lascio o un mi vedo con un’altra. Hai ucciso una parte di me.”

“Non è il momento di parlare di quando avevamo undici anni.”

“Si tratta di poco più di tre anni fa.”

“Eravamo dei bambini”

“Ma i sentimenti erano quelli di chi è cresciuto in fretta, di chi ama per davvero, eravamo diversi dagli altri bambini della nostra età, combattevamo ogni notte, ed ogni notte rischiavamo di non rivedere mai più i nostri genitori. Siamo sempre stati più grandi di quei dieci anni che il nostro corpo dimostrava.”

Li scosse la testa.

“Non avevo il seno che ho adesso, non avevo i brufoli, non avevo la carta d’identità, ma ero grande, sono più grande! Prendo ogni giorno in mano un potere tale da poter distruggere tutto. Questo ti da responsabilità, ti fa maturare.”

Sembrava che gli fosse venuto un giramento di testa e si sedette per terra, io feci lo stesso e lo fissai per molti secondi negli occhi alla ricerca di una qualche scintilla.

“Ho bisogno del tuo aiuto.” Scandii per bene quelle parole.

“E’ un’accusa di omicidio. Non stiamo lottando contro una carta di Clow, se ci vogliono arrestare non puoi affrontarli con scettro e spada.”

“Lo so!”

Passarono altri secondi di silenzio.

“Sei sicura di non volermi con te solo per sentirmi dire scusa?”

“Come ti ho detto, sono più matura di una quattordicenne normale. Mi basterebbe solo che tu venissi con me e mi dessi il tuo aiuto. Questo varrebbe come scuse.”

“Mi dispiace.” Li si alzò in piedi e si pulì i pantaloni.

“Di cosa?”

“Di averti fatto soffrire.”

“Ma se ti ho appena detto…”

“Ora devo tornare dentro, ti chiamo in questi giorni per organizzare il viaggio. Buona notte e fai attenzione mentre torni a casa, in zona ci sono dei cani randagi.”

Li tornò frettolosamente in casa.

Non mi aspettavo che si scusasse in quel momento. Anche lui era più maturo di quello che potesse sembrare. Nonostante fosse aprile faceva ancora fresco alla sera. Eppure me ne andai con una strana sensazione di calduccio sul petto. Misi le mani nelle tasche e mi accorsi di avere ancora il suo regalo incartato.

 

   
 
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