È vero, ci metto anni. Ma
sono anni spesi bene 8D
No, scherzi a parte: mi
sto sempre di più convincendo che io e le one-shot non andiamo affatto
d’accordo. Io ho bisogno di spazi che la lunghezza standard di una one-shot non
mi concede. Rimarrò sposata con le long fic a capitoli in eterno XD
Beh, che dire di questo
quinto (sesto in ordine numerale) capitolo? C’è da dire che è il penultimo
della fascia introduttiva; fra poco il nostro Andrew comincerà a scavare nel
torbido, e lo farà in tutti i sensi (chi ha orecchie per intendere... ;D).
Perché? Perché ad un certo punto, scrivendo, mi sono accorta che era bene così.
Credo infatti di aver messo troppa carne al fuoco in questo capitolo, ma sono
quasi convinta dell’idea che a questa trama serva la spinta giusta per evitare
ad essa di essere banale, e a me di impantanarmi in capitoli noiosi.
Ringrazio tutte le persone
che hanno commentato il capitolo precedente, e a questo punto posso solamente
togliere le tende ed augurarvi una buona lettura ♥
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Capitolo
5
Se certe persone definiscono certe situazioni come
reali,
esse sono reali nelle loro conseguenze effettive.
(Teorema di Thomas)
Sulla panchina di fronte,
Mike lo stava guardando con cipiglio leggermente accigliato.
«
Collins... non ti vedo molto in forma. Sei sicuro di stare bene? »
domandò. Poco distante dal biondo, sia Jake che “montagna umana” Jeremy
sembravano in attesa di una qualche risposta illuminante che potesse quantomeno
spiegare il perché Andrew Collins, mister “forza ragazzi, andiamo in campo e
facciamoli neri”, fosse seduto su di una panchina degli spogliatoi con la
vitalità di un nespolo e l’espressione di un eroinomane sull’orlo di
un’overdose.
Più o meno la domanda che
si faceva tutta la squadra, da quando avevano messo allegramente piede dentro
lo spogliatoio e ne erano usciti profondamente inquietati.
Andrew, dal canto suo,
rimase in silenzio. In realtà aveva qualche risposta in serbo per situazioni
simili e le aveva divise diligentemente in due categorie: la prima, ovvero
quella dell’ “amichevole bugia per non far preoccupare gli altri” comprendeva
risposte come “niente, solo stanchezza” oppure “devo aver mangiato troppo a
pranzo, ho solo un po’ di nausea” corredate da sorrisetto di circostanza; la
seconda, invece, era quella della pura e semplice verità.
Sono finito in un casino
più grande di me che dalle dimensioni di semplice “problema” ha raggiunto
quelle di “disastro biblico”. Mi manca solo la pioggia di fuoco, l’invasione
delle cavallette ed il diluvio universale. Salvatevi finché siete in tempo.
Tuttavia capiva di per sé
un fatto fondamentale: non si frega Mike Connors. Ci si può provare, ma non è
detto che non avesse contatti con il KGB o con chissà quale organizzazione
mafiosa italo-americana, e che dunque il malcapitato giocatore d’azzardo non
rischiasse di tornare a casa e di trovare al posto di essa un cumulo di cenere
con solo la cassetta della posta intatta – giusto per farti capire che sì,
quella era casa tua.
Motivo per cui il castano
sospirò, sfregandosi gli occhi con le mani e ponderando una versione a metà fra
le due possibilità sopra elencate: «
penso di aver messo a mollo i piedi in un mare di guai »
disse conciso, gli occhi ancora coperti dalle mani, la testa sorretta dai
gomiti poggiati sulle ginocchia.
Mike sospirò. « E
quali sarebbero, questi guai? » domandò
successivamente, mettendosi comodo e rilassando i muscoli della schiena.
Vedere Andrew Collins in
quello stato era veramente destabilizzante, per il capitano. Cioè... se anche
il donnaiolo truzzo per eccellenza non solo della squadra, ma dell’intero
campus universitario, cominciava a mostrare segni di auto-considerazione e
coscienza, allora l’Apocalisse era veramente vicina.
Non lo disse solo per non destabilizzare
ancora di più l’umore già decentrato del castano. E poi perché non gli sembrava
particolarmente educato, ma quelli erano dettagli.
Andrew sospirò
pesantemente, scuotendo il capo. Prese fiato per parlare, ma fu Jake ad
anticiparlo con gli occhi sgranati ed una voce al limite dello sconvolto: «
non... non mi dire che alla fine è successo ».
Tre paia di occhi volarono
in sua direzione. « Eh? »
esalò Jeremy, interdetto dall’apparentemente immotivato stupore del difensore.
Il ragazzo dai capelli lunghi
– ancora intatti nonostante le minacce del coach – si portò una mano alla bocca
con fare a dir poco turbato. Gli occhi erano fissi su quelli straniti di
Andrew, che lo fissava come per capire se ci fosse o ci facesse. O entrambi.
«
Andrew... » momento di sospensione «
...aspetti un figlio? » domandò incredulo.
Attimi di silenzio
aleggiarono all’interno dello spogliatoio, provocando alle tre persone in
possesso di un cervello sano e funzionante una sorta di immobilità neuronale da
shock anafilattico, causato probabilmente dall’allergia all’ignoranza
dilagante.
«
Lewis, il modo in cui funziona la tua mente mi rende perplesso » si
limitò semplicemente a dire il capitano, chiudendo gli occhi e massaggiandosi
la tempia con indice e medio della mano destra.
«
Piuttosto, tu hai serie lacune di anatomia, fattelo dire »
intervenne Jeremy, il sopracciglio alzato su di un’espressione accigliata.
Andrew lo fissava semplicemente con la bocca distorta in un moto di disgusto.
Jake roteò gli occhi. «
No, non in quel senso. Volevo dire, finalmente hai abbassato la guardia e ne
hai messa incinta una? » riformulò la questione,
ignorando il capitano e la montagna umana per tornare a concentrarsi su Andrew.
«
Jake... io e te siamo stati compagni di banco e di squadra per anni. Pensi
davvero che io sia così disattento da fare una cosa simile? »
chiese allora il castano.
Il moro fece spallucce. «
Può capitare, no? » domandò retoricamente: « e
poi è l’unica cosa che mi è venuta in mente. Cos’altro c’è che va male se non è
questo? »
chiese, facendo sì che anche l’attenzione degli altri due presenti ritornasse
su Andrew.
Già, come dirlo? “Sakurai
e i suoi giochini da maniaco dell’elettronica rischiano di mandare a puttane la
mia borsa di studio, ecco che succede”. Per quanto se la ripetesse e ci
credesse, era indubbio che gente al di fuori del discorso Unseen (videogioco) non avrebbe creduto ad una singola parola.
Soprattutto al primo nome.
Ancora una volta, optò per
la sacra via di mezzo. « Oggi il coach mi ha
chiamato a casa » cominciò, pensando man
mano come far mandare giù la pillola senza raccontare troppe cavolate e, allo
stesso tempo, senza scoprirsi troppo.
Non era felice di
accodarsi, anche solo a parole, ad una banda di nerd patiti di giochi on-line.
Ok, anche perché capiva da solo che non era un discorso da farsi bevendo un
caffè al bar, ma soprattutto... perché non voleva ammettere di essersi accodato
ad una banda di nerd patiti di giochi on-line.
I tre presero l’introduzione
alla leggera. « Ok, capisco che sia quantomeno
inquietante... » cominciò Jeremy « ...ma
ancora non mi spiego l’ondata di depressione che ti ha investito e ha fatto
marcia indietro per essere sicura di averti stirato per bene »
ironizzò appena, ridacchiando della propria battuta.
Andrew roteò gli occhi,
decidendo però di continuare il discorso: « mi
ha cortesemente chiesto di presentarmi in ufficio per un errore di
verbalizzazione delle valutazioni dei primi esami che ho dato. Secondo la
segreteria, i miei voti non arrivavano alla media per poter mantenere la borsa
di studio » spiegò, alzando gli occhi per poter
osservare le reazioni dei suoi amici.
Mike, se togliamo un
sopracciglio di qualche millimetro più in alto del solito, sembrava abbastanza
immune alla rivelazione. Aprì la bocca per commentare ma, senza emettere alcun
suono, dopo qualche istante la richiuse.
Jeremy smise subito di
ridacchiare, ma si capiva dallo sguardo che non aveva inteso la gravità – anche
se solamente concettuale e non confermata – della situazione. D’altro canto,
almeno Jake aveva uno sguardo seriamente preoccupato. Effettivamente, essendo
quello che più di tutti i presenti conosceva Andrew e la storia della sua
famiglia, era anche colui che afferrava meglio la stranezza ed insieme l’importanza
della situazione.
E fu anche il primo a
parlare. « È
stata risolta? » chiese.
«
Sembra di sì » rispose Andrew: « ma
è strano, ok? Ho dato pochi esami, è vero, ma erano sbagliati tutti i voti. Di solito, uno crede ad un
errore di trascrizione se succede con uno solo di essi, non con tutti... »
buttò lì, non terminando la frase come avrebbe effettivamente voluto.
Cercò dunque di non
pensare ad Unseen, a Sakurai, all’uomo
che sparava proiettili anti-sommossa in un parco la sera tardi e alla teoria
che dietro a tutto quel casino potessero esserci le forze dell’ordine, o chissà
quale altra organizzazione governativa o anti-governativa che fosse.
Ancora una volta, il suo
cervello gli disse che era un povero idiota. Gli disse che doveva lasciare
tutto e continuare a farsi la propria vita senza entrare a far parte di
buffonate più grandi di lui.
Non stava abbandonando
nessuno. Semplicemente, si rifiutava di combattere.
Tutto qui.
Sakurai avrebbe capito, lo
sapeva. Avrebbe capito e lo avrebbe lasciato andare per la sua strada, lontano
dai guai, lontano dai problemi.
Sì... sì. Avrebbe capito.
Sakurai avrebbe capito...
«
Collins? ».
Si sentì chiamare
all’improvviso, e tirò su la testa con uno scatto.
Si era perso nei suoi
pensieri? Seriamente?
«
S-scusate, mi sono distratto... » borbottò come
scusa, per poi prestare attenzione a Jeremy, che lo aveva chiamato.
I tre interlocutori si
scambiarono un’occhiata preoccupata. Quel comportamento era troppo fuori dalle
corde di Andrew Collins.
Annuirono tutti e tre
l’uno all’altro. « Credo che faresti meglio
a tornare a casa, per oggi » consigliò poi il
capitano, osservandolo con serietà. « Se
non riesci a stare concentrato durante un discorso con noi, dubito riuscirai ad
esserlo durante l’allenamento » spiegò, con la
calma tipica di chi sa prendere in mano la situazione ed è convinto di se
stesso.
Il primo istinto di
Collins fu quello di ribellarsi. «
No! »
sbottò infatti, indignato: « fra poco comincia
il campionato! Non posso saltare l’allenamento solo per una cavolata
amministrativa! ».
«
Non è un “cavolata amministrativa”! »
intervenne però Jake, a sua volta deciso ad averla vinta sul castano. «
Per te è importante la borsa di studio, no? Hai detto tu di non voler far
pagare il college ai tuoi! » obiettò il moro,
alzando la voce.
« E
allora? Che cosa centra con l’allenamento? »
ribatté a sua volta Andrew, ormai sulla difensiva. Aveva capito il discorso
generale qual’era, ma non aveva alcuna intenzione di saltare l’allenamento per
un problema come quello. Era perfettamente in grado di lasciare quella
preoccupazione a crogiolare in un angolo della sua mente e non portarla in
campo.
Già... a crogiolarsi nel
calduccio dei suoi dubbi così, una volta abbandonato campo e pallone, sarebbe
riesplosa fra i suoi neuroni con ancora più potenza di prima.
Praticamente, si rispose
da solo. Ma Mike prese comunque parola.
«
Collins, seriamente. Non voglio essere responsabile di aver rotto il naso con
una pallonata alla punta di diamante della squadra solo perché era distratto e
si è dimenticato di saltare e prenderla di petto »
disse, inserendo nel discorso un’eventualità a dir poco dolorosa. «
Torna a casa, flirta con qualche tua ragazza e riposati. Domani sera tu sarai
più tranquillo, e io meno preoccupato di poterti fare accidentalmente del male »
terminò, sorridendo.
Anche se era solo un
consiglio spassionato, Andrew giurò che sembrasse una minaccia bella e buona. E
forse fu proprio quella sensazione a fargli decidere che era il caso di
demordere e tornarsene veramente a casa.
Annuì, sospirando. «
Ok, farò così » disse poi a voce.
I tre sembrarono vagamente
più rilassati. « Al coach dirò che non ti senti bene,
ok? »
disse Jake, già pronto per entrare in campo.
Andrew annuì di nuovo, e
quando Jake e Jeremy lo salutarono per raggiungere gli altri, anche lui fece lo
stesso, alzando la mano destra in un cenno abbastanza sfibrato.
Mike salutò a sua volta,
poggiandogli per qualche istante una mano sulla spalla prima di uscire dallo
spogliatoio e lasciarlo solo.
Cominciò a cambiarsi.
Ripose malamente la maglia e i pantaloncini da ginnastica all’interno del
borsone, riappropriandosi dei propri jeans e della maglietta. Tirò su la zip
della giacca con il logo dell’università e, chiuse tutte le cerniere del
borsone, se lo caricò in spalla uscendo dagli spogliatoi.
I suoi compagni di squadra
avevano già cominciato a correre i consueti giri di campo e si sentiva il
leggero chiacchiericcio di chi aveva abbastanza fiato per correre e parlare
contemporaneamente. Conoscendo il coach, comunque, molto presto non avrebbero
avuto abbastanza fiato nemmeno per respirare. Questione di minuti.
Incontrò lo sguardo
dell’allenatore, che alzò un pollice in sua direzione come per dirgli che aveva
già saputo e che era d’accordo. Per riflesso, Andrew alzò la mano destra in un
striminzito gesto di saluto, abbassandola subito dopo.
Non era tipo per rompersi
l’anima con pensieri inconcludenti. O meglio, non sempre.
Era successo poche volte
nella sua infanzia, un po’ di più nell’adolescenza, ma comunque molto meno
assiduamente di un adolescente medio; ne era sicuro. Ogni volta che succedeva,
però, c’era Ben alla finestra della casa accanto; c’era Ben da poter chiamare
con un fischio, come facevano di solito, e lui capiva subito che Andrew aveva
qualcosa che non andava, quando veniva alla finestra in risposta al richiamo.
Benedict era la cosa più
vicina ad un fratello maggiore che aveva, e adesso era a svariate centinaia di
chilometri lontano da lì. E, per non farci mancare niente, a quell’ora si
allenava e dunque non poteva nemmeno telefonargli e farsi bastare la sua voce
come calmante.
Decise di scrivergli un
sms. Qualsiasi cosa per non pensare ai suoi voti e alla borsa di studio.
Qualsiasi cosa per non pensare alla voglia che aveva di rinunciare e di mandare
a fanculo Sakurai e tutto il suo mondo fatato di psicotici e cyber-maniaci.
“Pensieri nevrotici in
corso” digitò sul cellulare “ho bisogno del sangue freddo di mio fratello”
completò per poi inviarlo, dirigendosi al contempo all’esterno del campo di
allenamento, in direzione del parcheggio.
Fu lì, a qualche passo
fuori dal cancello d’entrata, che fece un incontro strano.
«
Ah! Papà, papà, è lui! » gridò tutto eccitato un
ragazzino – che gli sembrava di conoscere, effettivamente – saltellando ed
aggrappandosi al braccio di quello che, a giudicare da ciò che aveva appena
detto il bambino, doveva essere suo padre.
Una bestia di padre, per
la precisione. Oddio, i culturisti erano di sicuro più grossi di lui, ma doveva
ammettere che anche l’uomo in questione non lasciava nulla all’immaginazione.
Una di quelle persone che
non vorresti contraddire mai, in poche parole.
Rimase imbambolato a
guardarli per qualche istante, salvo ricordarsi dove aveva già visto il
ragazzino saltellante che gli stava venendo incontro.
Porca vacca. Nathan. Il
fratello minore della sua personale rovina, nonché suo personalissimo
ammiratore numero uno – cosa che gli procurava un certo godimento narcisistico,
doveva ammetterlo.
Cercò la concentrazione
necessaria per far tornare i neuroni parte integrante di sé. Non sapeva dire il
perché tutta quella storia lo avesse turbato tanto, ma di una sola cosa era
sicuro: lo stava facendo fin troppo bene.
Era caduto in un muto
panico interiore. E diciamocelo, vedere gente qualsiasi in quello stato era
veramente una brutta idea.
Soprattutto se la “gente”
in questione erano il padre e il fratello minore della persona che ti ha
infognato nei guai che ti causano il panico.
Roba da suicidio, eh?
«
Ciao Nathan » salutò però, scuotendo appena il
capo. Non era con quel bambino che doveva prendersela, ma con il fratello
maggiore. Sì, lui una vittima ce l’aveva, non aveva bisogno di scaricare
l’adrenalina sulla versione mignon.
«
Ciao Andrew! » salutò felicemente il bambino,
correndogli incontro negli ultimi due passi. Poi, passata la gioia di aver
visto il suo idolo, il suo volto si oscurò. «
Come mai non sei in campo? » chiese,
visibilmente stranito dal fatto di vederlo fuori durante l’orario di
allenamento.
Andrew sorrise con
espressione colpevole. « Non mi sento tanto bene,
il coach mi ha mandato a casa per riposare... »
lasciò cadere, utilizzando il solito tono smorzato che si usa in certe
occasioni.
L’espressione di Nathan
variò su una sfumatura pallida che inquietò Andrew nel profondo. Almeno finché
non arrivò il padre: « oh cielo, cosa ti senti? »
domandò subito, e per quanto strana fosse la domanda fatta da un estraneo,
Collins non si sentì per nulla a disagio.
Quell’uomo aveva una sorta
di... aura positiva, intorno a sé.
Si sentì in dovere di
rispondergli. « Nulla di grave, un po’ di debolezza.
Non ho dormito molto bene questa notte »
rivelò, dicendo una mezza verità ma almeno evitandosi tutta la storia dei voti.
Storia che preferiva non ricordare nemmeno per se stesso, in realtà, e
cominciava ad essere giù stufo di raccontarla a chicchessia.
«
Ah, scusa se non mi sono presentato subito »
disse poi l’uomo, spettinando i capelli castani e sottili del bambino: « io
sono Brian, il padre di Nate » disse, tendedogli
la mano che Andrew strinse per riflesso condizionato.
« Io
sono... »
cominciò poi a sua volta, ma l’uomo lo fermò sul nascere.
«
Andrew. Lo so » disse sorridendo: «
questo ragazzino non fa altro che parlare di te in ogni minuto della giornata.
Sei il suo idolo, lo sai? » disse ridendo.
Non sapeva perché, ma
Brian aveva l’allegria contagiosa, più o meno come quella del figlio minore.
Era tutta un’altra cosa rispetto alla sensazione che dava Dan... più cupa,
più... profonda, rispetto a quella solare e leggera che si respirava in
compagnia dell’uomo-armadio.
Andrew annuì con una
risatina. « Sì, mi è giunta questa voce »
disse, facendo l’occhiolino a Nathan che, per tutta risposta, rise di gusto.
«
Beh, dovevo conoscerti prima o poi. A tavola, ogni sera, è una telecronaca di
tutti i tiri in porta che hai fatto agli allenamenti e negli ultimi due anni di
campionato; praticamente io e Clarisse sappiamo persino in che posizione metti
il piede prima del tiro! » esclamò Brian, ridendo
nuovamente.
Per proprietà transitiva,
Andrew collegò il nome “Clarisse” all’unica persona che gli mancava di quella
famiglia, ovvero alla madre di Dan e Nathan. Aveva il vago ricordo di un ombra
femminile alla guida di un fuoristrada, la sera in cui venne a prendere il figlio
alla stazione di polizia... ma non aveva per nulla in mente un viso vero e
proprio. Tentò inutilmente di immaginarsela, ma quando la sua mente rimandò
l’immagine di una versione femminile di Lance, lasciò perdere.
Una cosa doveva essere
sicura: Brian e Nathan non avevano lo stesso colore di occhi di Dan, dunque doveva
essere per forza la madre ad avergli passato quella particolare tonalità
tendente all’ambrato.
La conversazione cadde per
un secondo in un silenzio stagnante, dal quale Andrew pensò prontamente di
dover uscire. E quale modo migliore per farlo se non facendo una domanda sulla
prima cosa che si ha in mente?
E non era difficile, quel
giorno in particolare, capire cosa (o meglio chi) Collins avesse in testa; soprattutto se la combinazione di
eventi aveva fatto si che stesse proprio parlando con i parenti di quella
figura particolare che gli vagava in mente – e risvegliava buona parte dei suoi
istinti omicidi ancora sopiti.
Dunque, grazie a tutta
questa accozzaglia di sottigliezze, la domanda per togliere i piedi dal
silenzio imbarazzante gli venne anche abbastanza spontanea: «
Nathan, come mai oggi non sei con tuo fratello? Solitamente vieni sempre con
lui »
disse.
Padre e figlio si
guardarono per un momento e, mentre il bambino vestiva un’espressione vagamente
accigliata, il padre si stampò in faccia un sorriso palesemente stentato.
Cos’è, aveva colpito un
nervo scoperto?
Fu però l’uomo a prendere
l’iniziativa: « Nate, vai a vedere un po’
dell’allenamento, ti va? » chiese retoricamente al
figlio, indicando con il volto gli spalti del campo di calcio.
Nathan, con un
sopracciglio alzato, fissò per qualche istante il genitore. Probabilmente
voleva ribattere, ma decise saggiamente – o per semplice istinto infantile –
che forse era meglio fare come gli veniva detto e, con uno sbuffo abbastanza
sonoro, si diresse a passo pesante verso gli spalti.
Collins lo osservò
allontanarsi. In tutta sincerità non capiva la reazione di Brian, dato che
poteva essere frutto di due sole cose: o a Sakurai era accaduto qualcosa di
brutto, oppure... oppure boh. Riusciva solo ad avere pensieri pessimisti, in
quel momento. Chissà perché.
Di seguito ad un sospiro,
l’adulto attirò la sua attenzione. «
Andrew, posso chiederti in che rapporti sei con Dan? »
chiese.
Non seppe assolutamente il
perché, ma il sentirsi fare quella domanda fece mancare un battito al suo cuore.
In fin dei conti non gli
aveva chiesto niente di che – esclusa l’aria fin troppo seria che aveva
improvvisamente preso il discorso – ma aveva comunque il sentore di trovarsi
con le spalle al muro costretto a confessare l’inconfessabile. La sensazione
era quella, per quanto fosse fuori luogo.
«
I-in che senso? » chiese infatti,
deglutendo.
«
Sì, del tipo, che so, siete amici? » domandò
l’altro, mettendosi le mani in tasca con fare quasi infantile.
Lo guardò negli occhi, e
in quello sguardo lesse una punta amara di disagio. Ma non era disagio del tipo
che si prova ad essere in presenza di qualcuno di sconosciuto, era più che
altro quello che fa arrossire quando si parla di qualcosa che preferiremmo
tenere per noi, oppure di argomenti che richiedono delicatezza.
Tuttavia, Andrew ancora
non sapeva dove l’altro volesse andare a parare.
«
Beh... più o meno » disse, per poi cercare di
correggersi: « cioè... lui mi da una mano, beh...
per questioni informatiche, ecco »
balbettò scompostamente.
Era lo stesso discorso
dello spogliatoio. Non poteva di certo dire “guardi che il suo tanto adorato
bamboccio di figliolo mi ha tirato per i piedi finché non sono affondato in una
pozza piena di guai”, no?
Tuttavia, Brian parve
abbastanza soddisfatto della risposta, e di conseguenza sollevato. «
Meno male... » sussurrò, continuando poi: «
probabilmente ti starai chiedendo il perché di questa domanda... » domandò
abbastanza retoricamente.
Andrew annuì appena,
ascoltando.
« In
realtà sono un po’ preoccupato per lui » confessò
Brian: «
adesso è con Clarisse a scuola, oggi è arrivata una telefonata del preside.
Pare che abbia combinato qualcosa di grave ma io non riesco a crederci... Dan
non si è mai comportato così. Nemmeno prima di, beh... ».
Per un momento, l’uomo
lasciò cadere il discorso e guardò Andrew. Forse non sapeva se faceva bene a
raccontare quel lato di Dan, e sicuramente entrambi si stavano domandando
perché fra loro era nato quel tipo di conversazione. Dopotutto, Andrew non era
“amico” di Dan nel senso stretto del termine, e Brian non aveva ragione di
confidare quelle cose a qualcuno che nella vita del figlio non ricopriva
“esattamente” quel ruolo.
Oh, mettiamo le cose in
chiaro: Andrew e Dan erano poco meno che sconosciuti e Brian aveva preso il
castano come una sorta di confidente personale. Era così da qualunque parte la
si guardasse.
Ma Collins aveva già
ammesso a sé stesso che ogni cosa riguardasse l’Asociale (con la “a” maiuscola,
notare) era di suo vago interesse; forse non solo per curiosità, ma anche per
una intrinseca e malvagia parte di sé che continuava a sussurrargli
all’orecchio “apprendi e poi ricatta, le informazioni sono sempre utili”.
«
Prima di...? » incalzò dunque Andrew, sfoderando le
sue più sagaci abilità di persona in vista e attivando la modalità “affari
degli altri”.
Brian sospirò. «
Dobbiamo ammettere che è un po’ chiuso in se stesso »
disse gravemente.
«
C’è una parola per descriverlo » ribatté Andrew
piccato, infilando il coltello nella piaga.
Si sentiva in pieno
diritto di vendicarsi, ok? Un modo valeva l’altro.
«
Sì, ma non mi piace usarla » rispose Brian,
tirandosi indietro con la mano destra i folti capelli biondicci. «
Dicevo, non ha mai fatto niente di male. Eppure la gente continua ad accusarlo
di cose che... beh... non sono credibili ».
«
Del tipo? » chiese Andrew, ormai parte integrante
del discorso.
« Lo
sapevi che è stato espulso da due scuole, prima di questa? »
domandò Brian senza giri di parole.
Il castano rimase senza
respiro – anche se non lo diede a vedere. Negò con il capo senza aggiungere
nulla a voce, ma il cuore in petto aumentò i battiti.
Aveva un presentimento. La
sensazione sgradevole che quella faccenda centrasse con l’altro mondo. Con Unseen e con tutto ciò che si portava dietro.
Ma non era il concetto in
sé a spaventarlo, no... non era nemmeno l’associare l’elemento “Sakurai” al
termine “espulso”. Era piuttosto un pensiero molto più semplice, frutto di
un’associazione di idee.
Se
è collegato al gioco ed è successo a lui... può succedere anche a me?
«
Due anni fa frequentava una scuola privata »
precisò: « ...è
un ragazzo molto intelligente. Forse un po’ isolato, ma nessuno ci aveva dato
segno che avesse dei problemi e lui aveva voti più che discreti. Io e Clarisse
pensavamo che si trovasse bene, lì. Poi un giorno arrivò una telefonata dal
preside. Ci dissero che Dan aveva picchiato un altro studente, a quanto pare il
figlio di una persona importante... » fece
una piccola pausa, deglutendo. Andrew aveva l’impressione che l’uomo non fosse
completamente a suo agio, ma non riusciva a tirare fuori la forza per dirgli di
fermarsi.
Dentro di sé, sentiva che
quell’uomo poteva dare risposta ad alcune sue perplessità sulla figura del
giovane. Pian piano, praticamente, gli stava raccontando una parte ombrosa
della vita dell’altro che altrimenti non avrebbe avuto altro modo di conoscere.
Ormai non era più una
questione di venire a conoscenza di cose imbarazzanti. Ad un certo punto della
conversazione, Andrew Collins si era trovato genuinamente curioso di sapere
qualcosa di più, su quel ragazzo dagli occhi ambrati.
Si era ritrovato
volenteroso di riuscire a dipanare il mistero di Sakurai, almeno un poco.
« Lo
aveva massacrato, ok? Ci mostrarono le fotografie. La faccia era così gonfia
che non si riconosceva » disse, la voce bassa ma
dura. « Io
non ci ho mai creduto, e nemmeno sua madre. Certo, ne aveva le facoltà, ma Dan
è una persona molto legata alla disciplina e non avrebbe mai fatto niente del
gen- ».
«
Scusi, in che senso “ne aveva le facoltà”? » lo
interruppe Andrew, leggermente contrariato da quello che aveva sentito dire
all’uomo. Dava una visione di Sakurai che si discostava da quella che si era
fatto conoscendolo... per quanto astratta e minima fosse tale immagine. C’era
da dire che Dan non faceva trasparire molto di sé, dunque non doveva
sorprendersi se aveva preso fischi per fiaschi, tuttavia...
La spiegazione arrivò con
leggerezza, però. « Ah, Dan è un judoka. O meglio, lo era. Ha smesso di
fare Judo parecchi anni fa, ma credimi, ha ancora il cuore e la mente di un
atleta. Le arti marziali le ha sempre prese molto sul serio, e su Wikipedia c’è
scritto che chi le pratica deve avere anche una certa predisposizione mentale,
quindi... » divagò per un secondo, schiarendosi
la voce per ritrovare il punto del discorso: «
insomma, la faccenda si concluse con la sua espulsione. Non ci fecero pagare la
spese mediche perché la vera responsabilità di Dan non fu provata, ma il padre
del ragazzo scatenò un putiferio fra i genitori e alla fine Clarisse decise di
accettare l’espulsione e di iscriverlo in una scuola statale »
terminò il discorso, scrollando le spalle.
Judo. Ora si spiegava la
sua abilità nell’atterrare la gente così in fretta, così come la sua capacità
di controllare un personaggio che praticamente di basa solamente sulle tecniche
di combattimento per avanzare di livello.
«
Non finì qui, però » riprese poi Brian,
attirando di nuovo la sua completa attenzione: «
potevamo cambiargli scuola, ma la sua “fedina” era già sporca, per così dire.
Dan non disse mai niente, ma sono quasi convinto che fosse una sorta di sorvegliato
speciale dal corpo insegnanti. Era ogni giorno più silenzioso e distante, come
se non lo fosse già abbastanza... e io mi convincevo sempre di più che il
cambio di scuola non gli facesse bene, ma non avevamo altra scelta. Finché non
si ripeté la faccenda » esalò in un sospiro.
«
Picchiò qualcun altro? » domandò il ragazzo.
«
No, questa volta no... » disse l’uomo, riprendendo
subito dopo: « fu accusato di atti vandalici.
Durante la notte qualcuno otturò i lavandini dell’intero istituto, e al mattino
il seminterrato poteva benissimo essere paragonato ad un acquario. La scuola
rimase chiusa per due giorni e ci furono danni ai rivestimenti e agli interni,
per non parlare delle porte in legno che si erano gonfiate come spugne e non si
chiudevano più. Un disastro » si tolse una mano
dalla tasca dei pantaloni per massaggiarsi l’attaccatura del naso. «
Anche in quel caso la denuncia fu solo formale, però, ovviamente, presero di
mira Dan per i suoi “precedenti”. Non riuscirono a provare che fosse stato lui,
ma fummo costretti a fargli cambiare scuola. Adesso studia qui a Cleveland, ma
capirai che le telefonate da parte del preside sono un brutto segno in casa
nostra »
terminò del tutto, sorridendo stancamente.
Andrew non sapeva cosa
dire, né come esprimersi. Puntò gli occhi a terra, fissando un filo d’erba per
non permettere al principio di panico di impossessarsi di lui. Perché lì, le
cose dal suo punto di vista erano due:
1) In realtà Dan Lance era
un maniaco dedito a crisi di violenza causate da una qualche sorta di trauma
regresso, oppure;
2) in realtà la piattola
non centrava niente, il che voleva dire che era stato incastrato (e lui aveva
un’idea ben precisa di cosa potesse essere successo in tale frangente).
Insomma, si parlava di un
periodo di tempo relativamente breve... ed un giocatore, per quanto assiduo,
per far arrivare un personaggio a livello 70 all’interno di un GDR on-line ci
mette il suo tempo.
Combaciava quasi tutto.
Tranne il fatto che non sapeva qual’era la verità e dubitava che, ad una
possibile domanda, Lance lo avrebbe guardato con un gran sorriso e gli avrebbe
raccontato la storia della sua vita.
Era più probabile l’esatto
contrario.
Osservò nuovamente Brian,
che una volta terminato il racconto era rimasto a guardarlo come se fosse in
attesa di qualcosa. La sua opinione, probabilmente.
Cercò di inventarsi
qualcosa per ovviare al fatto che, conoscendolo effettivamente poco, il suo cervello
non aveva abbastanza dati per formulare un’opinione in merito.
O meglio, la sua testa era
annebbiata da una voglia inconcepibile di NON sentire parlare di Sakurai un
minuto di più. Era stato lui a cacciarlo in quel guaio, ed ora che sapeva che
poteva essere anche peggio di come gli si era presentata, la voglia di gettare
tutto alle ortiche e continuare con la sua vita era pressante come non mai.
Tuttavia, anche solo per
mantenere la sua fama di conversatore galantuomo, cercò qualche parola da dire.
«
Ammetto di non conoscerlo molto... »
partì, dicendo dopotutto la verità: « ma
non credo che sia il tipo da fare certe cose. Insomma... mi sembra un ragazzo
fin troppo tranquillo, per non usare la parola che a lei non piace sentire »
disse il castano, incrociando le braccia al petto.
Forse, anche se solo per
un minimo, il sentire queste parole face rilassare un po’ l’uomo. Sembrò
infatti più disteso e, come se nulla fosse, riprese a sorridere più
apertamente. « Grazie... »
disse poi « ...sentirlo dire da qualcun altro è
rassicurante, anche se non siete “proprio” amici »
disse facendogli l’occhiolino.
Dopo di che, si
salutarono. Brian si scusò per averlo trattenuto così tanto e, recuperando il
figlio minore, tornò camminando verso il parcheggio.
Sospirando pesantemente, a
sua volta anche Andrew si diresse in direzione della sua Ford.
E decise che, per il bene
della sua ragione, almeno fino alla sera avrebbe semplicemente smesso di
pensare.
C’è chi dice che la notte
porta consiglio, ma per lui non era mai stato così.
La notte era riservata,
nel suo immaginario pratico, o a dormite ristoratrici di almeno otto ore o ad
attività non propriamente di tipo ludico ma altrettanto divertenti.
Detto ciò si può capire
perché il fatto che fosse quasi mezzanotte, e lui fosse seduto a gambe
incrociate sul letto a fissare il cellulare, fosse qualcosa che andava fuori
dall’ordinario.
Come tutto da un paio di
giorni a quella parte, dopotutto.
E non solo nella sua vita
privata. A cena suo padre aveva l’aria più stanca e sciupata del solito. Non
aveva fatto le solite battutine raggelanti quando sua madre aveva servito la
spigola arrosto, limitandosi a mangiare in silenzio e a partecipare
distrattamente alle conversazioni che lui e sua madre avevano saltuariamente
intavolato.
C’era qualcosa che non
andava al lavoro, poco ma sicuro. E non voleva essere offensivo, ma in quel
preciso istante sentiva i problemi del padre come un peso in più sulle sue
spalle già abbastanza ricurve.
Ben non aveva richiamato.
Non aveva nemmeno risposto al suo sms. Lo faceva sempre, anche per le cazzate
più stratosferiche, invece questa volta no.
Aveva da fare?
Probabilmente sì. Aveva da fare fino a
mezzanotte? Non vedeva come, dato che non era esattamente tipo da uscire
con le ragazze il martedì sera.
Si morse il labbro
inferiore, mostrando segni di un’agitazione che non era da lui possedere.
Forse doveva chiamare
Sakurai, pensò poi all’improvviso. Dirgli che poteva benissimo riprendersi la
sua roba da realtà virtuale e farci quello che più volesse, l’importante era
che non ricomparisse a meno di cinquanta metri da lui.
Gli lasciava la facoltà di
portare il fratello minore alle partite solamente perché Nate era un suo fan, e
se non veniva era un peccato, ecco.
Arricciò il naso, tornando
a fissare lo schermo del cellulare.
«
Avanti Ben! Dove cazzo sei finito? » si
lamentò a voce, buttandosi sgraziatamente sul letto già abbastanza martoriato
(non ricordava di averlo rifatto, quella mattina) e rimase immobile ad
ascoltare il ticchettio dell’orologio a muro sopra la porta. Praticamente non
lo usava mai per leggere l’ora, e se ne dimenticava totalmente in tutti i casi
in cui nella stanza regnava il silenzio e si poteva sentire il ticchettio... ma
a volte diventava l’unico suono udibile, persino più delle macchine che
passavano in strada davanti a casa, o del volume della televisione in camera
dei genitori che aveva il potere di trapassare i muri. Ed era fottutamente
fastidioso.
Erano i momenti in cui lui
aveva addosso una percentuale di agitazione superiore alla sua soglia massima
consentita, e quello lo era.
Fu la suoneria del
cellulare ad interromperlo, risuonando violenta e facendolo sobbalzare. Con uno
scatto della mano prese l’affarino, lo rigirò per leggere il nome e, quando
lesse “Benedict” sullo schermo, prese un respiro profondo ed aprì la
comunicazione.
«
Alla buon’ora! » esordi con cattiveria.
« Oh, ti prego, non parlare come mia madre
»
disse Ben dall’altra parte: « mi ha tenuto al telefono una vita
raccontandomi le vicissitudini del forno a microonde, il mio povero neurone
adesso si crede un’onda termica ».
Andrew rimase in silenzio
per qualche istante. « ...cos’ha che non va il
microonde di tua madre? » chiese poi, inarcando un
sopracciglio.
« Ha che non va »
rispose Ben.
Collins sospirò
pesantemente, sentendo tutta l’agitazione e la voglia di fare del male
indistintamente a qualsiasi essere vivente scivolare via. Non poteva rimanere
serio se Ben parlava del microonde di sua madre, no?
«
Potresti dire a tua madre di farlo vedere a mio zio. Ripara macchine, ma ha un
certo feeling con qualsiasi elettrodomestico »
disse dunque il castano, sorridendo e prendendendo un’intonazione della voce un
tantino più dolce e rilassata.
Ben ridacchiò. « Glielo dirò domani, se la richiamo ora
rischio di rimanere incollato al telefono fino all’alba »
ironizzò.
«
Con me potrebbe andarti peggio, ti avverto... »
disse allora Andrew, lasciando cadere la frase.
« Vuoi davvero paragonarti a mia madre?! »
scherzò Benedict, per poi aggiungere: « avanti fratello, cos’è che ti preoccupa?
»
chiese con voce disponibile.
Eccola, la magia di Ben.
Era sempre così. Usava la disponibilità, era questa la sua dote: quando avevi
bisogno di lui, lui c’era, sempre.
E Andrew non poteva fare a
meno di raccontargli cosa gli succedeva. Senza montarsi, senza fare il
galletto, senza strafare e senza dover sembrare per forza una persona forte ed
affidabile.
Ben lo conosceva da quando
faceva a gara con l’amico dell’asilo per vedere chi si infilava più a fondo la
matita nel naso, ed era stato colui che, quella matita, gliel’aveva tolta
quando non voleva proprio uscire dalla sua narice.
Non poteva arrabbiarsi con
Ben. Erano fratelli d’anima, dopotutto, e si rifiutava di prendersela con la
persona che lo aveva sopportato per tutta la vita.
Semplicemente, gli
raccontò tutto. Dalla teoria di Sakurai agli ultimi avvenimenti
dell’università, dal racconto di Brian alla confessione di essere pesantemente
stressato ed agitato come poche volte nella vita gli era capitato di essere.
Come quando aveva dovuto fare l’appendicite e suo cugino aveva fatto la
cronologia di tutti gli interventi di appendicectomia andati a male dall’alba
della Medicina documentata fino ai giorni nostri.
Quando terminò il
racconto, Benedict rimase in silenzio. Per quasi un minuto.
Poi, quando Andrew stava
per sincerarsi che ci fosse ancora, finalmente prese parola.
« Devo ammettere che c’è una parte di me che
ti invidia, Andy » disse: « ma l’altra parte di me, e va per la
maggiore, è lievemente preoccupata della tua capacità di infilarti in
situazioni impossibili sia da credere che da immaginare »
sentenziò.
«
Non chiamarmi Andy » ribatté subito Collins,
per poi aggiungere: « con questo devo dedurre
che non mi credi? ».
« Ti ho sempre chiamato così e continuerò a
farlo. Così come ti ho sempre creduto e giuro su Dio che continuerò a crederti
».
«
Non si giura su Dio. »
« Allora sul microonde di mia madre »
ironizzò con tono serio, tanto che ad Andrew sfuggì una risatina. « Ti farò una domanda scontata: hai cercato di
parlare con... Numi, mi fa senso anche pronunciarla, una frase del genere! »
disse il gigante, suonando parecchio esaltato.
Andrew inarcò di nuovo il
sopracciglio. « La smetti di fare l’oca? »
esclamò.
« Sì, scusa. Dicevo, hai provato a chiamare
Sakurai? » chiese dunque.
«
Non ci penso nemmeno a chiamare Sakurai! »
esclamò però Andrew di rimando, sentendosi profondamente indignato: «
cioè, non c’eri quando ti spiegavo che tipo di persona è? ».
« Intendi dire quelle due ore che hai
impiegato a descrivermi per filo e per segno quanto anti-sociale fosse? Ammetto
che ogni tanto non ti ascoltavo ma sì, c’ero »
scherzò l’altro.
Andrew trattenne per un
pelo un paio di insulti. « Non sei divertente, Ben »
disse poi, gelido.
« Ehi, rilassati... »
cominciò allora il giocatore di football: « non per dire Andy, ma penso che qui l’unico
che ne sappia veramente qualcosa sia lui. Hai detto che ha affrontato già
parecchi guai del genere, no? Magari sa anche come darti una mano valida »
gli consigliò.
Andrew rimase in silenzio
per un po’ mentre lo ascoltava, massaggiandosi la tempia destra con l’indice e
il medio della relativa mano. « Ok, ok Ben, ora
ascoltami un secondo... » disse poi «
...questo è un discorso completamente diverso dagli altri. Secondo te può
esistere una persona che si rovina la vita per un cazzo di gioco di ruolo?! Io
lo trovo inconcepibile. Cioè... è stato espulso, va bene? Queste sono cose che
rimangono, non è che magicamente scompaiono quando hai in mano il diploma di
qualsivoglia scuola. C’è gente che non è stata presa al college per molto meno,
e lui manda a puttane le sue possibilità per un giochino su Internet?! Ben, TU
lo faresti? » chiese Andrew, alzando la voce in
sincrono con la sua personale frustrazione.
Dall’altro lato del
telefono, Benedict sospirò. « Andrew... » lo
chiamò, questa volta per nome « io non conosco Sakurai di persona, anche se
mi piacerebbe avere questo onore. Tu mi racconti la tua versione della storia,
dunque non posso farmi un’idea sul se sia o meno una persona con la testa a
posto, ma voglio che tieni a mente che ci sono certi individui per cui le
priorità della vita sono sfasate, rispetto alla gente normale. E anche tu, lo
conosci di persona ma non puoi dire di conoscerlo bene, no? »
disse.
« Smettila
di parlare filosofico e dimmi in poche parole quello che stai cercando di dirmi
» lo
interruppe Andrew: « odio quando parti con
questa tua filosofia zen sulle persone, lo sai che non riesco a starti dietro! »
sbottò.
« Questo perché hai lo spessore spirituale di
una foglia morta » ribatté l’altro.
«
Ben! ».
« Va bene, va bene »
sospirò « sto solo dicendo che non puoi trarre delle
conclusioni senza aver sentito lui cosa ne pensa »
riassunse per l’altro, evitandosi qualsivoglia uscita moralista.
Andrew ci pensò su per
qualche istante, fissando male un CD a caso del contenitore sul mobile di
fronte al letto, a fianco della scrivania. Aveva il frontespizio blu e non
ricordava assolutamente quale fosse o cosa contenesse, ma al momento era il suo
capro espiatorio. Avrebbe tentato di dargli fuoco con lo sguardo finché non gli
fosse passata la rabbia.
Dovette però arrendersi
all’evidenza della logica umanistica utilizzata dal fratello. Aveva un perché, dovette
faticosamente ammettere a se stesso.
« Va
bene, vedrò di farlo... » si arrese poi, portandosi
la mano sinistra sugli occhi. Si sentiva come preda di un fastidiosissimo mal
di testa, anche se di tale dolore non vi era l’ombra.
Ben ridacchiò. « Bravo il mio fratellino. Ora scusami, ma
domani giochiamo, è meglio se non mi faccio beccare dal coach ancora in piedi
»
disse.
«
Tranquillo, probabilmente andrò a dormire anche io »
rispose: «
grazie per la chiacchierata Ben, come al solito »
aggiunse sinceramente.
« Figurati. E poi c’è un lato positivo »
disse quello: « hai
notato che da quando hai conosciuto Sakurai ti perdi di più in ragionamenti
complicati e pare mentali? ».
«
...e questo sarebbe un bene? » chiese incredulo,
il sopracciglio inarcato per la terza volta nella stessa conversazione
telefonica.
« Dal mio punto di vista, sì. Magari un giorno
capirai » disse ridacchiando. « Dormi bene Andy »
aggiunse poi.
«
Anche tu »
rispose Andrew, chiudendo la chiamata.
Dopo un’ultima occhiata
allo schermo per vedere che ore fossero – mezzanotte e cinquanta, un orario
praticamente indecente – appoggiò il cellulare sul comodino e si lasciò cadere
di schiena sul materasso. Ormai non c’era più traccia d’ordine logico nelle
coperte del suo letto e il solo pensiero di dover dare loro un senso per
potersi coprire risvegliava il suo lato profondamente pigro, normalmente messo
a tacere da impegni improrogabili di natura scolastica e sportiva.
Stava giusto per trovare
la forza interiore di alzarsi e sistemare le coperte – per poi appropriarsi
delle sue meritate ore di riposo, giusto per spegnere un po’ il cervello –
quando fu lo stesso cellulare a dare segni di vita, squillando l’arrivo di un
sms.
Voltò il capo e fissò il
comodino. Poi ringhiò qualcosa sul fatto di non avere un braccio allungabile
quando serviva e, mangiato dalla curiosità di vedere chi fosse, si alzò con un
colpo di reni e riafferrò il telefonino.
Si aspettava una qualche
ragazza. Doveva ancora uscire con la cameriera del Rascal House, inoltre aveva
promesso un appuntamento ad altre due tipe incontrate nel campus del college.
Le sue speranze di una
chiacchierata piccante tramite sms furono violentemente distrutte dalla scritta
“Jake” come mittente.
Aprì il messaggio con
l’aria svogliata di chi si aspetta il solito sms-cazzata di una persona
profondamente annoiata dall’esistenza. Invece riuscì a stupirlo.
Il messaggio era breve ed
essenziale: “capitolo 16 pubblicato! Leggitela che ne vale davvero la pena, poi
domani ne parliamo!”.
I suoi neuroni, dal primo
all’ultimo, si bloccarono. I suoi occhi rimasero puntati per cinque minuti
buoni sulla cifra “16” nell’sms, finché non si risvegliò da quella sorta di
torpore nullafacente che lo aveva colto in fallo.
Era l’una di notte. Non
poteva accendere il computer proprio in quel momento, considerato che la mattina
successiva aveva lezione. E non poteva di certo continuare a saltarle in
eterno, no?
Avrebbe letto il nuovo
capitolo di Unseen – perché era a quella
fanfic che si riferiva il messaggio di Beatles, lo sapeva – l’indomani,
probabilmente al ritorno dall’allenamento. Ciò voleva dire a poco più di
diciotto ore da lì.
No. Qualcosa in quel
ragionamento non quadrava, e la sua razionalità faticava ad accettarlo.
Il talento, quella era
l’unica cosa che riconosceva a Dan Lance. La capacità di scrivere cose che
colpissero la gente nel profondo, che tenessero gli occhi e i cuori delle
persone incollati ai monitor dei rispettivi computer.
La narrazione era l’unica
nota positiva che una persona come lui, in una situazione come la sua, era in
grado di attribuire a Sakurai.
Sospirò pesantemente,
dandosi mentalmente del deficiente. Poi, una volta rimessosi in piedi, si
sedette di malagrazia sulla sedia della scrivania ed accese il portatile.
Ci mise un po’ più del
solito per accendersi, ma fu sul sito di fanfiction in quattro e quattr’otto.
Cercò velocemente la
categoria, cliccò sul titolo della fanfic e, tramite l’apposito menù a tendina,
arrivò all’ultimo capitolo.
Cominciò a leggere.
Come al solito, la
narrazione era talmente scorrevole e liscia da fare male al fegato. Però, ad un
certo punto, l’atmosfera del capitolo cambiò gradualmente. Divenne
maggiormente... profondo. E non era la stessa profondità filosofica che Ben
usava per le sue ramanzine; si trattava di qualcosa di molto più leggero,
intuibile, quasi... etereo.
I tre protagonisti erano
giunti, dopo diversi giorni di viaggio, ad una città mercantile. Accordandosi
per un punto di ritrovo si erano separati, andando ognuno in direzioni diverse.
Fu quando il leader del
gruppo arrivò alla fontana del paese che Andrew spalancò pian piano sempre di
più la bocca, incredulo di ciò che leggeva. L’introspezione dei personaggi non
era mai stato un problema per Sakurai, ma in quel capitolo era arrivata a
livelli diversi dal solito.
Si stupì, semplicemente.
Di ogni parola, di ogni pensiero e di ogni significato, che fosse nascosto o
meno non aveva importanza.
Scorrendo indietro la
pagina, rilesse il passaggio una seconda volta.
Si avvicinò piano
al bordo liscio della fontana, poggiandovi sopra le mani per potersi sporgere
con facilità oltre il marmo venato di bianco.
Nell’acqua, un
poco mossa dallo zampillare costante del grande spruzzo centrale, Etsuya poté a
fatica scorgere il riflesso del proprio volto.
I suoi pensieri
erano senza forma, proprio come quel riflesso: una macchia informe disturbata
dal proprio animo, tumultuoso proprio come quell’acqua che impediva
all’immagine di formarsi.
Per la prima volta
in quel lungo cammino, non era sicuro di cosa dovesse fare. Non era convinto
dell’utilità della propria presenza in quel regno, del proprio valore come
arciere e, soprattutto, aveva completamente perso fiducia nelle proprie
capacità.
Era stata la
sconfitta, pensò. Quella battaglia persa aveva affogato i suoi ideali nel
sangue e, da quel momento, qualsiasi suo pensiero si era perso nel mare oscuro
dell’incapacità, che lo soffocava come solo il buio più profondo delle notti
più oscure vi riusciva.
Per lui era
troppo. Non sarebbe stato in grado di sopportarlo oltre. La sua debolezza era
un fardello troppo grande da sopportare e l’incapacità, l’assoluta sensazione
di essere intrinsecamente inabile a portare a termine quel compito, pesavano
sulle sue spalle già abbastanza ricurve sotto il peso di altre colpe, di altri
fardelli.
Il tempo guarisce
ma non muta il passato.
Le menzogne
nascondono una verità che però non cancellano.
Lentamente, quasi
come se l’acqua fosse fatta di cristallo, allungò la mano fino a sfiorarne con
le dita la superficie. Quel tocco non cambiò nulla e l’unico risultato che
ottenne fu di bagnarsi le dita.
Così come il sonno
non era in grado di chetare l’agitazione del suo spirito ferito, il tocco di un
uomo non era in grado di immobilizzare la forza prorompente dell’acqua.
Fu in quel momento
che, per la prima volta, fra le pieghe dei suoi pensieri comparve l’idea della
resa.
« Etsuya! » si sentì poi chiamare da lontano. Voltando lo sguardo
in direzione del suono, notò Ri correre in sua direzione.
Si rimise diritto,
aspettando che l’altro arrivasse da lui. « Cosa c’è? » sussurrò poi, osservandolo.
« Guarda questo » disse il mago, mostrandogli uno specchio racchiuso in
una cornice d’argento zaffiri. « Il mercante che me lo ha venduto ha detto che
riflette il vero animo di una persona » spiegò.
Quando lo guardò,
lo specchio rimandò nitidamente la sua immagine. Vide la propria espressione
abbattuta e, osservandola, capì quanto potesse essere in errore, nel pensare di
arrendersi.
Così come l’acqua
non era l’unica superficie riflettente, la forza non aveva un’unica fonte. Era
stato incauto nel pensare di essere forte abbastanza da superare ogni ostacolo,
ma era anche vero che le sconfitte erano ciò che permettevano agli individui di
crescere.
Gli ostacolo sul
cammino potevano essere ancora molti, e forse anche più ardui. Ma non era
arrendersi al primo di essi, il modo più giusto per superarli.
Aveva ancora molta
strada da fare, lo capì in quel momento.
« Credo che quel mercante ti abbia ingannato, Ri » disse,
distendendo le labbra sottili in un sorriso leggiadro, « questo è un
comunissimo specchio ».
Portandosi una mano davanti alla bocca, Andrew
si appoggiò con la schiena allo schienale della poltrona, distogliendo gli
occhi dal capitolo.
Completamente scosso dalla lettura, fisso per
un minuto buono l’angolo della propria scrivania, poi una porzione qualsiasi di
moquette nel raggio della luce da tavolo.
Come poteva esserci riuscito, quel moccioso?
Descrivere così precisamente ciò che stava provando lui in quel momento, e
trovare al contempo una risposta che al contempo era un consiglio.
“La forza non aveva un’unica fonte”. Era come
dire “ehi, babbeo, datti una svegliata. Se ti fai abbattere da una piccolezza
del genere, significa che non possiedi niente per cui lottare”.
Si sentì uno scemo.
Ok, probabilmente erano tutte sue
elucubrazioni. Probabilmente era solo la sua personale interpretazione del
capitolo, o delle metafore, o persino delle parole usate da Sakurai nel
descrivere la scena.
Probabilmente era tutto un suo pensiero
sconnesso dettato dal sonno e dalla stanchezza e dall’ora schifosamente tarda.
Però. Però...
Esprimendosi in un ringhio sottovoce, incrociò
le braccia sul tavolo e vi nascose il volto.
Nel silenzio della casa, infine, brontolò le
ultime due parole della giornata.
« Fottiti, Sakurai ».
Tu e la tua maledetta capacità di usare le parole giuste al momento
giusto.