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Autore: Blue Drake    15/11/2011    1 recensioni
Questa è una storia senza futuro.
Questa è la storia di un passato senza coscienza.
Questa è la storia di un presente fra le ombre.
Questa è la mia storia.
Non sono sempre stato crudele. Non sono sempre stato freddo, cinico ed egoista. Un tempo non lo ero. Un tempo ero un bravo ragazzo, un ragazzo come tutti: normale.
Ma ci sono esperienze che cambiano la vita. Che ti strappano alla normalità, e ti privano di speranze e sentimenti.
Un tempo non era così. Un tempo io ero un uomo. Ed ora? Ora sono solo un'ombra...
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Dentro e Fuori dall'Agenzia'
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Capitolo 2

4 dicembre 1950 - Sainte-Croix de Verdon – PROVENCE

 

 

Macchine, con sirene e luci lampeggianti. Seri uomini in divisa. Il freddo del mattino. Il silenzio infranto.

Qualcuno bussò alla nostra porta, in una rigida mattina di dicembre. Qualcuno ci parlò di un incidente.

Tre uomini, forse quattro. Ma erano solo le sei, ed era ancora così buio che, ancora adesso, non sono sicuro di averli visti sul serio, o solamente sognati.

Fui svegliato da quelle luci fastidiose che, anche da lontano, irrompevano nella mia stanza, e soprattutto dai rumori. Strani, rumori che non avevo mai sentito prima, suoni stridenti, nella tranquilla e silenziosa campagna immota.

Mia madre, la ricordo benissimo, era seria più degli stessi uomini che restavano, immobili, sull'entrata. Poliziotti: questo erano. Uno di loro disse che mio padre era uscito di strada, lo disse in tono pacato, abbassando gli occhi sulle proprie scarpe – come se, quelle, avessero qualche cosa di interessante da mostrare -

Scesi le scale, quando quell'uomo scandì il nome di mio padre, un nome che era anche il mio. Scesi per sentire, ma quello che sentii non aveva senso. Per me non lo aveva, così cercai di fare chiarezza. Con l'innocenza, che allora mi apparteneva ancora, con il candore proprio di un bambino, chiesi spiegazioni, rivolto a mia madre, perché lei era la mia famiglia, ed un punto di riferimento, mentre loro solo estranei, che parlavano di argomenti incomprensibili.

«È papà? Loro hanno detto qualcosa di papà. Perché?»

«Fa' silenzio, Fran!»

Mi zittì subito mia madre – Lei era solita chiamarmi Fran. Jules, o peggio, François, erano nomi troppo... francesi, e la cosa la disgustava palesemente -

Ma ero un ragazzino curioso, ed in un certo senso anche sveglio. Sapevo che qualcosa non quadrava, gli abiti degli uomini fermi in casa nostra me lo dicevano, ed anche le loro espressioni contrite. Così insistetti;

«Ma loro dicono...»

«Ti ho detto di tacere, stupido!»

La voce di mia madre, quell'inflessione cupa, il tono appena appena incrinato, perfino il modo poco convinto con il quale mi dette dello stupido: tutto questo mi fece comprendere, infine, ciò che realmente era accaduto. Mio padre era morto.

Non lo dissi mai. Mai ad alta voce. Mai a nessuno, nemmeno a me stesso, anche se spesso lo pensai.

«Papà è morto»

Ripeteva la mia testa. Ma facevo finta di nulla, fingevo di non sentire quella voce che, incessante, ripeteva una litania amara. Parole che non volevo ascoltare.

Nemmeno quando fu ormai chiaro che non si poteva tornare indietro, nemmeno al suo funerale, lasciai che qualcuno, subdolamente, mi avvicinasse, per dirmi quanto fosse addolorato per la morte di mio padre. Non lo volevo sentire.

Non volli mai. Nemmeno ora, riesco completamente ad accettarlo, nemmeno a distanza di vent'anni. Ma allora, a quel tempo, ero solo un bambino, avevo una buona scusa per rifiutare la realtà: «Papà è morto».

 

Pensandoci ora, a posteriori e con il senno di poi, sarebbe stato mille volte meglio essere in auto con papà, quella mattina. Quanto dolore, quanti dispiaceri, quante ferite mi sarei risparmiato, finendo oltre quel guardrail insieme a mio padre ed alla sua automobile?

Tante, troppe. Solo ora, a distanza di anni, mi rendo conto di quanto sia difficile vivere, sapendo quello che so, vedendo il buio che c'è in questo mondo, scorgendone gli orrori, gli sbagli, i difetti, convivendo forzatamente con i rimorsi ed i sensi di colpa: i miei.

Difficile, duro, insopportabilmente doloroso. Un dolore che prosciuga l'anima, trasformandola in un arido deserto sconfinato.

 

Avevo amato la vita. L'avevo amata in modo totale e spensierato, seppure la mia fosse una visione molto limitata e privilegiata della vita.

Sapevo così poco, non ne conoscevo ancora ogni sfumatura, né tutte le varianti possibili. E forse, in fondo, era proprio per questo che l'amavo, incondizionatamente. Perché ne conoscevo solo la parte buona, senza ombre né sofferenze, senza quei cambiamenti che ne sono parte integrante.

Fino a che, quella mattina, mi portò davanti agli occhi innocenti di fanciullo tutta la vera crudeltà di questa esistenza.

Fu allora, credo, che la mia fiducia assoluta andò in frantumi, i quali si sparsero in mille piccoli pezzi per le gelide campagne.

 

Da quel momento tutto cambiò. Quello fu l'inizio della fine, il punto di partenza che, vent'anni dopo, mi portò di prepotenza sull'orlo di un profondo ed oscuro baratro di dolore e disperazione.

Quello stesso giorno, una parte di me morì con mio padre. A poco a poco, la mia innocenza si macchiò, finendo per ricoprirsi di infiniti strati di polvere, rabbia e sangue: il mio e quello che tutte quelle persone che ho tradito in questi anni...

 

   
 
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