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Autore: Ely79    18/11/2011    4 recensioni
Due momenti della vita di Petunia Dursley. I suoi pensieri, da bambina e da madre, nei confronti di una realtà che non può e non vuole accettare.
Storia partecipante al terzo turno del contest "Storytelling" indetto da Fabi_Fabi.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harry Potter, Lily Evans, Petunia Dursley
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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Lacrime nascoste
Autore: Ely79    
Titolo: Lacrime nascoste
Personaggi: Petunia Dursley, Lily Evans, Harry Potter.
Avvertimenti: one shot, missing moment
Genere: introspettivo
Rating: verde
Introduzione: Due momenti della vita di Petunia Dursley. I suoi pensieri, da bambina e da madre, nei confronti di una realtà che non può e non vuole accettare.
Pacchetto: Infanzia
Personaggi: Harry Potter, Petunia Dursley
Colore: Arancione
Un'infanzia felice è una cattiva preparazione ai contatti umani. Colette, in Michèle Sarde, Una vita libera e condizionata, 1978
Manic Street Preachers – If you tolerate this (your children will be next)
Prompt: acqua.
NdA: le citazioni della canzone sono indicate in grassetto. Petunia ragazzina è descritta spaventata dai poteri della sorella, ma arriva a scrivere una lettera a Silente per farsi accettare a Hogwarts. Da adulta è una ficcanaso, maniaca dell’ordine, che tratta malissimo Harry, pur avendo acconsentito a tenerlo con sé. In questa fiction ho cercato di immaginare la situazione dal su punto di vista. Da nessuna parte viene fatta menzione di eventuali incontri con Silente, quindi quelli riportati qui sono solo una mia ipotesi.



24 settembre 1969

Il pomeriggio volge alla sera, il sole cala oltre le cime degli alberi e dietro i tetti delle case. Una brezza lieve fa vibrare le prime foglie ingiallite. Alcune si staccano e fluttuano via, rincorrendo i refoli impertinenti che s’infilano nelle finestre socchiuse. Una bambina cammina quasi a ridosso del muro di un’abitazione. É rigida, impettita, fredda. La sua espressione parla di sgomento e rabbia repressa, di paura e dolore dissimulato. Troppo per una bambina della sua età. Canticchia sottovoce, fingendo di contemplare gli ultimi fiori rimasti nei vasi sul davanzale della sala da pranzo, ma in realtà scruta di sottecchi l’angolo opposto del giardino.
C’è una sedia appoggiata alla staccionata e, sopra questa, è inginocchiata un’altra bambina. Parla con qualcuno nella stradina di servizio. Ride. Scuote i capelli rossi, un’allegra fiamma nelle prime ombre della sera. D’un tratto, si volta verso la più grande, le fa cenno d’avvicinarsi, ma questa le volta le spalle, sdegnosa, e riprende a camminare.


Qui è tutto arancione. L’erba, i muri di casa, il viottolo, la porta sghemba e un po’ scrostata del ripostiglio. Quanto odio quella vernice piena di crepe che si sbriciola sempre e sporca per terra. Anche l’acqua nei sottovasi della mamma è arancione. Una volta ci intingevamo la punta delle dita per scoprire se le fate l’avevano trasformata in aranciata. Erano solo giochi di bambine. Giochi senza alcun fine. Giochi da abbandonare per poter crescere. Io l’ho già fatto, sono grande. Lo sono sempre stata, lo dice anche papà. Dice che sono più grande della mia età. Troppo più grande. Ha addirittura detto che, a volte, ragiono da vecchia. E questo perché guarda a te, continuamente.
Prendo un sottovaso e lo vuoto. L’acqua cade in una cascatella, scintillando e gorgogliando. Per un istante si mescola alla tua risata. Ridi sempre, anche adesso che sai di non essere normale. Anzi, ridi ancora di più, sembra farti piacere. Nonna Dahlia dice una cosa, la ripete in continuazione, ma figurarsi se le dai retta, tu:
«Solo due persone ridono ogni giorno : gli sciocchi e gli infelici».
Ha ragione, ridi sempre perché stupidamente hai accettato quello che c’è di sbagliato dentro di te. Crescendo te ne accorgerai: il tuo essere diversa, che tanto ti fa sentire amata e superiore a tutti adesso, ti terrà lontana dalle persone vere, dalla gente a modo, da chi ti vuole bene. Guarda il padre di Helen Jacobson: non parla mai con nessuno, veste sempre con gli abiti da lavoro, spaventa chi se lo trova vicino, anche sua figlia. Io però ho sentito la mamma di Tilly Mayer dire che fin da ragazzino era amato e benvoluto da tutti, qui nel quartiere. Era un esempio per chiunque, ma quando crescendo ha cominciato a cambiare, ecco che si è trovato solo, con una famiglia che lo tollera a stento e i vecchi amici che lo salutano a malapena. Helen è sempre triste quando parla di suo padre. Io sto smettendo di parlare di te, perché non voglio diventare come lei. Vuoi proprio che ti capiti la stessa cosa? Vuoi farci vergognare di te? Vuoi che la gente ti volti le spalle? Ma che senso ha? Sei infelice già oggi, perché nessuno deve sapere cosa sei, ti hanno detto che devi stare zitta, che è pericoloso rivelare quel segreto.
Per questo ridi, per far finta che sia tutto come prima. Invece le cose stanno in un altro modo.
Mamma e papà sono orgogliosi di te, del fatto che c’è tu possegga qualcosa che ti distingua dagli altri. Io invece, sono diventata insignificante, più di quanto già non fossi. Ti indicano e mi chiedono se sono felice che tu sia… quella roba. No, non lo sono. Provano a spiegarmi che non devo essere gelosa del fatto che tu sia “speciale”, che sia toccata a te questa “fortuna”, ma si sbagliano. Mi ferisce che siano tanto ciechi e che mi sbattano in faccia quanto poco valga per loro. Rifiutano di capire che a me non importa che tu sappia fare quelle assurdità. Non sono gelosa, detesto quelle cose.
Io ho paura. Mi fai paura perché non ti riconosco più. Chi è la bambina con cui divido la camera? Chi è che siede di fronte a me a tavola? Chi finge di aver preso per errore i miei calzini per avere una scusa per rivolgermi la parola? È ancora una bambina?
Nelle favole che leggeva mamma, le streghe erano tutte perfide  brutte, facevano del male alle bambine buone. Quelle che eravamo noi due. Credo lo facessero per invidia, perché loro avevano una vita orribile e, alla fine, morivano. Perché ti vuoi ridurre come loro? Pensavamo che le favole fossero chiuse nei libri illustrati, ma ora che sono realtà, preferisci guardare alla vita triste e grigia delle megere, piuttosto che quella spensierata e luminosa delle principesse.
Quando eri piccola piccola, ti tenevo per mano e tu mi seguivi felice. Volevi fare quello che facevo io, mi imitavi. Dicevi ti saresti comportata come me, perché volevi diventare come me. Ora stai scappando in una direzione che ti porterà lontano. Perché non vuoi essere più la mia sorellina? Perché vuoi diventare qualcun’altra?
La sera si avvicina, le ombre si allungano. È un tramonto d’autunno che sembra fatto di bucce d’arancia. Quelle che io e te mettevamo sui termosifoni del soggiorno, perché il loro profumo fosse una sorpresa per mamma e papà quando vi avessero messo piede dopo cena. Non lo faremo più. Mi rifiuto di farlo, perché significherebbe che il tempo e le cose hanno continuato a scorrere come il fiumiciattolo dietro la siepe. Non è vero. C’è stato un buco, un’interruzione, che ha stravolto tutto. Proprio come l’acqua del sottovaso, che se ne stava placida a rispecchiare il fondo del vaso ed ora si allarga in una pozza. Una pozza che sta già sparendo nella terra e di cui non rimarrà niente. È questo che rimarrà di mia sorella: niente. Ci sarà una persona che non conosco, che mi sorride dalla tua faccia ma che non sei tu.
Hai stravolto tutto, Lily.
È colpa tua.
Come hai potuto farci questo?
Sei in fondo al giardino, inginocchiata scomposta sulla sedia. Dondoli i piedi e le tue scarpe, un po’ sporche di fango, sono del colore dell’ambra. Sorridi e anche il tuo sorriso prende quel colore. Sei così felice del tuo essere diversa, della considerazione che mamma e papà ti stanno dando da quando hanno scoperto che sei strana.
Ma non lo vedi quanto è sbagliato quello che vuoi diventare? Perché per te, la nostra vita di prima, ora è vuota e senza senso? La routine ha fatto posto a novità che hanno stravolto le nostre giornate.
Oggi a scuola abbiamo avuto l’ora di scienze della terra. La maestra ha spiegato cos’è la forza di gravità. Ho pensato subito che la gravità ci fa tenere la testa bassa. O forse è solo la vergogna di essere giovani ed essere così inutili, perché non posso fare niente per riavere indietro mia sorella. Quella vera. Quella normale. Quella con cui giocavo in questo giardino.
Possibile che non ci sia un modo per riaverti com’eri? Mi manchi, anche se ti vedo ogni giorno. Forse hai solo bisogno di capire che quel mondo non ti appartiene, che non sei veramente come loro. Se ti accorgessi che non ti piace essere così, che non hai niente in comune con quelli... magari torneresti come prima. Hanno detto che fra due anni dovrai andare ad una scuola speciale. Potrei venire con te, mostrarti che hai sbagliato, che hai capito male quello che ti hanno raccontato, che sono cattivi e non ti amano. Ti convincerei che è giusto tornare a casa con mamma e papà e dimenticare questa storia della… questa faccenda.
Tu però non mi ascolti mai. Ascolti solo la voce di quel vecchio, che ha lodato le tue capacità. Aveva la barba lunga e bianca, occhialetti ridicoli, un cappello a punta sghembo e un vestito che sembrava la vestaglia di nonna Dahlia – quella con i girasoli e le spighe di grano -. Se fosse stato vestito di rosso, l’avresti preso per Babbo Natale. È sbucato dal niente, davanti alla porta di casa, parlando di te come se ti conoscesse da sempre. La verità è che di te non sa un accidente e ti ha ficcato in testa un mare di scemenze. Pericolose scemenze. Sei piccola e sicura che ciò che ti ha raccontato sia giusto, che sia quello che ti serve. Ho provato a spiegarti che sbagli, che quelle cose ce le avevi già e che queste non servono a nulla, tranne a farmi soffrire.
Scuoti la testa quando dico che devi smetterla di girare con quello sgorbio nero del tuo nuovo “amico”, un altro strambo come quelli che vuoi seguire. Gira attorno a casa nostra, da solo, con le spalle curve e lo sguardo cattivo. Scappa via come i cani randagi se qualcuno cerca di avvicinarlo. Gliel’ha insegnato sua madre, lo sanno tutti. Credo che pure quella donna sia strana: lui le somiglia, è dalla madre che ha preso. Chissà suo padre come si dispera, potrebbe capire come mi sento. E tu vuoi stargli vicino, dici che è speciale perché siete uguali. Sì, è vero. Siete uguali: il futuro vi insegna ad essere soli. Il presente ad essere raggelati ed impauriti. Perché siete degli anormali e potete stare solo fra di voi. Dovete nascondervi perché noi non possiamo capirvi. Mamma diceva qualcosa di uno Statuto di Segretezza. Gliene aveva parlato quel vecchio e l’altro uomo che era venuto con lui. Si sono raccomandati con insistenza che solo noi sapessimo. Noi e nessun altro. È una bugia, io lo so. Non è vero che non vi capiamo. È che voi avete paura. Paura perché sapete di essere sbagliati.


La ragazzina si ferma. La sua ombra si mescola a quella dei cespugli, mentre il cielo sopra la sua testa comincia ad assumere un colore rossastro. Raccoglie qualche bacca dalla siepe, minuscole palline nere, alcune secche e rugose.
«Tunia?» chiama una voce lì accanto, facendola trasalire.
Non si volta, sa a chi appartiene.
«Hai bisogno di me?» le domanda la piccola, allungando la mano accanto alla sua.
Vorrebbe partecipare a qual piccolo rito che precede la cena, ormai da anni.
Ma a quelle parole, la ragazzina ritrae il braccio. Fissa perplessa il suo sorriso innocente e sincero, da cui traspare il desiderio di volerle stare accanto.
Getta i frutti a terra e si allontana, irritata. Non riesce a capire perché quella bambina, che finge di essere sua sorella, si ostini a porle quella domanda. Sa perfettamente che non le serve nulla da una diversa. Nella sua testa, la bambina dovrebbe chiedere aiuto anziché offrirne.
Sale di corsa le scale, ignorando la madre che le chiama per la cena. Non le importa se verrà sgridata, ha deciso che non mangerà questa sera. Vuole trovare un modo per far sparire la magia da quella casa. Vuole riavere sua sorella.
In giardino, Lily raccoglie da terra le bacche. Le rigira fra le dita, pensierosa, per lasciarle cadere nella pozzanghera con piccoli tonfi. Chissà perché, quel suono la fa pensare alle lacrime che Petunia nasconde.

***

24 settembre 1989

Una donna si muove nell’oscurità della propria casa. Cammina in punta di piedi, le orecchie tese a cogliere qualsiasi suono giunga dalle camere da letto. Passa accanto ad una porta, da cui intravede un grosso fagotto di lenzuola, da cui sporgono mani e piedi. È suo figlio, che dorme profondamente, il respiro pesante e ritmato come una marcia militare. Gli abiti per la scuola  sono sparsi sul pavimento. Lei entra, silenziosa; li raccoglie, ripiegandoli con cura e posandoli sulla scrivania. Si avvicina al letto. Una smorfia a metà tra il corrucciato ed il severo piega i tratti del  volto tondo e roseo che fa capolino dal groviglio di stoffa. Lo osserva carica d’orgoglio. Ha un’aria decisa, sicura, molto più matura dei suoi nove anni. La stessa di suo padre.
Scende al piano inferiore ed apre la porticina che dà sul sottoscala. C’è un minuscolo ripostiglio buio, niente più che un ritaglio di spazio fra i muri. In basso, quasi sul pavimento, un grumo di oscurità si muove un poco. La donna accende una piccola luce di fronte alla porticina. È un altro bambino. Magro, capelli arruffati, dorme raggomitolato come un gattino su una branda che lo ospita a stento. Eppure il suo volto è tranquillo, quasi sereno. Se non ci fosse quella maledetta cicatrice sulla sua fronte, potrebbe sembrare un bambino qualunque. Il riflesso dell’acqua nel bicchiere posto su una traballante mensola disegna una lacrima pallida sulla guancia del piccolo.


Sembra piangere nel sonno, questo poverino. Mi viene da pensare che, da qualche parte dentro di lui, si annidi la consapevolezza di vivere una vita orrenda e che, di riflesso, la faccia vivere a noi. Sì, a volte credo sappia che sarà perennemente infelice. Meglio che lo capisca sin da ora: tu eri piena di gioia e felicità, una girandola di sorrisi. Ti amavano tutti, era sempre la preferita. E poi che cosa è successo? Da adulta hai vissuto come una fuggiasca, senza amici. Quando sei morta, chi ti ha pianto? Se fossi stata come me - silenziosa e schiva -, se fossi stata più a modo – meno risate, meno allegria -, se avessi rinunciato a quello che papà chiamava “dono”, saresti diventata una donna rispettabile. Avresti avuto una famiglia degna di questo nome. Una casa, dei vicini che ti avrebbero osservato con invidia. Ciò che ho io.
«E se potete tollerare tutto questo, i vostri figli saranno i prossimi a patire quello che ora tocca a voi!» ho gridato nella mia mente, il giorno in cui hai sposato quel Potter.
Mi guardavi sorridendo, nonostante sapessi che non avrei partecipato alle tue nozze. Speravi di farmi cambiare idea, ma sbagliavi. I tuoi poteri di diversa non ti permettevano di ascoltare le mie parole. Io avrei voluto aiutarti. Probabilmente non t’importava. Sì, deve essere così. Hai scelto di rovinarci tutti, consapevolmente. Me, mamma, papà. Persino tuo figlio. Hai rifiutato di essere come noi. Hai scelto di essere un’altra.
«Egoista» mormoro a denti stretti.
Lo hai marchiato ed ora tocca a me sopportare le sue stranezze. Tocca a me vivere cercando di nascondere il fatto che è diverso e sta diventando sempre più difficile. Inoltre sta sviluppando un brutto carattere, indolente, ribelle, capriccioso. Vernon vorrebbe mandarlo via, in un collegio lontano da qui. Ma cosa accadrebbe se cominciasse a fare quello che facevi tu? La gente lo guarda già adesso in maniera strana. Sembrano non aver creduto alla storia dell’incidente, alla nostra bontà d’animo nell’accoglierlo. Sembrano sospettare che in lui si annidi l’errore e aspettino solo il momento adatto per rinfacciarcelo. Anche se lo costringo a giocare sul retro, nascosto ai vicini, indovino i loro sguardi dietro le finestre, che frugano tra le feritoie della staccionata e le fronde delle piante, in cerca di un segno rivelatore. Gli ho dovuto persino proibire di rivolgere la parola a chi tenta di avvicinarlo, per evitare che dica qualcosa a sproposito.
Non voglio guai in casa mia, la gente deve impicciarsi dei fatti propri. Non sono come quella Normann, che si è lasciata sfuggire che suo figlio fa ancora la pipì a letto, anche se ha sette anni! O come i Cosworth, che fingono d’essere tanto per bene, ma so che non portano mai fuori l’immondizia nel giorno della raccolta e che neppure legano bene i sacchi. O ancora il signor Willoughby, che fuma di continuo anche se il medico gliel’ha proibito tassativamente. Nessuno deve sapere che lui è diverso. Non ha mai fatto nulla di bislacco, è sempre stato simile ad un bambino qualunque, solo più freddo, capriccioso e scostante. Ma non sarà mai come il mio Dudley e io devo evitare che tutti sappiano. Devo prevenire le possibili dicerie sul suo conto.
A volte, quando era poco più che un neonato e lo tenevo in braccio, ho pensato che stando con noi avrebbe potuto diventare una persona per bene. Con il buon esempio mio e di Vernon sarebbe potuto crescere decentemente, essere quantomeno accettabile  per la società. Invece no. È chiaro che certe macchie sono indelebili. Se sapessi che quella cosa può essere lavata via con un colpo di spugna, passerei mesi interi a strofinarlo. Lo terrei a bagno notte e giorno pur di strappargli di dosso l’abominio che tu gli hai trasmesso. Tu e quell’altro.
«Zia Petunia?»
Non è la voce di Harry a riscuotermi dai miei pensieri. Sono i suoi occhi. I tuoi occhi. Anche così assonnati, socchiusi in quel viso da diverso che era quello di tuo marito, sono i tuoi. Gli occhi di quella che era mia sorella, quella con cui chiacchieravo, con cui andavo a scuola. Una persona ben lontana da quella che mamma e papà lodavano e apprezzavano, ma di cui non potevano vantarsi.
«Hai bisogno di me, zia?» pigola, sbadigliando.
Mi domanda se ho bisogno di lui. Io non lo volevo affatto. Pur essendo innocente, pur non essendo stata sua la scelta di venire al mondo così, porta comunque addosso le bizzarrie di chi l’ha generato.
«No» rimbrotto. «Stai russando, dai fastidio a tutti. Smettila. Le persone per bene dormono di notte, diversamente da te» intimo, chiudendo rapida la porta.
Non ho una scusa migliore in questo momento. Nemmeno tu sei mai stata capace di inventarne, per mascherare ciò che eri. Avresti dovuto tacere, dimenticare tutto. Restare mia sorella.
Mi allontano dalla scala, sperando di scacciare quegli inutili ricordi.
Scorgo qualcuno nella via. Immagino sia la signora Figg in cerca di una delle sue palle di pelo, ma mi scopro a fissare disgustata un accattone, avvolto in stracci che spazzano il marciapiede. Tiene in mano qualcosa di sgualcito e, sicuramente, lurido. Facciamo tanto per mantenere l’ordine a il decoro, e nella nostra strada, questa notte un vecchio gioca con ritagli di giornale. Non oso pensare alla faccia di Vernon domattina, quando troverà le tracce di questo passaggio. La società sta davvero cadendo in basso.
Il mendicante si muove senza fretta, piegando di tanto in tanto un pezzo di carta che se ne va poi libero nell’aria. Si ferma sotto quel dannato lampione che ha una luce arancione, liquida e irritante. Perché non può emanare la stessa luce degli altri? Vernon ha chiesto tante volte all’amministrazione che mandasse qualcuno a sistemarlo. Non si può avere un sol lampione arancione.
Un groppo mi stringe la gola. Quello che ha appena lasciato la mano del vecchio è una specie di bizzarro animaletto: ha quattro zampe, il collo lungo e un’appendice sulla testa. Attraversa il prato correndo verso di me. Guardo intorno terrorizzata. Se qualcuno vedesse… No, no. Per fortuna dormono tutti. La brava gente di qui non ha i miei stessi problemi. Però non posso sentirmi sollevata. Forse sono io a non vederli, forse sono appostati dietro le tende, pronti a puntare il dito domattina, a farmi notare quella stramberia nel mio giardino.
Un ticchettio alla finestra mi fa chinare il capo. Tremo. Non posso crederci. Quel minuscolo oggetto bianco mi ha raggiunta davvero e punta sul vetro quelle che dovrebbero essere zampe. Batte sulla superficie come se chiedesse di entrare. Quello è… è…
Unicorno.
La parola riecheggia nella mia testa per mille volte.
Harry ne aveva portato uno in casa settimane fa. Diceva di averlo trovato per strada. Ovviamente non gli abbiamo creduto: aveva le scarpe sporche di terra ed erba, mentre l’origami era lindo e pulito. Lo conservava gelosamente accanto al suo letto e Dudley ha cercato di convincerlo a dividerlo con lui, per giocare insieme. Com’era prevedibile, la testardaggine di quel bambino ha avuto la meglio e il cavallino è finito in coriandoli. Ha accusato Diddy d’averlo fatto a pezzi, ma perché mai avrebbe dovuto? Mio figlio è un bravo bambino, vorrebbe solo un cuginetto degno di questo nome, piuttosto che un esserino strampalato e arrogante. I suoi tentativi di star vicino ad Harry sono così lodevoli! Perché tuo figlio non è come il mio? Sarebbe tutto più semplice.
Il vecchio mi osserva. So che mi ha vista, perché si è voltato verso di me. Fa un cenno col capo, un saluto. Lo riconosco. È uno di loro, aveva parlato ai nostri genitori quando cominciasti a cambiare. Perché è qui? Vuole distruggere la nostra tranquillità? Il nostro buon nome? Vuol far credere a tutti che siamo dei diversi? Dei mostri? Non bastano tutti i pensieri che ci siamo dovuti accollare?
All’improvviso, partono gli irrigatori.
Chiudo gli occhi e do le spalle alla strada, al giardino, al mondo.
Saprò di non averlo visto quando, riaprendoli, lui non sarà più lì, sul marciapiede. Cancellato dagli spruzzi. Scacciato dal silenzio di questa casa.
La mia casa.
La nostra casa.
La casa della famiglia Dursley.

Una nebbiolina sottile invade la notte di Privet Drive. Dietro la finestra del soggiorno, al numero quattro, non c’è più nessuno. L’acqua nebulizzata si posa ovunque, inzuppando lentamente le cose. Fiori, viottoli, un palloncino ormai sgonfio, una macchinina fracassata, un chewing gum sputato giorni addietro nel terriccio dell’aiuola. Una patina lucida riveste tutto, spezzettando la luce dei lampioni in minuscoli arcobaleni.
A poco a poco, l’unicorno sul davanzale della finestra si flette, si accascia. L’inchiostro delle parole stampate sbava e si allarga, mentre la magia lo abbandona. Accenna solo un ultima volta a sollevare il capo, in cerca del bambino a cui era destinato, prima che un minuscolo rigagnolo lo trascini giù, nell’erba. Al sorgere del sole, sarà solo una piccola chiazza di poltiglia pallida.
Nella sua camera, Vernon Dursley bofonchia qualcosa d’incomprensibile mentre la moglie si infila sotto le coperte con un sospiro. Il piccolo Dudley sogna con rabbia di un vecchio dalla lunga barba bianca, vestito d’arancione, che gli lancia contro maestri di carta che lo sgridano di continuo e che lui fa a pezzi.
Il piccolo Harry è rimasto sveglio. Siede con le ginocchia al petto nel suo lettino, le lenzuola strette attorno, gli occhi chiusi. Ascolta il ticchettare delle gocce che cadono dalla gronda della veranda della sala da pranzo. C’è un irrigatore, che Dudley ha quasi sradicato, che getta acqua proprio lì sopra. E sa che c’è un punto dove il canale è arrugginito e l’acqua cola piano, battendo sul pluviale di latta. Chissà perché, quel suono lo fa pensare alle lacrime che la zia nasconde.
   
 
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