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Autore: Querthe    17/07/2006    2 recensioni
Esseri che non dovrebbero esistere se non negli incubi, misteri e un po' di sano spargimento di sangue durante una caccia in cui i ruoli non sono mai definiti e di cui non sembra essere visibile una fine... Una quest per la salvezza di due razze, dell'umanità ignara e di un'anima marchiata da un'eredità non richiesta.
Ringrazio Alyssa85 per avermi prestato alcuni tratti del suo personaggio (Alyssa Morville) che usa in un gioco di ruolo e mi scuso per averne stravolto la psicologia, il passato e il futuro.
Alcuni riferimenti ai clan dei vampiri sono prese dalla mia poca esperienza con il gioco di ruolo "Vampiri the masquarade".
Il mondo in cui è ambientata la storia è praticamente il nostro, se non per pochi particolari che mi servivano per la trama o per l'ambientazione.
Genere: Azione, Dark, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Alyssa'
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Alyssa si aggirava per le tombe del cimitero osservando distrattamente le lapidi, i suoi occhi non vedevano i nomi, non vedevano i fiori, ma erano persi nei ricordi, momenti passati da così tanto tempo che si mescolavano uno con l’altro in una nebbia che la donna ringraziava per deformare e attutire i fatti che l’avevano portata ad essere quello che era in quel momento.
- Eppure, nonostante tutto, nonostante siano passati più di duecento anni, quel momento è ancora vivo nella mia mente come se fosse successo ieri. Già… Effettivamente ogni sera, ogni tramonto, tutto quello che mi è successo mi ricade addosso, e continuerà… Almeno finché Misha non mi ucciderà, dandomi la vera morte… - sorrise tristemente, sedendosi su una tomba di marmo grigio, accarezzando la superficie fredda e liscia, sfiorando la cornice di bronzo lavorata che conteneva la foto di un uomo con una barba curata e leggera, magro e dal naso aquilino.
Non era la prima volta che si fermava in quel punto, le piaceva osservare quell’uomo. Era come lui, come suo padre, il padre che le aveva dato la morte dopo averla salvata.
- Quanto tempo è passato? Troppo sicuramente, ma quel giorno di tanti anni fa me lo ricordo ancora adesso. Eravamo tornati, i miei genitori e i miei fratelli, da una gita nei dintorni di Parigi. Era bella quella città, forse sotto alcuni aspetti migliore di quella odierna, e amavo andarci, sentirmi viva, in mezzo a tutta quella gente, a tutti quei nobili che spesso frequentavano anche la corte del re. Noi no, eravamo nobilotti di provincia, i poveri nella categoria dei ricchi, ma comunque rispettati e riveriti nei nostri confini. Avrò avuto sette, forse otto anni quando successe… Già. Alfred aveva una ventina di anni, stava per sposarsi con quella vipera di Caroline, mentre Antoine amava ancora farmi gli scherzi sebbene papà gli avesse detto che era tempo per un quindicenne di comportarsi da persona matura quale era. La carrozza ci aveva portato senza problemi nella nostra villa, posta al centro dei nostri possedimenti. Eravamo dei latifondisti, assurti al rango di nobili grazie a mio nonno, che aveva comprato il titolo da un disgraziato che si era mangiato tutto per il gioco e le donne. O così credevo. Era quasi buio, il tramonto si stava spegnendo all’orizzonte lanciando lunghe ombre scure e rosse sulla terra, ombre che si erano avvicinate troppo al cancello, quella sera. Tartaro e Cerbero, che fantasie per i nomi di cani da guardia, avevano iniziato ad abbaiare come se avessero visto il Diavolo in persona, ma smisero prima che mio padre, che stava leggendo in biblioteca mentre la mamma mi raccontava una favola e i miei fratelli si sfidavano a carte, si alzasse per controllare. Un coniglio, disse, o una volpe in lontananza. O dei lupi armati di lame taglienti, rosse per il sangue delle gole dei cani, sdraiati per un sonno senza risveglio. Loro sono stati i più fortunati. Aspettarono il buio, aspettarono che la casa si addormentasse nel silenzio come facemmo noi. Non so se fu un caso, se forse papà se lo aspettasse, ma rimase sveglio a lungo dopo che fummo andati a letto. Lo sentivo muoversi irrequieto nella stanza sotto la mia. Non mi dava fastidio il suo muoversi tra i libri, tra quei pesanti tomi rilegati che sono stati sempre la mia passione, anche quando non sapevo leggere. L’odore del cuoio lavorato, quella sensazione strana di toccare con le dita qualcosa che protegge il sapere e le facezie, che racconta chi lo ha tenuto tra le mani, chi lo ha riverito e chi lo ha disprezzato è qualcosa che ancora oggi mi rilassa, mi attrae anche in questa epoca di elettronica e di digitale freddo, insensibile. Lo sono già io, voglio il caldo attorno a me. E anche quella sera volevo il caldo abbraccio della coperta, delle profumate lenzuola e del morbido letto, ma qualcosa nell’aria mi impediva di prendere sonno, per cui lo sentii muoversi ed aprire una delle finestre, come se avesse visto qualche cosa che non gli piaceva o che lo aveva spaventato o irritato tanto da prendere con sé la spada lunga e sottile che custodiva nella vetrinetta che cigolava quando la aprivi. Sentii la porta di casa aprirsi e chiudersi, e del trambusto nella stanza di mia madre. Mi ricordo che mi alzai, la lunga camicia da notte bianca come la neve, una di quelle che la mamma aveva smesso e che mi aveva sistemato per le mie misere misure dopo che avevo insistito per giorni, i piedi scalzi sul freddo pavimento di pietra lucida. Mi avvicinai alla porta, ma questa si spalancò di colpo, facendomi urlare e indietreggiare, le lacrime agli occhi. Mia madre era sulla porta, i lunghi capelli biondi che uscivano in ciocche dai lati della cuffia da notte, lei così precisa ed elegante anche nelle situazioni più informali. Stavo per chiederle cosa stava succedendo, ma lei mi prese tra le sue braccia e mi sollevò, stringendomi al suo petto così forte che mi spaventò ancora di più invece che calmarmi. Stava singhiozzando, era terrorizzata, lo potevo sentire nei tremiti dei muscoli, nello sguardo fisso e nelle frasi spezzate. Le chiesi di Antoine e di Alfred, ma lei non rispose, uscendo dalla stanza con me senza nemmeno chiudere la porta. Le ripetei la domanda, ma lei mi mise una mano sulla bocca, pregandomi di non parlare. Mi portò di corsa in una delle stanze degli ospiti, una di quelle che nessuno aveva mai usato perché non era mai stata completata, e ormai era diventata una sorta di ripostiglio per tutto ciò che non serviva, che si era rotto o che stavamo aspettando di buttare. La mamma mi mise giù, chiuse la porta dall’interno e si diresse sicura al camino, ingombro di pezzi di legno, una gamba di un tavolo e un arazzo strappato. Li rimosse velocemente, quindi spinse uno dei mattoni che si trovavano sulla parete di fondo, e l’intero pavimento del camino si abbassò come una botola. Piangendo e chiedendomi continuamente scusa mi calò nel piccolo locale sotto il camino, dicendomi di stare tranquilla e che sarebbe venuta a riprendermi appena tutto fosse finito. Prima che io potessi riprendermi da quello che avevo appena visto la botola sopra di me si richiuse, lasciandomi al buio più totale, e sentii che mi madre aveva riposizionato i legni e il resto sopra la botola. Non so quanto tempo rimasi in quella piccola stanza, le gambe piegate e braccia avvolte attorno alle ginocchia, singhiozzando come una stupida bambina quale ero, ma alla fine sentii nuovamente dei rumori nel locale sopra di me. Mi ricordo che sospirai e bloccai il mio respiro, incerta se mettermi a gridare o se rimanere in perfetto silenzio. Decisi per la seconda ipotesi, ma non potei fare a meno di gridare quando vidi la botola aprirsi e il volto di uno sconosciuto affacciarsi. Non sorrise, quell’uomo sulla cinquantina, il viso affilato, solo dei baffi leggeri e un pizzetto nero che si intonava con i capelli leggermente brizzolati. I suoi occhi erano due buchi neri, non riflettevano la luce, non avevano colore o riflessi. Non sorrise, ma allungò il braccio e mi prese per la vita, sollevandomi con una mano come se fossi un fuscello, posandomi sul pavimento freddo della stanza. Non disse una parola, si girò e si diresse alla porta. Era vestito di nero, velluto nero e camicia bianca all’ultima moda. Si girò e mi fece segno di seguirlo. Gli chiesi chi fosse, e dove fossero i miei genitori e i miei fratelli. Lui sorrise, un sorriso che fu come una pugnalata, e mi rispose che non volevo saperlo, e che dovevo seguirlo se volevo evitare di morire davvero. Gli richiesi dove fosse mia madre, iniziando a piangere, e non mi mossi dalla stanza. Lui aprì la porta e mi chiese se volevo davvero vedere mia madre. Io annuii, gli occhi bagnati dalle lacrime. Lui sorrise di nuovo, e mi disse di seguirlo, che mi avrebbe portato da lei, se insistevo tanto. Mi tese la mano e io la presi, sebbene titubante. I corridoi erano silenziosi, troppo silenziosi, come se qualcosa o qualcuno li avesse coperti con un manto di silenzio. Dietro una curva vidi qualcosa che ancora adesso mi è restata in mente vivida come una fotografia. Il corpo di un uomo, uno degli aggressori, era per terra, la testa fracassata contro il muro del corridoio, una rosa di sangue e di cervella che stava rapprendendo attorno al cranio ridotto come un melone maturo colpito da una mazza. Gridai, ma lui non si scompose, passando davanti al cadavere e costringendomi a camminare, trascinandomi con lui fino al salone di ingresso. La porta principale era aperta, il corpo di un ragazzo, che riconobbi immediatamente come Antoine la teneva aperta, riverso, la faccia verso il pavimento. Gridai e tentai di correre da lui, ma lo sconosciuto mi bloccò semplicemente con uno strattone, senza mai lasciarmi la mano. Mi disse che mia madre era nella biblioteca, vicino a mio padre. Gli dissi che non volevo vederla, che se era morta non volevo vederla per non crederci, ma lui scosse la testa lentamente e mi sollevò solo per il braccio, facendomi male. Mi disse che gli avevo chiesto di vedere mia madre, e ora l’avrei vista. Lo spettacolo fu raccapricciante. Era stata uccisa, dilaniata mentre mio padre era stato inchiodato per le mani ad una parete. Era ancora vivo quando lo sconosciuto è arrivato, lui me lo disse, e lui lo uccise, per farlo soffrire meno. Non avevo più nessuno, mi spiegò, tutta la mia famiglia era stata uccisa solo perché si erano alleati con le persone sbagliate, ma avevo ancora una scelta. Lui poteva uccidermi, o poteva tenermi in vita. Per sempre, per cercare la vendetta, per rifarmi un’esistenza. Mio padre era riuscito a strappargli la promessa di salvarmi dagli assassini, e lui lo aveva fatto, uccidendo gli assalitori, ma quello che mi aveva proposto era oltre il patto tra lui e mio papà. Io non sapevo cosa dire, ero rimasta a fissare il corpo martoriato di mia madre, dimenticando che fine poteva aver fatto Alfred, o perché era successo tutto ciò, o chi era quello sconosciuto. Le lacrime non volevano scendere, erano troppo spaventate anche loro, ma l’uomo mi scosse una spalla, obbligandomi a guardarlo in viso. Mi chiese se volevo morire in quel momento, e io scossi la testa. Lui fece una smorfia, non so ancora oggi se fu contento o se si era rammaricato anche solo per un istante sapendo a cosa andavo incontro, e mi prese tra le sue braccia. Istintivamente mi aggrappai al suo collo cingendoglielo. Notai che era freddo, era senza calore come un cadavere. E non mi ero poi così tanto sbagliata, quella notte. Il mio nuovo Padre si dimostrò gelido come la pietra, ma mi insegnò bene il mestiere, e divenni un’ottima ladra e una discreta assassina, visto che quello era il suo lavoro e stava divenendo anche il mio. Poi un giorno accadde un fatto inaspettato. Io ero rientrata prima del previsto, e mi era venuto in mente di tendergli un tranello, una sorta di scherzo che spesso lui mi aveva giocato. Mi nascosi accuratamente, e lui non si accorse di nulla, quando entrò portando con sé il corpo di un giovane che poteva avere la mia età, circa ventitre anni. Lo adagiò sul suo letto, potevo vedere che respirava tranquillo come se fosse addormentato. Padre lo guardò, quindi sorrise, un sorriso a labbra aperte, il primo dei due che vidi, quindi si avventò sul suo collo come un animale feroce. Il giovane ebbe uno spasmo, quindi mugolò come di piacere, e si rilassò. Dovetti ricorrere a tutte le mie forze per non fare rumore, ma quando alzò la faccia, mostrando le labbra, il mento e parte del naso sporchi di sangue non potei fare a meno di emettere un grido, che subito attrasse la sua attenzione. Come un lampo si diresse al mio nascondiglio e mi scoprì. Non so chi fu più sconvolto, se io o lui, ma quello fu il giorno in cui io scoprii che i mostri, le leggende erano solo una strana realtà, e tre anni dopo ottenni il dono di vivere seppure morta. Ora capisco perché non voleva acconsentire, e della sua frase che mi disse quando mi morse per trasformarmi. E’ proprio vero, a questa morte non si può sfuggire nemmeno uccidendosi. Poi un giorno lui non tornò al nascondiglio, di lui persi le tracce, finché un giorno…
- Alyssa. Ci sei? Terra chiama Vampira. Rispondi Vampira… - ridacchiò una voce femminile alle sue spalle, rompendo il filo dei suoi pensieri.
- Rose? Che diavolo ci fai qui? Lo sai che se ti vedono ti trattano come un antipasto.
- Non ti preoccupare, ho un paio di trucchi nelle maniche. Sei più macabra del solito. Cosa ti è successo? – chiese la donna, una trentenne dai lunghi capelli neri raccolti a treccia, vestita con una tuta comoda nera e con un piccolo zaino in spalla.
- Niente, niente. Tu sei già di ritorno dal lavoro?
- Già. – ridacchiò l’umana, mostrando lo zaino. – Quella signora dovrà rifarsi la collezione, mentre io ho qualche ninnolo in più. Ti va qualcosa da bere? Offro io.
- Spiritosa. Ma comunque è meglio andarcene. Sei in pericolo qui.
- Andiamo da te. Forse riesco a farti tornare il buon umore… - disse maliziosa facendo scendere lentamente la lunga zip della tuta scoprendo la pelle bianca come la luna fino all’inizio dei seni.
- Stupida… - ridacchiò la vampira.
   
 
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