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Autore: ValeEchelon    24/11/2011    4 recensioni
" Ogni giorno viveva, con la consapevolezza che da un momento all’altro poteva non esserci più, non che la cosa la preoccupasse, intendiamoci: non aspettava altro, voleva morire, evaporare, andarsene da questo schifo di posto, e sebbene non credesse né in Dio, né in nessuna delle puttanate che si predicava, lei in realtà sperava in qualcosa. Sperava di poter vivere un’esistenza decente, almeno da morta, visto che da viva la sua vita aveva fatto schifo."
Dal primo capitolo.
Genere: Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I giorni passarono e per Sophie era sempre peggio: capogiri, perdite di memoria, debolezza fisica e spossatezza la accompagnavano nelle sue giornate buie e difficili, giornate fatte di droga e stato di incoscienza, giornate troppo lunghe per una vita così breve.
Qualche giorno dopo l’incontro con Sasha, Sophie ebbe un improvviso malore che, oltre a quelli ordinari, la costrinsero a chiedere parere ai medici, ancora una volta. Lei odiava i medici, si sentiva in trappola con loro, si sentiva come una bestia nelle mani del macellaio in attesa di essere uccisa, odiava la loro presunzione di riuscire a salvare vite già distrutte, danneggiate e infine recise; per lei il solo combattere per la vita era assurdo, impossibile e addirittura ridicolo.
Che senso aveva sfidare la morte?
Che senso aveva cercare di combatterla pur sapendo che è una battaglia persa in partenza?
Che senso avevano le medicine assunte ogni giorno per combattere il dolore quando queste lo alimentavano?
Che senso aveva provare a salvare qualcuno che è già condannato?
Che senso aveva la loro compassione?
La loro determinazione?
Niente di tutto questo aveva un senso per Sophie, nessun senso.
Gli ospedali, col loro odore ed il loro clima di speranza, sofferenza e attesa, con mille sogni e mille padroni diversi, con migliaia e migliaia di flebo e medicine, che senso aveva?
Nessuno, sosteneva Sophie, proprio nessuno.
Clara invece, sua madre, era convinta che tutto si potesse risolvere, che anche il male più grave era curabile, che era necessario, se non addirittura indispensabile, avere fede nei dottori, nelle cure e nelle terapie, e soprattutto credere e pregare Dio che, nella sua infinità bontà, avrebbe aiutato i suoi figli.
Non c’era cazzata più grande per Sophie.
Clara cercava di farle cambiare idea, sui medici e sugli ospedali, su Dio e sulla religione, dicendole che se anche Dio non avesse potuto salvarla, di certo le avrebbe salvato l’anima assolvendola da tutti i suoi peccati e portandola con Lui.
“Vorrei farti conoscere delle persone- le aveva detto un giorno mentre prendevano il tè analizzando i risultati degli esami del sangue- Vorrei farti capire quanto è bello aiutare qualcuno, quanto è fondamentale la loro presenza per i malati, che guariscono solo standogli accanto. Sono ragazzi della tua età, Sophie, potrebbero essere tuoi amici,sono così dolci e intelligenti!”
Le strinse forte la mano guardandola in quegli occhi azzurri circondati da profonde occhiaie e collocati in quel viso pallido con gli zigomi troppo pronunciati; Sophie l’aveva guardata intensamente e s’era specchiata negli stessi occhi della madre, poi però aveva distolto lo sguardo e s’era alzata, andando verso la finestra che dava sulla strada fiocamente illuminata e coperta da una coltre di nebbiolina grigia. Il suo fiato caldo, a contatto col freddo vetro, lascia un grande alone davanti alle sue labbra sottili.
“Mamma, sai come la penso- aveva iniziato- Non mi importa di questa gente, non mi importa di quanto bene abbiano fatto e di quanto siano gentili. Non possiamo cambiare le cose, noi non siamo in grado di ribellarci alla morte. Il mio destino è questo, questa è la mia fine.”
Clara deglutì, posando la tazza di tè che stringeva fra le dita curate e chiare, e prese a lisciarsi silenziosamente la gonna cremisi.
“Non credo in Dio- continuò lei- e se tu credessi davvero come dici di fare, non mi diresti di combattere ma mi diresti che anche la mia malattia fa parte del suo progetto, del suo disegno imperscrutabile, e come tale noi non possiamo far nulla per cambiarlo. Sono malata, non si sa né il perché né chi l’ha voluto, ma è la realtà e come tale va accettata. Non voglio illudermi, non di nuovo mamma. Sto morendo lentamente dentro, accettalo.”
I suoi occhi azzurri e lucidi brillarono al buio e Clara, in tutta la sua compostezza e raffinatezza, si alzò dirigendosi al pianoforte scuro che c’era al centro della stanza e iniziando a suonarlo. Le dita sottili e affusolate sfioravano appena i tasti, creando una melodia dolce ma al contempo struggente, una melodia che portò Sophie al pianto, un pianto silenzioso che si protrasse per tutta la notte.

I passi rimbombavano nella stanza grigia e asettica del dottore, uno dei tanti che seguivano Sophie, un anonimo uomo di mezza età dai capelli castani brizzolati e dalle lenti spesse come fondi di bottiglia che gli dilatavano gli occhi facendolo sembrare più minaccioso che rassicurante, che parlava do gruppi sanguigni e trapianti riusciti.
“Potremmo fare richiesta- diceva alla madre di Sophie- Potremmo anche riuscire ad avere l’autorizzazione però ci sono poche possibilità per lei, comunque. Un trapianto di midollo è una cosa delicata e dolorosa e non penso che il corpo della signorina Schneider possa reggere l’intervento.”
Si era tolto gli occhiali e stropicciato gli occhi per poi seguire Sophie con lo sguardo, la quale sembrava totalmente assorta nei suoi pensieri ed estranea al discorso, che camminava avanti e indietro per la stanza quasi volesse misurarla.
“Sophie?- aveva sussurrato la madre- Tu cosa ne pensi?”
Lo aveva detto debolmente, cercando di non turbarla, proprio come si fa quando non si vuole svegliare qualcuno, cercando di insinuarsi piano nei suoi pensieri e chiedere gentilmente il suo parere, così naturalmente che sembrava gli avesse chiesto che colore preferisse tra bianco e nero piuttosto che la possibilità di fare un trapianto di midollo.
La ragazza si era fermata di colpo, si era girata verso la madre che, alla vista dello sguardo sprezzante della madre, aveva chiuso lentamente gli occhi cacciando indietro le lacrime.
“Sophie non vuole- disse interropendo il flusso di interrogativi che occupavano la mente del medico, cercando di mantenere la voce bassa e non farsi attraversare dalla paura.- Vuole smetterla con la chemio e lasciarsi andare. Vuole morire! Non lo capisci che se c’è una possibilità, anche solo una, dobbiamo sfruttarla?”
Si girò improvvisamente verso lei, la guardò con uno sguardo pietoso e triste, e continuò.
“Hai solo ventitré anni, sei una bambina, la mia unica bambina. Sophie, non morire, ti prego, non te ne andare.”
Le lacrime le rigavano il volto pallido lasciando traccie più chiare sul trucco appena accennato, bagnando gli occhi troppo simili a quelli della sua bambina, quegli occhi che anni prima brillavano di speranza e amore.
Il suo silenzio prolungato le aveva acceso una luce, un barlume di speranza a cui aggrapparsi, e credeva che forse avrebbe cambiato, finalmente, idea.
Sophie, dopo qualche minuto, riprese a camminare a grandi passi, silenziosa, mentre il suo cuore batteva fortissimo sulla cassa toracica, quasi volesse uscire.
Guardò il medico con aria di sfida, quasi volesse dirgli di farlo lui il trapianto; guardò la madre con un misto di amore e di rabbia; guardò il suo viso evanescente riflesso sulla finestra di fronte a lei, chiuse gli occhi deglutendo, poi parlò.
“Mi dispiace, io non cambierò idea.”
Guardò la madre, di nuovo, poi prese la sciarpa e uscì dallo studio, dirigendosi verso una macchinetta del caffè: ne aveva bisogno, aveva bisogno di caffeina e nicotina insieme. Frugò nelle tasche in cerca di qualche spicciolo e li infilò nella macchinetta. Picchiettava con le unghie sulla superficie ruvida dell’aggeggio con aria indifferente, come se non fosse mai successo nulla, come se fosse una persona qualunque.
“Posso offrirti io un caffè?”, disse una voce calda.
Si girò, spaventata, incrociando i suoi grandi verde smeraldo e il suo sorriso e per un attimo rimase interdetta. Le labbra socchiuse e lo sguardo sognante, le mani tremanti e sudate ed il battito accelerato.
“Ciao.”,rispose lei, abbozzando un sorriso.
“Che sorpresa- continuò lui accarezzandole una spalla e sorridendo- Cosa ci fai qui?”
Il suo sguardo tenero e sincero fecero mancare ancora una volta un battito a Sophie che, imbarazzata, distolse lo sguardo.
“Io..Io sono qui per mio nonno, sai.. Non sta benissimo.”, disse incerta.
Perché aveva mentito? Perché non gli aveva detto la verità?
Perché non gli aveva detto che aveva il cancro, che non c’era nessun nonno, che lei stava morendo?
Perché si era, stranamente, vergognata di lui?
Non doveva innamorarsi, non poteva. Se fosse successa una cosa simile avrebbe rovinato una vita, ancora un’altra.
“Capisco- rispose un po’ dispiaciuto.- Beh, mi dispiace.”
Sophie annuì, prendendo il caffè dalla macchinetta.
“Comunque l’ho già preso.”
Sasha la guardò un po’ stranito, un po’ malizioso.
“Cosa?”
“Il caffè.”, rispose Sophie, sorridendo veramente per una volta.
Lui rise insieme a lei, la sua risata mescolata alla sua voce era una combinazione perfetta.
“Ma tu lavori qui? -continuò lei che solo in quel momento si era accorta del camice che il ragazzo indossava- Non sapevo facessi l’infermiere.”
Fece cenno di no col capo.
“Non faccio l’infermiere, o perlomeno, non ancora. Mi manca l’ultimo anno, per ora faccio volontariato. “
Sophie alzò un sopracciglio, fingendo indifferenza e prendendo un sorso di caffè, poi sorrise debolmente.
“Sophie? Possiamo andare, ho finito di parlare con i dottori.”
La voce della madre fece girare Sophie, seguita da Sasha che colse l’ultimo minuto per invitarla. Lei annuì.
“Senti, io vorrei invitarti a prendere un caffè, mi ripagherai del passaggio.”
La sua voce suonò dolce anche se un po’ presa dalla fretta.
“Si, certo. Ci vediamo.”
Scappò, prima che lui potesse dire altro, senza nemmeno salutarlo, senza nemmeno dargli una risposta sicura.
La madre la guardò curiosa mentre lei noncurante si sistemava la cuffie alle orecchie, uscendo dall’ospedale e dirigendosi alla macchina.
Ripensò alla canzone di qualche giorno prima: si erano veramente incontrati.
Era un segno?
Abbandonò questi pensieri apparentemente ridicoli e salì in macchina, guardando fuori dal finestrino e chiudendo gli occhi, lasciandosi cullare dalla musica.
   
 
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