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Autore: ValeEchelon    16/11/2011    2 recensioni
" Ogni giorno viveva, con la consapevolezza che da un momento all’altro poteva non esserci più, non che la cosa la preoccupasse, intendiamoci: non aspettava altro, voleva morire, evaporare, andarsene da questo schifo di posto, e sebbene non credesse né in Dio, né in nessuna delle puttanate che si predicava, lei in realtà sperava in qualcosa. Sperava di poter vivere un’esistenza decente, almeno da morta, visto che da viva la sua vita aveva fatto schifo."
Dal primo capitolo.
Genere: Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era accasciata sul letto, un rivolo di sangue le colava dal labbro e aveva la testa vuota. Non se la sentiva di alzarsi e andare a casa, avrebbe richiesto troppa fatica per una come lei che ormai aveva le energie minime per la sopravvivenza, e soprattutto non ne aveva voglia.
Quella musica le risuonava ancora dentro le orecchie, sorda e assillante, come una ferita bruciava e faceva male, a tal punto da non sentire nemmeno il rumore esterno.
L’oceano profondo dei suoi occhi si era perso, aveva lasciato posto ad un laghetto sporco e prosciugato, un laghetto anonimo velato di una tristezza percepibile, una tristezza che da tempo si era trasformata in rassegnazione.
“E’ il caso che io vomiti.”, si disse.
Si alzò lentamente e se ne andò in bagno. Percepiva i colori come un pugno allo stomaco, tutto era talmente così acceso e vivace che le pupille faticavano a svolgere il loro lavoro: le pareti erano troppo arancioni, i sanitari troppo bianchi, il pavimento troppo marrone.
Si avvicinò allo specchio e sorrise, guardando quel viso che tanto ricordava un’esile rosa sciupata e maltrattata.
Sorrise, raccogliendo con un dito il sangue che le colava dalle labbra, poi piegò la testa e iniziò a parlare, iniziò a parlare a quella ragazza dagli occhi cerulei che la osservava con aria compassionevole.
“Perché mi tieni ancora qui, perché devi farmi soffrire così tanto?”, le chiese biascicando le parole.
“Perché chiedi continuamente di morire, quando l’unica cosa che vuoi è vivere?”, rispose lei, accennando ad un sorriso.
Sophie scosse la testa, roteando gli occhi e provocandosi un conato di vomito che le fece tremare il torace.
“ Ma non vedi che sto facendo di tutto per farci morire? Perché insisti, maledetta? Perché continui a tormentarmi?”
La sua voce era un debole sussurro, era un grido muto destinato a svanire nel nulla, un nulla che da troppo tempo abitava in lei.
“ Smettila di cercare modi per morire e datti da fare. Vivi, Sophie, vivi. Esci fuori, fai quello che ti piacerebbe fare. Attraversa l’oceano, buttati da una montagna, vai a fare bungee jumping nel Gran Canyon, ma vivi. Hai ancora molto da imparare dalla vita.”
Ed in quel momento, la sua immagine sparì e lo specchio tornò a riflettere la parete arancione. Si infilò, arrancando, sotto la doccia e aprì il rubinetto dell’acqua calda, rischiando di ustionarsi. Lavò con cura ogni parte del suo corpo, insaponanò quelle braccia pallide solcate dalle punture delle flebo, insaponò i seni piccoli e rotondi e le gambe magrissime coperte di lividi giallognoli, sicuramente segni della sua malattia in stato avanzato, poi passò ad insaponare i capelli, quei capelli che anni prima erano lunghi e biondi fino ai fianchi e che ora erano corti come quelli di un uomo; questi si staccavano quasi regolarmente dalla sua piccola testa, lasciando spazi vuoti e creandole notevole imbarazzo quando si trovava a contatto con la gente, ma non copriva nulla, voleva farsi vedere per quel che era diventata.
La chemio la distruggeva, era straziante per lei prendere quelle pillole che al loro interno contenevano già un principio di morte, ma era ancora più brutto l’essere consapevole che questo non era solo un attacco alla sua salute, ma anche al suo orgoglio.
Non riusciva a darsi pace per quel che le era accaduto, non riusciva a capacitarsi di essere malata, di avere il cancro, non riusciva ad accettare la sofferenza che ogni giorno era costretta a sopportare, a subire, per allungare la sua vita di qualche giorno o magari di qualche settimana.
Sophie faceva uso regolare di droghe, leggere e pesanti, da più o meno quando aveva il cancro, aveva iniziato per gioco eppure ora la situazione s’era capovolta: era la droga a prendersi gioco di lei, non il contrario purtroppo.
Questa condizione era dannosa non solo per lei stessa che aveva già i suoi problemi, ma anche per la gente che le stava vicino visto che molto spesso si trovava distesa mezza morta, mezza viva, sul divano del salotto.
I genitori della piccola Sophie avevano fatto il possibile per fermare la diffusione delle metastasi, avevano contattato i migliori medici europei pur di aiutarla, di salvarle la vita e alleviarle le sofferenze, ma a nulla erano serviti questi sforzi: questo per Sophie era l’ultimo capitolo e non c’era modo di cambiare la situazione.
Lei, per contro, aveva smesso da tempo di ascoltare i dottori, aveva messo da parte questa lotta e si era lasciata andare alla corrente, s’era abbandonata a se stessa e, al posto della voglia di vivere, era subentrata la rassegnazione. Non c’era niente che potesse consolarla, non c’era nessuno che potesse aiutarla: le sofferenze restavano comunque a lei, qualunque cosa dicessero.
Ancora una volta il telefono prese a squillare e Sophie, troppo presa ad asciugarsi, lo lasciò suonare fastidiosamente, ignorandolo. Non aveva vestiti in quella camera d’albergo, era arrivata lì per caso e c’era rimasta per caso, così fu costretta a rimettersi quei jeans neri lucidi e quella maglietta slabbrata e rovinata.
Le mancavano le forze persino per scendere le scale, si sentiva così spenta e debole che, passo dopo passo, controllare le gambe era come controllare le stagioni, così era entrata in ascensore ed era arrivata dritta nella hall, dalla quale si dileguò presto. Chiamò un taxi per tornare a casa ma nessuno di questi era disponibile. Si guardò intorno alla ricerca di un autobus o di qualcosa che la portasse a destinazione, ma niente.
Casa di Sophie distava molto dal centro, era una villetta posta su di una candida collina che si specchiava su di un lago blu, non era facile da raggiungere, tantomeno da lei che non aveva nemmeno la forza di alzare una mano.
“Forse è il caso che faccia l’autostop.”
Iniziò a gesticolare esplicitamente in cerca di un passaggio, ma nessuno sembrava calcolarla minimamente. Era come se fosse un puntino bianco in altre migliaia di puntini bianchi, non era facile da distinguere.
Era stanca, le gambe cominciavano a cedere e la testa a pulsare violentemente, come se il cervello volesse uscire dal cranio, come se fosse troppo stretto lì dentro. Si spostò dal marciapiede e attraversò la strada ghiacciata, postandosi proprio al centro, fra i clacson e gli imprechi degli automobilisti. Noncurante, alzò il dito medio e si fermò, guardando altezzosa la gente. Non aveva nessuna paura di essere investita, non sarebbe stata una tragedia e, anzi, le avrebbero fatto un grosso favore a toglierla di mezzo.
Nulla aveva un senso.
Poi, quando ogni speranza era svanita e le macchine continuavano ad andare per la propria strada, una inchiodò proprio ad un paio di centimetri dai suoi piedi. Lei alzò lo sguardo inarcando un sopracciglio, poi guardò verso il volante: un ragazzo dai capelli color bronzo la fissava divertito, facendole segno di salire.
“Finalmente.”, sospirò Sophie, facendo il giro dell’auto.
Aprì lo sportello un po’ logoro dell’auto e salì, portando una ventata di aria fredda nell’abitacolo della macchina, una vecchia Ford Ka verde bottiglia.
Il tepore della macchina le accarezzò il viso e l’atmosfera era resa vivace da una melodia semplice.
Non appena si sistemò sul sedile, rivolse la sua attenzione a quel ragazzo che l’aveva accolta nella sua umile macchinina.
“Sasha, io sono Sasha.”, le disse porgendole la mano senza distogliere lo sguardo, accorgendosi del suo.
Sophie la afferrò pigramente, non era il tipo da presentazione, e lo squadrò da capo a piedi: aveva un paio di pantaloni scuri, forse sul blu, un maglione bianco ed una sciarpa a righe dello stesso colore dei pantaloni.
Gli occhi, verdi come i prati svizzeri, erano concentrati in una prudente guida e le labbra sottili curvate in un tenero sorriso.
“Io sono Sophie.”, rispose poi.
Lui spostò lo sguardo per un po’ e indugiò sul suo viso, facendo una strana espressione e stringendo il volante con le mani un po’ più forte.
“Ci siamo mai visti?”, disse scrutandola ancora un po’, soffermandosi sui suoi occhi azzurri e i capelli disastrosi.
“Ehm- fece lei, specchiandosi di nascosto nel finestrino di fianco- Non credo.”
Lui annuì distrattamente, tornando a guardare la strada. Uno strano imbarazzo aveva colto i due che fingevano indifferenza.
“Come mai in autostop?”,chiese ancora, guardandola.
Sophie non era abituata alle domande, tra l’altro non conosceva nemmeno questo tizio quindi volendo non era costretta a rispondere.
“Non sapevo come arrivare a casa e non c’era nessun taxi.”, rispose secca.
“Oh, capisco. Sei abbastanza pallida, non è che ti senti male?”
Lei si affrettò a negare col capo, poi si girò di nuovo.
“Allora, dove ti porto?”
Sophie, colta alla sprovvista dalla nuova domanda, si girò si fretta ed ebbe un capogiro. Appoggiò il capo al sedile, facendo in modo che lui non si accorgesse di niente.
“Oh, Sonneggstrasse. Lo so che è un po’ lontano, ma è per questo che avevo bisogno di un passaggio.”
Lui annuì di nuovo, facendo un gesto di noncuranza con la mano destra.
“Non preoccuparti, poi ho visto che non stai benissimo.”
Sophie si appiccicò al sedile, guardando fuori dal finestrino per non incrociare il suo sguardo. Da quando in qua doveva dare spiegazioni?
Chi lo conosceva?
“Uhm.”, si limitò a rispondere.
Per tutto il tragitto in macchina nessuno dei due parlò, la musica lo faceva per loro.

“No, I’m not saying I’m sorry..One day, maybe we’ll meet again..”

Era una musica strana che lei non aveva mai sentito, non le piaceva molto il genere ma, in fin dei conti, era musica commerciale e quindi passabile; d’altronde non era in potere di poter commentare, era arrivata a casa e lo doveva solo a questo Sasha.
“E’ qui, grazie.”, gli disse indicando una villetta recintata da alberi alti e verdi.
Lui fermò dolcemente la macchina, poi si girò verso di lei accennando un sorriso cortese.
“Beh, che dirti. Grazie, veramente. Alla prossima.”, farfugliò Sophie.
Rise di gusto, poi inclinò lentamente la testa.
“Figurati, è stato un piacere. Quando avrai bisogno di un passaggio allora, mettiti in mezzo alla strada ed io sarò lì.”
Sorrise ancora.
Sophie annuì e scese dalla macchina, cercando le chiavi nella borsetta e prendendo le chiavi del telecomando del cancello.
Si voltò indietro un’ultima volta a guardare: Sasha era ancora lì, sorrideva e gli fece un gesto con la mano, poi si girò e accese l’auto, facendo inversione per poi scomparire.
Lei, di rimando, aprì il cancello ed entrò in casa, quelle parole ancora in testa:
“One day maybe we’ll meet again.”
   
 
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