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Autore: Emi Nunmul    27/11/2011    2 recensioni
Volendo credere di non essere da sole, si dicevano «Sì, infatti... questa non è solitudine». Ma come erano senza ascoltatori le urla delle loro anime, così era senza il giusto destinatario il loro amore.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chijou
My heart is dancing.





Il verso delle cicale era talmente vicino ed insistente, che sembrava stessero bussando alla tapparella per metà abbassata. La finestra aperta lasciava entrare, di tanto in tanto, una brezza vagamente fresca che dava altrettanto vagamente una sensazione di sollievo. Il caldo era troppo e non c’era alcun rimedio. Quello era il suo settimo anno in quella casa, ed era la prima estate così bollente.

A venticinque anni, lei rimaneva sdraiata sul suo letto ad una piazza e mezzo prendendo, uno dietro l’altro, i marshmellow dal sacchetto che aveva accanto. Ascoltava della musica che era uno strano miscuglio di indie rock, jazz e funk, a tratti c’era del grunge, e scorreva delle immagini sul suo cellulare con un lieve tocco del polpastrello. Dita lunghe e magre su cui spiccavano delle unghie lucide, ben curate e laccate di argento. E si presentava così, ogni sera d’estate, dopo essersi rinfrescata sotto l’acqua, con delle goccioline che scorrevano silenziose e provocatorie sulle gambe nivee, magre e dritte, che a momenti sembravano essere state staccate da una perfetta statua di qualche dea greca.  Pullulava di provocazione, quella donna, con la maglietta nera larghissima il cui bordo disattento aveva quasi completamente scoperto il seno sinistro ed i capelli rossi che non avevano alcuna traccia di ordine. E lei pareva non accorgersi di tutti questi particolari. Li portava su di sé con un’innocenza ed una distrazione tali da far credere che invece lo stesse facendo apposta, ma non avrebbe comunque avuto ragione di preoccuparsi.

La ventottenne entrò in stanza facendo cigolare la porta. Teneva la testa bassa, ferma sulla soglia, mentre cercava di rimettere al suo posto un gancetto del reggiseno bianco che avrebbe dovuto mettere. Lei ostentava, invece, quelle gocce che continuavano a scendere giù per il collo, per il ventre e che poi sparivano sul bordo degli slip chiari. Ostentava le ciocche corvine ribelli, ed ostentava, a suo piacimento, un’inaccessibile riservatezza o una pericolosa audacia. Così, il corpo che si ritrovava lei, aveva un sapore più adulto e più aspro.

«Non riesci ad aggiustarlo?» domandò la rossa, che aveva dato solo una veloce occhiata all’amica.
«No. Tieni»
L’altra andò a sedersi al bordo del letto, porgendole il reggiseno, che poi la più piccola si apprestò a sistemare.
«Mi fai un favore?»
Nel suo tono c’era una punta di timore, percepibile anche da un sommesso sospiro finale.
«Che favore?»
«Sto male» e sospirò di nuovo, la rossa.
«Stai male? In che senso?»
Non ricevette risposta.
L’altra le diede indietro il reggiseno con fare quasi brusco, mentre portava la sua attenzione nuovamente al telefono. Se doveva sbagliare, e sentirsi amata, sapeva di doverlo fare con qualcuno con cui poteva concedersi un lusso del genere senza troppa paura delle conseguenze. Qualcuno che fosse cosciente di ciò che aveva per la testa. Qualcuno che, magari, viveva la sua stessa situazione.
«E’ bello, vero?» domandò d’un tratto la corvina che, dopo aver allacciato i gancetti, stava guardando una foto poggiata sul comodino lì accanto.
«Lui?» l’altra si voltò appena a guardare la cornice «Ah sì, lo so»
«Lo so che lo sai»
«Eh»
«Ti manca?»
«Molto»
«Che altro ti manca?»
«Tante cose che già sai»
«Cosa volevi chiedermi?»
«Se ti andava di sbagliare di nuovo»
La più grande sospirò pesantemente, portando lentamente lo sguardo verso la finestra senza effettivamente osservarla.
«In fondo, è meglio che sia così» disse poi, mentre si alzava per arrivare giusto accanto all’altra, rimanendo a fissarla.
Stesa, guardava da tutt’altra parte, con gli occhi apparentemente rivolti alla parete di un bordeaux intenso, fin quando non sentì il peso della più grande sul letto mentre si posizionava a cavalcioni su di lei, come si posa, a dire il vero, un petalo di fiori di ciliegio sull’acqua cristallina di un laghetto.
«Quante altre volte è successo?» domandò la corvina che già, come se fosse un gesto abituale, aveva posato le labbra sul collo dell’altra.
«Non lo so»
«No?»
«No...»
«Ti avevo chiesto di non dimenticarlo»
L’evidente aria severa della più grande la fece intimorire per un attimo.
«Scusa»
«Quattro volte»
«Ah»
«E l’hai sempre chiesto tu. Perché devo chiederti io di non dimenticare?»
«Perché voglio dimenticare. Per questo te lo chiedo, no?»
Non ricevette alcuna risposta.
Scivolandole lentamente accanto, la più grande lasciò, con un modo da fare quasi impietosito, che l’altra potesse prendere il suo posto. Doveva lasciare che lei compensasse l’impossibilità di avere l’uomo amato col possederla. Erano pensieri contorti che, se qualcuno avesse ascoltato una storia del genere, a malapena avrebbe potuto capire. La corvina aveva fatto la stessa richiesta della più piccola solo una volta. Riusciva a reprimere quella sorta di scontentezza molto meglio dell’altra. La faceva tacere, la calpestava, le urlava contro. E poi, scacciava l’uomo che amava, tant’è che non riusciva più a ricordarne il nome. Riusciva solo a ricordare i suoi occhi.
La più piccola, invece alimentava il fuoco di un amore dal quale lei stessa veniva lentamente bruciata ogni giorno.

«Contali, d’accordo?»
«Cosa?»
«I sospiri. Contali»
Rimanendo interdetta da quella seconda richiesta, la corvina poi rispose «Me ne ricorderò» cercando di assumere un’aria quantomeno rassicurante.
All’altra importavano solo le parole, non il modo in cui venivano dette, tant’era impegnata, ormai, a pensare di poter comandare a suo piacimento, per una volta, quello stesso uomo della fotografia.
«Non voltarti» le diceva fissandola, mentre i polpastrelli scorrevano sui seni ormai scoperti dell’altra.
«Guarda me»
«Mh»
E si sforzò di farlo fin quando sentì le dita della più piccola infilarsi negli slip. Portò lo sguardo alla parete vermiglia, scordando di sbattere le palpebre. A poco a poco, il suo respiro si fece sempre più affannoso. Non appena emise, con una certa riluttanza, il primo sommesso verso, l’altra si avventò sulle sue labbra, come a volerle far trattenere qualsiasi altro suono che, per un motivo o per l’altro, lei non voleva assolutamente sentire. I primi spasmi, la pelle che bruciava, il torace che si gonfiava e contraeva sempre più velocemente, e la più piccola cui non pareva importare, ma le teneva una ciocca di capelli con una mano, stretta. Poi la schiena incurvata, l’odore acre, le labbra lasciate libere, lacrime di vergogna e frustrazione che bagnavano il viso della rossa ricadendo sul petto dell’altra.

E tutto daccapo, una, due od infinite volte, in cui era impossibile per loro definire a cosa si aggrappassero, cosa cercassero e cosa volessero. Il petto soppresso da un senso di mancanza incolmabile mentre continuavano ad annaspare. Mugolii che non riuscivano a dare spazio alle urla che non attendevano altro se non la loro entrata in scena, pensando di poter attirare ciò che chiamavano.
Volendo credere di non essere da sole, si dicevano «Sì, infatti... questa non è solitudine». Ma come erano senza ascoltatori le urla delle loro anime, così era senza il giusto destinatario il loro amore.












NdA
Mi fa schifo, non ha senso, il finale è inconcludente e... e non so che altro. Fra le altre cose non mi sembra rende il senso della canzone. Cioè, non lo rende affatto, almeno non il senso oggettivo. Beh, alla fine penso che il bello dei testi dei the GazettE è che sono di libera interpretazione, e quello di Chijou mi ha colpita particolarmente, non tanto per l'argomento, ma per com'è esposto. Ruki tanto è un genio, non c'è nulla da fare.
Passando alla storia...  ero partita che avrei voluto scrivere qualcosa a rating rosso, ma quella sera in cui l'ho iniziata ero completamente fatta quindi pace -e si vede una certa differenza fra l'inizio e la fine, secondo me-. E poi, generalmente, non mi piace scrivere a rating rosso. Primo, perché mi pare che lo scritto perda credibilità se quel pezzo non è scritto in un certo modo; secondo, siccome in quel certo modo io non so scrivere, ho preferito non rischiare. E poi, scrivendo qualcosa di troppo dettagliato, penso che l'attenzione sarebbe stata distolta da quello che è il succo della one shot, scritto nel finale, appunto.
Detto questo, mi dileguo.
   
 
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