Per prima cosa, grazie.
Per due motivi:
1) Continuate a
leggere e a commentare anche a distanza di mesi, e non può che farmi un piacere
immenso.
2) Ieri sera ho
saputo che “Il regalo” è stata inserita nelle Storia Scelte. Non potete
immaginare quanto sia BELLA questa notizia per me. Gongolo da quando è arrivata
la mail. E il merito è tutto, tutto vostro. In particolare, ci tengo a
ringraziare con tutto il cuoricino VerdeEvidenziatore
e la mia adorata Lele Cullen per aver
segnalato la storia. Grazie, grazie, grazie.
Seconda cosa, ho
creato un account Facebook per tenervi aggiornati di eventuali nuovi extra o,
magari, nuove storie. Potete trovare il collegamento sulla mia pagina, qui su
Efp. Mi farebbe piacere avervi tra
gli ‘amici’.
Terza cosa:
eccovi il primo extra. Mi dispiace di averci messo un bel po’ di tempo ma sono
stata completamente risucchiata prima dalle vacanze, poi dalla sessione di
settembre e infine dall’inizio di questi corsi maledetti.
Questo è il
primo classificato (ringrazio chiunque abbia espresso una preferenza).
Preciso che, a
differenza di tutti i precedenti capitoli, il rating è rosso. Ed è ambientato alla fine del nono capitolo “Miraggio”.
Buona lettura. E
grazie fin da ora.
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Extra 1 – Prima volta
Si alzò con le
gambe che tremavano. I brividi lo scuotevano dalla testa ai piedi, le lacrime
ancora gli rigavano le guance. In quel mare di confusione e stordimento, aveva
solo una certezza: l’unica cosa che lo teneva fermo, intero, vivo erano le mani
di Bella. La sua presenza. La sua esistenza.
Senza pensare,
senza riflettere, senza parlare, solo con la voglia di assecondare ogni suo
bisogno, le afferrò la testa e la baciò. Finalmente libero dalle lacrime
versate, e dal peso di tutte quelle che aveva sempre nascosto, l’unica cosa che
restava era la voglia di averla.
Come aveva
sempre voluto, ma non aveva mai avuto il coraggio di fare. Bloccato dalla paura
di sbagliare, perdere, rompere. Con le mani legate dal bisogno di eseguire ogni
passo nel tempo giusto.
Ora le catene
erano rotte. Spezzate. E le aveva mandate in mille pezzi proprio lei. Quella
straordinaria donna che continuava a capirlo e ad amarlo. Quella donna che si
era presentata di fronte a lui con il cuore aperto. Un sorriso pronto. Un paio
di tacchi alti, un vestito che sembrava cucito sulle sue forme e i capelli raccolti
che le lasciavano scoperto il collo.
“Edward,” si
allontanò stringendo gli occhi, come se ogni centimetro lontano da lui fosse
una piccola coltellata. “Piano.”
Sentiva la sua
irruenza, il suo bisogno, ormai cieco. Sentiva le labbra affamate, la lingua
calda intrecciata alla sua, il viso bagnato di lacrime che bagnavano anche il
suo. Le sue mani strette ai capelli, intorno al collo, sulla faccia, sui
fianchi, dentro il cappotto. Le sue mani dappertutto.
“No, Bella.” E
la fermezza nella sua voce riuscì a impaurirla e a eccitarla nello stesso tempo.
“Non ne posso più.”
Senza smettere
di baciarla, di toccarla, di mangiarla, l’afferrò per i fianchi e la costrinse a
camminare insieme a lui. Raggiunsero una porta nascosta tra due scaffali,
Edward l’aprì senza guardare, con una mano, che per qualche secondo fu privata
del tocco di Bella.
Era buio. Un
buio che, proprio come il nuovo Edward, la impauriva e le piaceva.
“Cos’è?” riuscì
a chiedere, tra un bacio e l’altro.
“Un magazzino” e
le strappò il cappotto di dosso.
“Quella donna-“
un bacio “potrebbe entrare-“ le labbra “in qualsiasi momento” la lingua.
“Bella,” si
fermò all’improvviso, con le mani ancora tra i suoi capelli. La guardò fissa
negli occhi, e lei ebbe l’impressione che la potesse trapassare. “Non me ne
frega niente. Ti voglio. Ora.”
E quelle furono
le parole che fecero crollare ogni muro. Ogni dubbio. Ogni paura.
I loro respiri
accelerati divennero uno soltanto. I pensieri, le labbra, le mani. Una cosa
sola.
Edward le strinse
le natiche, le accarezzò, portandosi con sé il vestito. Glielo alzò fino ai
fianchi, fino a liberarla dal tessuto che le nascondeva quelle mutandine che
troppe volte lui aveva solo immaginato. La prese in braccio, incastrato tra le
sue cosce, con le dita che già avanzavano tra il pizzo nero, e si bloccò quando
la schiena di Bella raggiunse uno scaffale. Premette la sua erezione
sull’inguine di lei, la sentì gemere, e perse anche l’ultimo briciolo di
controllo. Si liberò della cintura, dei jeans, dei boxer. Fino alle ginocchia,
quel poco che bastava per farla finalmente sua.
Scostò le
mutandine, la guardò negli occhi, respirarono insieme. E poi, finalmente, fu
tutto perfetto.
Erano ancora
vestiti. Se ne rese conto all’improvviso, quando la furia svanì e lui si
ritrovò con la schiena contro lo scaffale e il corpo di Bella abbandonato sul
suo fianco. Si era limitato ad alzarle il vestito, abbassarsi i pantaloni, non
aveva fatto nient’altro. Niente carezze, nessuna frase dolce. Per un attimo si
pentì di tutta quell’irruenza. Poi lei alzò leggermente la testa, gli baciò la
gola, la mascella, le labbra, e quell’attimo scomparve.
Quando
finalmente aveva deciso di fare l’amore con Bella, tutto il tempo del mondo
sembrava essere stato risucchiato da una forza più grande di loro. Più grande
di lui. Aveva lasciato comandare le mani, le dita, la lingua. E lei. Lei
perfetta, lei meravigliosamente perfetta. Mentre chiamava il suo nome e si
aggrappava alle sue spalle. Mentre lo faceva sdraiare sul pavimento, gli saliva
sui fianchi, ballava su di lui quella danza che già amava e gli permetteva di
ammirarla in tutta la sua straordinaria bellezza.
“Raccontami
qualcosa.” gli disse.
Edward abbassò
lo sguardo. Gli occhi si erano abituati al buio e riusciva a vederla. I piedi
scalzi che si strusciavano sui suoi jeans. Il vestito che ancora nessuno dei
due aveva intenzione di abbassare. Le mutandine che disegnavano la perfetta
linea dei suoi fianchi. Il suo seno che gli premeva sul fianco. La cascata di
capelli che gli solleticavano il viso.
Esiste qualcosa di più bello?
“Avremo tutto il tempo per parlare.
Adesso voglio soltanto starmene qui e continuare ad accarezzarti la coscia.”
“Dai,” insistette.
“Un aggiornamento veloce. La mano puoi lasciarla dov’è…”
Una risata gli
salì nel petto, fino alla gola. “Ah, si?”
Si sistemò
meglio contro lo scaffale, tenne Bella ancora più stretta e a voce bassa
aggiunse, “Allora, vediamo di darti quest’aggiornamento lampo. Ho lasciato il
lavoro, ho ricominciato a studiare, ho una macchina e una mamma. E mi sei
mancata.”
Le sue labbra
trovarono i capelli di Bella e, con un bacio, a occhi chiusi, si perse nel suo
profumo.
“Rosalie come
sta?” chiese lei, quasi sussurrando. “A scuola sembra tranquilla.”
“La solita
Rosalie. La Rosalie che sembra tranquilla, ma che in realtà si consuma con
pensieri più grandi di lei. Però è più serena di qualche settimana fa… Forse le
ha fatto bene smettere di mangiare tutti i giorni la robaccia bruciacchiata che
le cucinavo io e ricominciare a gustarsi la cucina di sua madre.”
“Non essere così
cattivo con te stesso. Gli spaghetti che hai cucinato a me non erano né troppo
scotti né troppo sciocchi…”
“Simpaticona!”
rise. “Ah, dimenticavo la novità più importante: ha finito di leggere La pietra filosofale. E, con mio grande
piacere, ha trascorso un giorno intero con un asciugamano avvolto intorno alla
testa come un turbante fingendo di avere la faccia di Voldemort sopra il
collo!”
Bella scoppiò in
una risata fragorosa, che superò tutti gli strati che li dividevano, gli entrò
nel petto e lo scaldò.
“È tutta colpa
tua!” aggiunse Edward, con il sorriso sulle labbra.
Lei, continuando
a ridere, alzò lo sguardo. Incontrò i suoi occhi e restò spiazzata dalla totale
spensieratezza che riusciva a leggerci dentro. Una leggerezza che forse, in
tutti quei mesi di sguardi rubati, appuntamenti e baci, non aveva mai visto.
“Ecco, vedi?” disse. ”Questo è uno dei tanti motivi per cui ti amo.”
Lui rimase a
bocca aperta, con un sorriso storto bloccato a metà. Non ebbe la lucidità per
parlare, per respirare, per chiederle di cosa stava parlando, la lucidità per
risponderle anch’io, anch’io, anch’io da
sempre.
Poi, in quel
silenzio traboccante di parole non dette, lei aggiunse, “Quando parli di tua
sorella sei ancora più bello.”
Salirono le
scale vicini. Edward, con lo zaino che gli penzolava dalla spalla, le offrì il
braccio, e un sorriso. Lei si aggrappò a lui e insieme passarono davanti al bancone.
“Addio, mio
piccolo angolo di pace!” le sussurrò all’orecchio, dopo aver educatamente
salutato la bibliotecaria.
“Mi dispiace.”
rispose Bella. “Devo trovare un modo per farmi perdonare.”
Mentre si
stringeva al cappotto e usciva dalla biblioteca, con Edward che le teneva
aperta la porta, aggiunse, “Potresti venire a studiare a casa mia. È sempre
vuota. Non ti disturberà nessuno e quando tornerò a casa dalla scuola, troverò
te. Che ne dici?”
Lui s’immaginò
come sarebbe stata, una giornata tra le pareti di Bella. Vederla aprire la
porta di casa, salutarla con un bacio, sentire la stanchezza svanire. E tornò a
chiederselo: esiste qualcosa di più bello?
“Mi sembra
un’idea meravigliosa.” disse, con una voce bassa e ferma che cercava di
nascondere l’impazienza.
Raggiunsero
l’auto, un sorriso illuminò le labbra di Edward, finalmente orgoglioso di non
essere costretto a farla salire su un manubrio.
“Et voilà!”
Schiacciò il pulsante e le sicure si aprirono.
“Wow! Ho il
permesso di salire a bordo?”
Si avvicino alla
portiera del passeggero, l’aprì e, facendole l’occhiolino, sussurrò “Permesso
accordato, signorina Swan.”
Guidava con
calma, con una mano sul volante e una sul cambio. Sentiva il motore cantare, le
ruote scivolare sull’asfalto, la musica leggera che usciva dalla radio e li
coccolava. Si voltò a guardarla. Era buio, il debole sole di quel pomeriggio
era già stato inghiottito dall’inverno. Le luci della strada le illuminavano il
viso, si specchiavano nei suoi occhi, le disegnavano le labbra. Lei gli aveva
chiesto dove la stava portando, lui non aveva risposto. Vivevano nel silenzio
da quando erano entrati in macchina. Un silenzio semplice, spontaneo, che non
aveva bisogno di essere riempito. Lei guardava fuori dal finestrino e sembrava
sorridere. Solo un accenno, ma sembrava un sorriso.
“Mi dispiace.”
disse lui, all’improvviso. E come le parole lasciarono le sue labbra, smise di
guardarla e tornò a fissare a strada.
“Per cosa?” Si
voltò, cercò i suoi occhi senza trovarli, il lieve sorriso scomparve.
“Per te, per
noi… anche per lui. Mi dispiace per
quella sera.”
“Ed-“
“Mi dispiace di
averti costretta a guardarmi mentre mi distruggevo. Mentre distruggevo tutto
quello che avevamo.”
“Edward,” allungò
un braccio e posò la mano sulla sua, cercò le dita strette intorno al cambio e
le intrecciò alle sua. Lo costrinse a stare in silenzio, ad accantonare il
passato. A dimenticarlo, almeno per quel pomeriggio di pace. “Va tutto bene.
Andrà tutto bene.”
Quella frase Edward
l’aveva sentita un’infinità di volte. Nella sua testa, in ogni sfumatura della
sua voce. Ripetuta come una ninna nanna a sua sorella, come una supplica a sua
madre. L’aveva detta e sentita fino a perdere il senso delle lettere, delle
sillabe, del suono. Ma soltanto in quel momento – nella loro immobile tranquillità,
con la musica della voce di Bella che lo cullava e gli cantava non sei più solo, con tutto il loro
mondo dentro quell’auto e tutto il resto fuori - soltanto in quel momento, per
la prima volta, riuscì a crederci.
“Siamo arrivati.”
Bella si guardò
intorno. Riconobbe il giardino, il portico, la bicicletta. Le finestre erano
illuminate.
“È casa tua.”
Non capiva. Rimase seduta, con la cintura ancora allacciata. Edward fece il
giro dell’auto, le aprì la portiera, la guardò.
“Ho deciso che
oggi è la giornata dei desideri. I miei e i tuoi. Ne realizzerò il più
possibile.”
“Continuo a non
capire.”
“Te lo ricordi
il nostro primo appuntamento? Mi dicesti che ti sarebbe piaciuto fare una
cosa.”
“Ti assicuro che
quella sera avevo voglia di fare tante, tante cose… ma non mi sembrava di
avertelo fatto sapere!”
Edward rise,
quella risata rauca che la faceva impazzire. “Basta indovinelli, seguimi.”
E lei lo seguì.
La casa era
calda, luminosa, dalla cucina arrivava il profumo di sugo, ma, nonostante i
segni di vita, sembrava vuota. Edward le prese il cappotto, poi si tolse anche
il suo. La fece accomodare sul divano e, divertito dall’espressione confusa di
lei, si allontanò.
Spostò lo
sgabello, si sedette e si sistemò per essere il più comodo possibile. Sfiorò i
tasti, li salutò come se fossero amici che non sentiva da mesi ma che non aveva
mai dimenticato. Sembravano freddi, soli, chiedevano compagnia. Sentiva il peso
dello sguardo di Bella sul collo, sentiva la sua impazienza, ora che finalmente
aveva capito.
Dandole le
spalle, sorrise. A lei, a loro, a tutto quello che li aveva portati fin lì.
Raddrizzò la
schiena, piantò bene i piedi per terra e lasciò che le sue dita prendessero
vita.
La musica riempì
la stanza, le orecchie, il cuore. Una musica che urlava disperazione, pregava
pace, esultava per averla ricevuta. Una musica che raccontava lacrime,
promesse, passeggiate. Urla, pugni stretti, una corsa giù per le scale.
Raccontava libri, capelli profumati, pizzo nero. Raccontava loro, raccontava
lui.
Bella si lasciò
abbracciare dal divano, si accomodò sui cuscini e, con lo sguardo fisso sulle
spalle concentrate ma leggere di Edward, sentì le lacrime riempirle gli occhi.
Aveva voglia di piangere, ridere, alzarsi e abbracciarlo, rimanere seduta e
guardarlo. Guardarlo ancora, e ancora.
Passi leggeri
scesero le scale. Rosalie rimase senza parole, con gli occhi sbarrati e un
sorriso che si faceva strada per illuminarle il viso. Per un attimo, si chiese
se fosse tutto vero. Se quella fosse la sua casa, se quello fosse suo fratello.
Raggiunse il divano, vide la signorina Swan – proprio la signorina Swan!
- e si accorse che piangeva. Si preoccupò, ma poi capì che erano lacrime belle,
di quelle che quando le versi non fanno male. Si sedette accanto a lei, Bella
le passò un braccio intorno alle spalle.
“Gli hai fatto
un incantesimo, di’ la verità. La maledizione Imperius, giusto?” scherzò la
bambina.
“Non ho fatto
niente, giuro. Sono solo una povera babbana.” rise Bella, alzando le mani per
ribadire la sua innocenza. “Ha fatto tutto da solo.” E, tornando a guardarlo,
si rese conto di quanta verità ci fosse in quelle parole.
“Erano mesi che non suonava!” bisbigliò
Rosalie, ancora incredula.
“E ascoltarlo è
ancora più bello di quanto ricordassi.” Si voltarono di scatto. Esme aveva
parlato piano, come se avesse avuto paura di disturbare, spezzare l’atmosfera.
Si sedette anche lei, trascinata dalla cucina al divano dalla magia delle note di
suo figlio.
Con le dita che
ancora danzavano su tasti, Edward si voltò. Trovò su di sé lo sguardo fiero
delle sue tre donne. Si perse nel volto luminoso di sua sorella, si emozionò di
fronte a sua madre che si era portata una mano sul cuore. Si specchiò negli
occhi lucidi di Bella e le sorrise. Un sorriso che sembrava nato per quelle
labbra e destinato a quegli occhi.
Fu il suo modo
per dirle: “Guardami. Ti amo anch’io.”
E lei lo capì.