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Autore: Fog_    29/11/2011    5 recensioni
«Ora basta, ci hai scocciato, te ne vai da tuo fratello».
È con questa frase che i miei mi hanno praticamente liquidato.
Cacciata di casa a sedici anni, grande, faccio proprio schifo.
Ora, si da il caso che mio fratello abiti a Londra, e che sia lo stereotipo del “figlio perfetto”, educato, studioso, mai fatto una marachella, sempre impeccabile, borsa di studio in giurisprudenza.
Quello che i miei non sanno, però, è che lì a Londra Lorenzo sta facendo di tutto tranne che andare all’università. Lui e i suoi nuovi amici, le ultime persone che mi sarei aspettata di conoscere.
E io, che avevo deciso di smetterla di fare la fan accanita dei One Direction, mi sono ritrovata a fare da loro manager, occasionalmente da sesto componente della band e, forse, qualcosa in più…
Chi sono io? sono Elisabetta, Eli per gli amici, Libby per le persone più strette, Beth per quei cinque idioti che mi hanno cambiato la vita.
Genere: Romantico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cap2

 

Elisabetta

 
L’aereo volava tranquillo tra le nuvole di quella giornata piovosa. Per fortuna, oltre alla pioggia, non c’era molto vento, quindi tutto sommato non si stava male. Niente vuoti d’aria o sbalzi improvvisi.
Quella mattina avevo avuto solo il tempo di salutare velocemente Andy, davanti a scuola, prima che i miei venissero a prendermi con le valigie già caricate in macchina e il biglietto dell’aereo poggiato sul sedile del passeggero. Una cosa buona l’avevo fatta però, ero riuscita ad andarmene prima che Giorgio mi raggiungesse per appiopparmi le stesse scuse che mi rifilava da settimane, di cui ero stufa. Probabilmente oggi, mentre correva verso di me per fermarmi, voleva domandarmi per quale motivo avessi bruciato le nostre foto nel cortile. Non lo sapevo, ma dopo quello che mi aveva fatto non volevo più sentir parlare di lui.
Scossi la testa per non rincominciare a pensare a lui, così mi concentrai sulla salsa piccante poggiata sul tavolino del sedile. Ci intinsi una tortillas e mi misi a guardare fuori dal finestrino. Sentivo lo sguardo pressante dell’hostess che mi era stata affibbiata e che avevo mandato a quel paese con un “ho sedici anni, non ho bisogno di una babysitter”, ma scrollai le spalle e non ci diedi peso.
Prima, mentre aspettavo di salire sull’aereo, avevo sentito Lorenzo.
Aveva detto che sarebbe venuto a prendermi lui in macchina, e che si sarebbe fatto trovare all’uscita dell’aeroporto. Una voce accanto a lui aveva detto “verrò con un amico” in un inglese madrelingua, e la cosa mi aveva fatto sorridere, ma Lorenzo aveva smentito e mi aveva chiuso il telefono in faccia.
Chissà, magari se ci fossi rimasta poco sarebbe anche potuta piacermi Londra.
Amavo da sempre l’accento inglese, lo trovavo così affascinante, se poi gli inglesi fossero stati tutti come il principe Harry allora mi sarei trovata sicuramente bene.
Harry.
Il nome mi riportò a Styles, e quindi a Giorgio.
Mi ricordavo come ero attratta da lui, da Giorgio, solo perché era la copia di Harry, e per me che ero innamorata persa dell’originale uscire con lui la consideravo la migliore opportunità della mia vita.
I Curly hair, solo di qualche tonalità più chiari, gli occhi dolci, color nocciola anziché verdi, lo stesso sorriso che ti scioglie il cuore.
Se mi avessero mandato a Londra qualche mese fa probabilmente sarei scoppiata dalla gioia, mi sarei sentita più vicina a quei cinque idioti, ma ora no.
Ora non me ne importava più niente.
 

Lorenzo

 
Erano le dieci, Libby mi aveva detto di essere appena salita sull’aereo, quindi sarebbe arrivata entro due ore e mezza, forse anche meno, e la casa era a soqquadro.
Non pensavo che i miei dicessero sul serio tutte le volte che mi avevano chiamato esasperati gridando che volevano mandarla da me, così non mi ero mai preoccupato più di tanto. Quando ieri mi avevano chiamato ero nel bel mezzo di un festino, qui a casa mia. Avevo giustificato le grida di sottofondo dicendo che ero a una festa del campus, e loro mi avevano rifilato la notizia.
Ora mi ritrovavo con la casa sotto sopra, la testa che mi scoppiava, due dei miei amici che giocavano alla playstation in salone e Libby che stava per arrivare.
«Anziché giocare potreste darmi una mano?» chiesi raggiungendoli con un enorme sacco della spazzatura.
«Si, ho vinto ancora» gridò Louis saltando sul divano, Harry gli lanciò un cuscino contro borbottando parole incomprensibili.
«Ragazzi vi date una mossa»  li ammonii passandogli il sacco nero, il riccio spostò gli occhi prima su di me, poi sulla mano che teneva la spazzatura, poi sulla casa da rimettere in ordine.
«Io ho un impegno» annunciò alzando le braccia e correndo verso l’uscita sfuggendoci. Quando Louis cercò di fare lo stesso riuscii a fermarlo e, dopo averlo istruito a dovere su ciò che doveva fare, gli indicai la cucina. Borbottò un «dovevo andarmene anche io» e si diresse verso la stanza come se stesse andando verso il patibolo, con il saccone in una mano e la maglietta arrotolata e legata intorno alla testa.
Quei ragazzi mi facevano sempre morire dal ridere, era stata una fortuna incontrarli.
Dopo un’ora di lavoro intenso io e Louis ci ritrovammo gettati sul divano, distrutti, con la casa più o meno pulita.
«Tu sei pazzo, pulire questo posto è un’impresa» annunciò Louis sdraiato sui cuscini con la testa all’indietro.
«Lo so, per questo non ce l’avrei fatta da solo» dissi sorridendogli, lui si rinfilò la maglietta e mi sbatté addosso la pezza che aveva usato per pulire, sommergendomi di briciole e polvere. Feci per dargli una calata ma lui mi bloccò dicendo «dobbiamo andare a prendere tua sorella»
«Io devo andare a prendere mia sorella, non tu» lo corressi guardandolo di sottecchi, Louis non aveva ancora capito che non avevo intenzione di portarlo con me, ne lui, ne Harry, ne gli altri tre.
Loro non l’avrebbero vista neanche da lontano, mia sorella.
«E dai amico!»
«è troppo piccola per te, Tomilson» annunciai sperando di chiudere la discussione.
Mi alzai e afferrai le chiavi della macchina dal tavolino di vetro davanti alla tv, poi presi il mio giubbotto e quello di Louis dall’attaccapanni. Il mio lo infilai, l’altro lo lanciai contro il brunetto.
«Muoviti, alzati» dissi facendogli segno di raggiungermi.
Si catapultò giù dal divano cercando di saltare la spalliera ma, non essendo ne Daniel San, ne Goku, ne il tizio della pubblicità di “olio cuore” non ottenne il risultato sperato e cadde a terra provocando un tonfo sordo. Trovatemi un diciannovenne più idiota di Louis Tomilson e vi faccio una statua, seriamente.
«Si va!» esultò raggiungendomi in un balzo, si infilò il maglione beige e si tastò le tasche dei pantaloni in cerca delle chiavi della sua macchina finché non si ricordò di essere venuto a piedi.
Chiusi casa e, seguito da Louis, uscì nella fredda Londra di inizio Dicembre. La macchina era a qualche passo dal portone, ma quella piccola distanza bastò per congelarmi. Era più di un anno che vivevo lì eppure non mi ero ancora abituato a quel freddo, al contrario del mio amico che sembrava non accorgersi di niente, neanche fosse una giornata d’estate.
«A che ora arriva?» chiese dopo un po’ mentre attraversavo King’s Road a meno di dieci all’ora, la velocità massima che permetteva il solito traffico. Dovevo ammettere che era snervante, era una delle poche cose che odiavo di quella città.
«Tra mezz’ora, ma ti ripeto ch tu non ci vieni»
«E allora dove mi stai portando?»
«A casa tua, non riconosci la strada?»
«Facevo prima a piedi» borbottò incrociando le braccia intorno al petto e mettendomi il broncio. Mi accostai al marciapiedi sterzando e, allungandomi verso di lui, gli aprii la portiera.
«Bene, allora vai a piedi» dissi con un sorriso da orecchio a orecchio, Louis alzò una mano e mi diede uno schiaffo sulla guancia, sonoro ma che non avrebbe fatto male neanche una mosca. Nel frattempo aria gelida entrava dallo sportello aperto, rabbrividii.
«Che razza di amico sei?» chiese corrucciando la fronte in un espressione che mi impedì di non ridere.
Così, mentre mi piegavo in due dalle risate, Louis uscì dalla macchina scuotendo la testa e, quando chiuse la portiera, ripresi il tragitto verso l’aeroporto.
 

Elisabetta.

 
More than this.
Era l’ultima canzone che avevo ascoltato prima di scendere dall’aereo.
Credevo di aver cancellato tutte le loro canzoni dall’Ipod, ma quella era sopravvissuta e non me ne ero neanche accorta. Avrei dovuto rimediare, il prima possibile.
L’aeroporto di Londra era davvero immenso, doveva essere tipo mezzora che giravo a vuoto tra Gate, dogane e bancarelle di fish and chips, senza trovarne l’uscita. Così me ne andavo camminando con un paio di borse in spalla, una valigia sottobraccio, un trolley in mano e una porzione di fish and chips nell’altra. Probabilmente con tutti quei bagagli, la matita sbavata e la faccia stravolta mi prendevano per una sbarcata, forse una drogata.  Be’, mi sentivo molto un pesce fuor d’acqua lì, ero partita negativa e continuavo ed esserlo, volevo tornare a casa.
Non appena trovai la scritta “uscita” intonai un Alleluja e mi gettai su una panchina lì davanti, in attesa dell’arrivo di Lorenzo. Davanti a me sfilavano centinaia di persone, di nazionalità, lingue e colori diversi, era una cosa bella da vedere. 1 a 0 per Londra.
Un ragazzo seduto sulla panchina accanto alla mia iniziò a suonare degli accordi con una chitarra acustica, presi a tenere il tempo con il piede, poi con le mani, finché notai che il tizio mi stava fissando.
Smisi di botto guardandomi in giro con indifferenza, poi mi accorsi che il rosso mi stava facendo segno di avvicinarmi. Mi alzai insicura, cercando di capire se si stesse riferendo davvero a me o a qualcun altro.  Mi sedetti al suo fianco, sorridendo imbarazzata. Lui era carino, aveva i capelli rossi spettinati e gli occhi verdi, non doveva avere più di diciotto anni.
«Ti piace la musica?» chiese in un inglese che mi fece praticamente sciogliere.
«Si» risposi mentre lui intonava un’altra melodia. La gente che passava si fermava a guardarci, mi sentivo leggermente osservata.
«L’avevo capito» disse sorridendo soddisfatto, poi iniziò a spostare lo sguardo da me alla chitarra.«conosci questa canzone?»
Chiusi gli occhi per ascoltare più attentamente, il ritmo mi ricordava qualcosa… ma si, era just tonight dei pretty reckless.
«Perché questa?» domandai canticchiando mentalmente le parole della canzone.
«Perché assomigli a Taylor Momsen» disse facendomi un occhiolino. Taylor era la cantante dei Pretty Reckless, forse più conosciuta come Jenny Humprey di Gossip Girl, e il fatto che mi avesse paragonata a lei mi fece sorridere. L’avevo sempre considerata bellissima.
 
Here I am, and I can’t think for all the pillow I take,
Start the car and take me home.

 
Cantai sotto voce, seguendo gli accordi del rosso e tenendo il tempo battendo la mano sul ginocchio.
«Più forte» mi incitò sicuro, così chiusi gli occhi e iniziai a cantare sul serio.
Quello era un perfetto sconosciuto, incontrato in un posto sconosciuto, in una città sconosciuta, l’unica cosa che conoscevo in quel momento era quella canzone, così mi aggrappai alle sue parole e al suo ritmo lento, perché era l’unica cosa familiare.
 
 Just tonight.
 
Quando riaprii gli occhi la prima cosa che notai fu l’espressione soddisfatta del ragazzo con la chitarra, la seconda la gente che si era coagulata intorno a noi. Le mie guancie andarono immediatamente a fuoco e il mio cuore prese a battere impazzito, odiavo essere al centro dell’attenzione.
Le persone applaudivano, era una strana sensazione che stavo provando, un’imbarazzata soddisfazione se potevo definirla così.
Mi girai per sorridere al rosso e lui, mettendo da parte la chitarra, di porse la mano dicendo «Rick»
«Elisabetta» risposi stringendola mentre intorno a noi la folla si dileguava. C’era un ragazzo però che se ne stava fermo da quando avevo aperto gli occhi, fisso nella stessa posizione, con la fotocamera del cellulare puntata verso di noi. L’iPone gli copriva parte della faccia, ma da quello che riuscivo a vedere mi ricordava…
Saltai dalla panchina facendo sobbalzare anche Rick e mi fiondai contro il ragazzo.
«Lorenzo!» gridai saltandogli addosso mentre le sue braccia mi sollevavano.
«Ehi Libby» disse con il tono più dolce del mondo.
Il nostro era uno di quei rapporti tra fratelli fatti di odio e amore, eppure sapevamo di poter contare sempre sull’appoggio dell’altro nel momento del bisogno, nonostante anche la differenza d’età. Io sedici lui ventuno.
Rimasi incantata a osservare quei capelli biondi e gli occhi celesti che non vedevo da quasi due anni, era bellissimo e non lo dicevo perché ero di parte.
«Da quando sei bionda?» chiese rimettendomi a terra e guardandomi con sguardo un po’ incuriosito, un po’ shoccato. «E tutto quel trucco? Dov’è Libby?»
«Sono qua, davanti al mio fratellone preferito»
«sono l’unico fratello che hai!»
«Appunto»
 
Casa di Lorenzo di lasciava senza parole.
Era un loft completamente vetrato nella zona di Chelsea, che era tipo il quartiere più in di Londra, con un balcone che girava per tutto il perimetro della casa.
E io che pensavo che abitasse in una piccola casetta vicino al campus, conoscendo mamma e papà, però, dovevo aspettarmelo che avevano provveduto a non fargli mancare  nulla.
I nostri discorsi nell’ultima mezzora, in macchina, avevano avuto come protagonista il video che aveva girato in aeroporto e, di conseguenza, il fatto che avessi una bella voce. Sinceramente non l’avevo mai pensato. La musica era tutta la mia vita, probabilmente l’unica cosa decente che avevo, ma che io non avevo mai pensato di poter produrre.
«Andiamo, sei a Londra, la città del rock, degli artisti di strada, dei cercatori di talenti, io dico che dovresti provare a sfondare» aveva detto durante quello che sembrava un tragitto infinito. «Dovrei presentarti ai miei amici, loro potrebbero darti una mano» aveva affermato poi, mordicchiandosi subito dopo il labbro come se si fosse reso conto che quella era una cosa che non avrebbe dovuto dire.
La cosa mi puzzava, non sapevo perché, ma mi puzzava parecchio.
«Ta - dan»  canticchiò aprendo le braccia e lasciando le valige in salone.
«Però…» dissi guardandomi intorno, le pareti che non erano vetrate erano dipinte di un rosso scuro e quella di sinistra per lo più coperta da una gigantografia alla Wharol raffigurante lui e degli altri ragazzi, verso sinistra c’era la cucina, a destra delle scale che portavano al piano superiore, il salone era occupato da un caminetto e da un televisore da chissà quanti pollici circondato da divani di pelle bianca. Mi avvicinai incuriosita a delle foto poggiate su una cassapanca nera, c’erano anche delle mie immagini tra quelle, poi passai alla gigantografia e per poco non svenni lì davanti. O mio Dio.
«Hai incontrato i One Direction?» chiesi soffocando delle grida da stupida ragazzina e cercando di moderare la voce. Ero una brava attrice quindi la cosa uscì piuttosto bene, la mia aria strafottente non fece trapelare tutte le domande che mi stavano tartassando il cervello.
Mio fratello ha incontrato i One Direction? Mio fratello conosce i One Direction? Mio fratello è un fan dei One Direction?
«Si!» quasi gridò lui con lo stesso tono di una vecchietta isterica «Si!, gli ho incontrati un giorrno…in giro per.. Londra, in giro per Londra!»
Alzai un sopracciglio notando la sua espressione. Sembrava come se qualcuno lo stesse strozzando, o magari affogando, era tutto rosso.
«Sei un loro fan?» domandai indicando la foto con il pollice.
«Si, non lo sapevi?» fece forzando un sorriso, mi stava nascondendo qualcosa, evidentemente, ma se non voleva dirmelo oggi l’avrei scoperto da sola. Avevamo tanto tempo da trascorrere insieme.
«Io ero rimasta al fan accanito di Lil Wayne, non al directioner»
«Ehi, sono forti, dal vivo anche più simpatici! Non eri anche tu una loro fan?»
«Io? Nah!» mossi una mano con nonchalance e mi allontanai velocemente dalla gigantografia, afferrai il trolley e sorrisi al mio fratellone «Allora, qual è la mia camera?»
«Tu sei tutta strana» affermò scuotendo la testa.
Si caricò in spalla gli zaini e l’ultima valigia e mi fece strada su per la scala dagli scalini di vetro.
Mi soffermai qualche secondo a guardare attraverso una delle tante finestre, davanti a me si estendevano file e file di tetti  e strade affollate, zone di verde qua e là e, più infondo, le acque scure del Tamigi.
Mi resi conto solo allora di dove ero e di tutte le possibilità che mi si spaziavano davanti, si, volevo tornare a casa, ma un po’ di tempo lontana da tutto ciò che mi aveva oppresso negli ultimi tempi non poteva certo farmi del male.

Angolo Autore:
Salve gente!
Eccomi qui con il secondo capitolo, un po' in ritardo, lo so, ma ci sono :3
una cosa caratteristica di me sono questi capitoli che mi sembrano un po' troppo lunghi, non so se sia una cosa positiva o negativa.
Be', che dire, anche io vorrei un fratello come Lorenzo , soprattutto per...le sue amicizie muahahahah
Non sarà difficile nascondere Libby a quelle teste di carota (?)
Recensite, dai :3
per favore, anche se fa schifo, o se vi piace, un coomentino non guasta!
Va be', comunque grazie a chi legge e a chi segue :D
Alla prossima, If_you_believe
 

   
 
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