Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: LivingYesterday    04/12/2011    4 recensioni
"4:59. Il profilo dei grattacieli di Toronto parrebbe quasi volermi nascondere l’alba che, ostinata, inizia a sorgere, con quel blu che la precede. [...] Ne avevo già viste, ma l’alba del 23 settembre non la scorderò mai. "
Questo è un piccolo brano preso dal racconto, un one-shot introspettivo-dammatico. E' il mio primo racconto, almeno, il primo che pubblico, spero vi piaccia. Buona lettura!
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Michele

Non riesco a dormire ancora. Non così, non più, non dopo quel sogno. Mi rotolo sul fianco e scendo dal letto dal lato destro. Avrei potuto scendere da quello sinistro semplicemente tirando giù i piedi dal letto, ma volevo scendere dal lato destro. Faccio scendere i piedi che incontrano subito le piastrelle fredde. Le mani vanno a grattare un po’ le palpebre, ma appena riesco ad aprire gli occhi mi trovo a specchiarmi nel vetro della finestra. La mia pelle bianca si contrappone alle poche auto che girano. L’orologio analogico sul comodino segna le quattro del mattino. In Italia devono essere … uhm … Le dieci del mattino, circa. Chissà cosa fa Michele. Il pensiero di Michele mi fa sospirare. Decido finalmente di alzarmi, a piedi scalzi vado in bagno. Non mi voglio guardare allo specchio. Tanto so già di avere un bel paio di occhiaie e gli occhi più gialli del solito. Ripeterei solo l’esperimento delle ultime, beh, due settimane, più o meno. Lascio riscaldare l’acqua in doccia, nel mentre vado in cucina e metto a scaldare dell’acqua per il caffè. Per fortuna il bollitore si spegnerà al momento opportuno. Prevedo di stare un bel po’ in doccia. Che giorno è più? Uh, 25 novembre. Il mio compleanno. Fantastico.  Inizio ad insaponarmi. Cerco di lisciare il più possibile i capelli, se no quando uscirò dalla doccia sarò pieno di nodi. I capelli ricci non aiutano in proposito. L’odore di menta dello shampoo è soffocante. Ogni volta mi riprometto di cambiarlo, ma finisce sempre che tengo questo stupido shampoo. Inizio a tossire, al solito. Devo scostare sempre la tenda di plastica, e finisce che come al solito si bagnerà il pavimento. Sbuffo mettendo fuori dalla doccia la testa. Si gela. I capelli mi si appiccicano alla fronte e mi danno un fastidio cane. Con la mano li scosto. Il pigiama giace accanto al gabinetto, i boxer un paio di passi accanto. Non ho preso il cambio, cazzo. Per fortuna l’odore di menta si è dissolto e posso dedicarmi al corpo. Ho freddo, quindi per prima cosa mi bagno di nuovo con dell’acqua calda. In stanza suona il telefono. Lascio stare, tanto c’è la segreteria. Probabilmente è Giuliano. O Daniela. Il bagnoschiuma produce delle bollicine sulla spugna. Malgrado non ne abbia di bisogno gratto molto sulle braccia. Quel leggero dolorino sulla pelle è come una sicurezza per me. Tutto cambia, tranne il fatto che quando gratti forte le braccia poi ti fanno male. Che scoperta, huh? Ogni volta che entro n doccia mi riprometto di restarci a lungo. Ma finisce che me la sbrigo sempre in meno di un’ora. Ovviamente in un’ora è compreso l’asciugarsi i capelli, dare loro una forma, che non è sempre la cosa più semplice del mondo. Esco dalla doccia e raccolgo i vestiti sporchi. Davanti al lavandino c’è l’acqua di quando ho aperto la tenda per respirare. Fantastico. Mi fascio dentro l’accappatoio bordeaux e lo chiudo in vita. Esco dal bagno con delle falcate ampie. Per prima cosa vado al telefono ed avvio la segreteria. Mamma mi ha chiamato per farmi gli auguri. Strano, solitamente chiama più tardi. Per lo meno, l’anno scorso ha aspettato che qui fossero almeno le otto. Si sarà dimenticata del fuso. Aggiunge che il nostro cane, Cicerone, è morto. Sbuffo. A tal proposito preparo del cibo per Catullo, il mio gatto. Mia madre mi ha trasmesso il gusto per i nomi di celebrità del mondo romano da dare agli animali. Precisiamo, avevo avuto anche una gatta di nome Saffo, ma era molto acida come tipo. Quando mi chino col pacco di croccantini in mano e li verso nella ciotola di metallo la figurina di Catullo accorre. Gli carezzo il pelo rosso della schiena. Ha il pelo corto e gli occhi gialli come i miei, anzi, ancora più gialli. Entro in stanza e guardo l’orologio. 4:35. Il cielo è più buio. Fra poco arriverà l’aurora. Accendo la luce e prendo un paio di boxer, un jeans ed un maglione. Manco a farlo apposta il maglione è giallo. Lo ripongo con cura. Dove sarà finito il lupetto nero? Cerco un po’ nel cassetto ed alla fine lo trovo. Ho ancora i capelli bagnati. Per forza di cose mi guardo allo specchio: essendo sopra i cassetti rialzandomi è la prima cosa che vedo, ed evitarlo è quasi impossibile. Dall’alto il lampadario illumina di luce bianca la stanza e parte del salotto. L’accappatoio è in netto contrasto con la mia pelle. In particolare le guance sono pallide, poco sopra due simpatiche occhiaie mi ricordano che sono due settimane che dormo sì e no quattro ore. Sbadiglio. Dagli occhi gialli scende una lacrima. I capelli appaiono più scuri del solito. Ovvio sono ancora bagnati. Sì, decisamente come ieri. Un forte brivido mi ricorda che devo ancora finire di asciugarmi. Entro in bagno. In un angolo c’è il moccio, lo prendo e tolgo l’acqua dal pavimento. Inizio ad asciugarmi i capelli. Non bado alla forma. Non mi interessa, oggi apparirò più Frankenstein che mai. Più o meno li tiro indietro. A causa della loro natura si gonfiano. Fantastico, veramente fantastico. Mi infilo il lupetto, i boxer ed i jeans. Corro in stanza. 4:59. Il profilo dei grattacieli di Toronto parrebbe quasi volermi nascondere l’alba che, ostinata, inizia a sorgere, con quel blu che la precede. E’ il momento più bello della giornata, almeno per me. Tutto si risveglia, pian piano. La memoria corre a due mesi fa, la mia prima vera alba. Ne avevo già viste, ma l’alba del 23 settembre non la scorderò mai. Ma facciamo un passo indietro: 19 settembre. Ero in visita in Italia ai miei, c’era ancora un caldo terribile, anche se di quando in quando un acquazzone rinfrescava l’aria. Era anche il compleanno di Giuliano, mio cugino. Trent’anni, un gran bel traguardo. Ovviamente i miei zii avevano organizzato un bel rinfresco in uno dei ristoranti, nulla di enorme, niente di pomposo, ma comunque qualcosa di tranquillo. Era come una tradizione, anche quando eravamo bambini si è sempre organizzato al ristorante, ricavato da un vecchio casolare. Nell’aia antistante giocavamo sempre a rincorrerci, o a nascondino. Quando l’ho rivisto quest’anno ho trovato l’aia più piccola di quanto non ricordassi. E poi c’è anche un albero, sulla destra, credo di limoni, ma non ne sono certo. Il fusto è abbastanza grosso, quindi doveva esserci anche quando ero piccolo, sebbene non lo ricordi. Insomma, ero uscito a fumare una sigaretta quando mi si avvicina un ragazzo. Michele.

< Sei il cugino di Giuliano, vero? Quello del Canada>

< Sì. Piacere, Matteo, ma chiamami pure Matt.>

< Michele. Hai da accendere?>

Non erano pochi i biondi in paese. Ma in linea di massima erano quel biondo molto scuro, accompagnato da occhi marroni scuri e spesso la pelle abbronzata. Invece Michele era diverso. Insomma, i capelli erano biondi ma tendevano leggermente al rosso. Gli occhi erano azzurri scuri, coperti da un paio di occhiali con la montatura fine, quasi da professore. E poi la pelle, molto chiara. Lo ammetto, due mesi fa anche la mia pelle era leggermente più scura. Ora è andata a farsi benedire ma amen. Una leggera barbetta gli incorniciava le labbra fini e rosa. Comunque iniziammo a parlare. Entro sera scherzavamo amabilmente. Scoprii che era di Milano, ciò spiegava anche un certo accento che, in provincia di Prato, stonava alquanto. Il suo compleanno? 15 marzo, un anno più grande di me. Penso potrei descrivere tutto di quell’incontro. Aveva mezzo grado di miopia dall’occhio sinistro e due da quello destro. Una T-Shirt azzurra copriva il busto, le gambe fasciate in un paio di jeans a tre quarti scuri, ai piedi sandali neri da trekking. Una cicatrice sotto il ginocchio ricordava una volta che, a tredici anni, era caduto da un ramo. Io gli raccontai di quando mia nonna pensava fossi indemoniato per gli occhi. Alla fine ci scambiammo anche i numeri di cellulare. Quella sera parlai con mia madre. Meglio, come al solito, lei parlò con me.

< E’ simpatico Michele, non trovi?>

< Sì, molto>

< Sta proprio bene con Benedetta …>

< Benedetta?>

< Sì, la figlia di Vittoria e Sandro.>

Si dà il caso che fosse anche la mia ex ragazza. Nonché, questo ovviamente mia madre non lo poteva sapere, colei con cui avevo perso la verginità. Una ragazza con un bel fisico, non c’è che dire. Peccato per il cervello di dimensioni ridotte …

Che spreco, tanto cervello come quello di Michele accoppiato a tanta stupidità quanta era di Benedetta. Quella notte mio padre cadde dalle scale rompendosi il femore. Ciò mi portò a spostare il volo di rientro a Toronto. Primo posto disponibile: 20 Ottobre. E vabbeh. Passai in ospedale tutto il 21 e parte del 22.

Casa nostra era un po’ fuori dal paese. Anche questa era un tempo un casolare, ed era anche molto grande. Con estrema pazienza mia madre continuava a mantenere tutte le stanze in ordine e pulite. Avevamo qualcosa come tre stanze in eccesso, quattro quando io ero a Toronto. Quella sera mia sorella Caterina era con mia madre da mio padre. Michele venne a casa con Benedetta. Non parlò lui, bensì lei.

< Oh, Matt, mi spiace così tanto per quel che è successo!>

< Non è stata colpa tua, comunque grazie.>

Le sorrisi e lei mi abbracciò. Sarà stata pure un’oca giuliva ma voleva molto bene a mio padre, ed immagino che anche lei si fosse presa un bello spavento. Infatti mentre mi abbracciava attaccò a piangere. Io la stringevo un poco, sentendo il calore del suo corpo sotto le mie mani anche attraverso il suo vestitino di mussolina. E mentre lei mi inzuppava la manica della maglietta con le sue lacrime ed i suoi capelli marroni mi facevano il solletico al labbro inferiore, io mi sentivo un po’ fuori luogo; inutile dire che anche Michele doveva sentirsi decisamente inadatto. Ed intanto Benedetta continuava a piangere.

< Ehi, ragazzi, avete già cenato? Se vi va potremmo mangiare assieme>

Provai la strada del cibo per calmarla. Funzionò solo in parte. Alla fine li sistemai nella stanza con letto matrimoniale libera. Mia madre e Caterina quella sera non sarebbero tornate, erano a Prato, all’Ospedale, e le ospitava la sorella di mio padre, mia zia Adele.

23 Settembre, l’alba. Ero convinto che lui e Benedetta stessero dormendo. Saranno state più o meno le quattro/quattro e mezza Non avevo chiuso occhio, non c’ero riuscito. Ero preoccupato per papà e non avevo ancora detto a mia madre che mi ero messo con una ragazza, a Toronto. In quel momento il cellulare nella tasca vibrò. Elise mi aveva mandato un messaggio chiedendomi come stesse mio padre. Risposta “ Don’t know yet, I’m going to visit him later, here it’s 4:40 a.m. How are you sweetie?”. Avevo lasciato la porta aperta e dopo aprii anche la finestra. La brezza mattutina, gravida di umidità, mi sfiorava il viso entrando in casa, mi spostava i capelli dalla fronte e mi graffiava dolcemente le palpebre. Avevo sonno ma non riuscivo a dormire. Chissà, forse un presagio di quella che sarebbe stata da allora la mia vita, o qualcosa di simile. Nell’aia Cicerone dormiva pesantemente. La temperatura doveva essere calata perché il suo fiato faceva condensare l’aria davanti al suo muso. < Matt?> Una voce dietro di me mi distolse dall’osservare attentamente i muscoli di Cicerone contrarsi e rilassarsi. Illuminato dalla luce bluastra dell’abat-jour sul comodino, Michele stava fermo sulla porta, con addosso solo la sua biancheria. Non avevano previsto di fermarsi e non avevo pensato di dare loro qualcosa. Alla luce della lampadina blu la sua pelle appariva ancora più pallida del solito. < Dimmi> Mi girai completamente, stringendomi a causa di un brivido nella mia vestaglia. < Volevo chiederti dove fosse il bagno …> alzabandiera mattutino. Un classico. < E’ in fondo al corridoio.> Una macchiolina più scura al centro del paio di mutande bianche confermò dei sospetti che avevo avuto quella sera a causa di alcuni rumori sospetti. < Ti serve un cambio?>. Avevo imparato a non chiedere ma trattare tutto con naturalezza. < Oh …> la cosa evidentemente lo imbarazzava. < Se fossi così gentile da prestarmi un paio di boxer …> Anche con le condizioni di luce nelle quali si stava si vedeva chiaramente che era arrossito. La cosa lo imbarazzava < Vai tranquillo in bagno, ti porto subito i boxer.> Gli sorrisi per rassicurarlo. < Oh, grazie> Si avviò silenziosamente verso il bagno. Mi inginocchiai davanti al cassetto della biancheria e cercai il paio di boxer più bello che avessi. Trovai quelli di Capodanno, rossissimi ed attillati. Sorrisi. Prima volta che avevo fatto sesso con la mia ex, Elisabetta, il Capodanno di due anni prima. Attraversai il corridoio velocemente. Non pensai a bussare ed entrai direttamente. Davanti a me Michele completamente nudo con ancora un mezzo alzabandiera. In quel momento uscì dalla stanza anche Benedetta. Io arrossii completamente < Scusa> dissi alla svelta, poggiai sulla lavatrice attaccata alla porta il paio di boxer e richiusi la porta. Michele non aveva avuto la prontezza di reagire. Era rimasto a guardarmi così, in piedi. Ed io lo stesso. E Benedetta ci fissava entrambi. Che situazione del cavolo. < Matt, ma … non capisco, che stavate facendo?> Aveva una faccia letteralmente sconvolta. Io immagino di esser parso come minimo rosso pomodoro < Niente, assolutamente niente. Vuoi una vestaglia?> Anche lei in lingerie e la pelle d’oca. < Sì, grazie. Ma che stavate facendo?>. Non so perché la situazione mi creasse tanto disagio. Insomma, non era la prima volta che vedevo qualcuno nudo. Forse un po’ sapevo perché mi sentivo così, quasi in colpa. Il mio coinquilino si era affacciato. Pregai che Benedetta non se ne accorgesse < Nulla, assolutamente nulla! Vieni, ti do quella di Caterina. E’ molto calda>. Intanto sentivo le mie guance andare a fuoco. Non entrai in stanza di mia sorella, semplicemente allungai il braccio dietro la porta e tirai giù la vestaglia. Era di pile caldo, rosa antico decorato con fiorellini più scuri. Affacciandomi un attimo alla mia stanza presi anche la mia vestaglia di ricambio,  fatta tipo kimono di seta nera con disegni verdi scuri. Dragoni e nuvole, classici motivi giapponesi, insomma. < Portala a Michele> Dissi a Benedetta a mezza voce. Io mi strinsi nella mia vestaglia blu ed aspettai che sparisse in bagno prima di scendere le scale di legno scuro. Arrivai in cucina e cominciai a preparare il caffè. Dalla finestra che dava sul retro della casa potevo vedere il cielo schiarirsi piano piano, diventare prima giallognolo e quindi azzurro. Mi poggiai sul pianale di granito chiaro. Il freddo della pietra contro la mia pelle mi diede un brivido tutto sommato piacevole. Sentii che qualcuno stava scendendo le scale. Il legno di cui erano fatte ogni volta faceva molto rumore. Sbuffai abbandonando la mia posizione e poggiandomi con la schiena agli armadietti. Il caffè stava diffondendo un buon profumo mentre le uova erano ancora abbandonate nel loro recipiente di plastica. Appena sceso avevo pensato di preparare anche i pancakes ma avevo cambiato idea. Procedura troppo lunga, troppo rumore, poca voglia. Michele entrò in cucina. Si stringeva nella vestaglia mentre procedeva a piedi nudi sul pavimento freddo della cucina. Non doveva essere amante dei brividi come me

< Benedetta si sta facendo una doccia.>

Mi informò a mezza voce, gli occhiali ancora un po’ appannati dal vapore del bagno, i capelli tirati indietro ed ancora umidi.

< Ok. Vuoi del caffè?>

Mi staccai dal granito e mi avvicinai alla caffettiera. Michele scosse un poco la testa ed un ciuffetto di capelli, rimasto in precedenza attaccato agli altri più che altro per l’umidità, ricadde in avanti.

< Se magari hai del tè …> 

Posai gli occhi sul caffè ed intanto annuii. 

Gli davo le spalle ma avvertii che sorrideva, specie dopo la mia risatina stupida. Dall’alto delle scale arrivò la voce un po’ acuta di Benedetta. Anche se attutita dalla porta del bagno risultava comunque chiara e quasi fastidiosa. Mi stava chiamando. Spensi la caffettiera ed aprii un armadietto in alto. Quando ero bambino lì mia madre ci teneva il cacao e la cioccolata. C’era il tè, per fortuna.

< Non è per fare l’inospitale ma serviti pure, vado a vedere Benedetta. Quello è il bollitore, se vuoi che ci metta di meno>.

Michele annuì e sorrise appena. Gli sorrisi indietro e corsi verso il bagno.

Il campanello suona e mi riprendo da questa sorta di torpore. I ricordi. Una delle poche cose capaci di farti sorridere e piangere al contempo, di farti vivere ed ucciderti. Mi stringo nelle spalle.

Joan, la mia dirimpettaia. Trent’anni portati abbastanza bene. Madre single di un bambino di quattro mesi. Il compagno frequenta anche locali gay ma fa di tutto per essere un compagno modello. Lei fa di tutto per apparire la casalinga che non è. Profuma di violetta. I capelli scuri sono tenuti su da uno chignon  la cui rigidità è dissimulata dalla dolcezza dei lineamenti e dei colori degli abiti. Non puoi dire, in realtà, come è Joan. Joan è Joan, indescrivibile nella sua essenza.

< Hi Joan, do you want to come in?>

So già che rifiuterà. Dirà come al solito che non vuole che il bambino si svegli e non la trovi a casa. Questa notte il compagno non è tornato a casa: a testimoniarlo le sue occhiaie. C’ho quasi fatto l’abitudine. In mano ha una torta ancora calda.

< Oh, I’d like but I want to be there when Ryan wakes up. I made this for you, happy birthday!>

Posso senza dubbio dire che Joan è la vicina perfetta. La torta al cioccolato è decorata con scorzette di arancia candite.

< Thank you so much Jo, normally none remembers about my birthday … Where’s Thomas?>

< Thom? I think he’s at James’. He’s so inattentive, he forgot to tell me>

Ridacchia un poco. E’ nervosa. James è un amico di Thomas, il suo convivente. Non ne son certo, ma è probabile che sia tipo il suo amante fisso. L’ho visto un paio di volte. E’ carino, bel fisico.

< I see. If you want you can come here with Ryan. You know I love children.>

< Don’t worry. Thanks anyway. Have a nice day>

Prima di andarsene mi consegna un piatto di vetro rosato con sopra la torta. E mi sorride, come sempre. E’ il primo sorriso di questa deprimente giornata che non ha ancora visto in il sole. Già, il cielo è nuvoloso. L’alba è stata un’illusione. Sono le sette e sta iniziando a piovere. Ho lezione ma non ho voglia di andare in facoltà. Tutta quella gente che non riesce a capire quanto stai male. E’ in giornate come questa che capisci quanto ti possa mancare veramente qualcuno. Abbandono il piatto con la torta sul piatto. Recupero il computer dalla borsa. Lo apro ed accendo quasi in contemporanea MSN e FaceBook. Cerco il suo contatto. Offline. Il suo nome scritto in grigio. Un groppo mi assale la gola. Non avevo speranze, ma a volte anche un’ennesima riconferma ti butta giù. Ora guardo FaceBook. Sulla mia bacheca gli auguri dei ragazzi del paese. Anche di qualcuno qui di Toronto ed un paio di ragazzi dalla West Virginia che hanno deciso di fare le ore piccole e mi hanno scritto gli auguri. Di nuovo non compare il suo nome. Guardo nei messaggi, come per aggrapparmi all’ultima speranza. Ultimo messaggio datato primo novembre. Lo sconforto più totale prende il sopravvento. Sono uno sciocco, solo uno sciocco può mettersi a piangere per una situazione simile. Dove, poi? Sulla tastiera del proprio portatile. Geniale, no? Mi sento male, mi sento un inetto, mi odio. Non riesco ad odiare ciò che, razionalmente, andrebbe odiato. Non sono io la causa della sofferenza, eppure odio me. E non lui. Non ci riesco. Sono inibito. Sono un idiota inibito emozionalmente. Richiudo violentemente lo schermo del computer e vado in cucina. Catullo mi si striscia sulle gambe. Quasi lo calcio, per errore. Le lacrime mi inondano gli occhi e la testa. E’ come se fossi ubriaco. Raccatto un calmante dal cassetto dei medicinali. Mi tremano le mani e ci impiego un po’ ad aprire la scatola. Ciò mi snerva, molto. Alla fine riesco a tirar fuori il blister bianco. Le capsule all’interno sono rosse e verdi, come a voler dare allegria. Che allegria può provare un depresso? Come può un colore provocargli gioia? Come può non ferirgli gli occhi con quell’allegria indifferente tipica dei colori accesi? Prendo un bicchiere e ci metto dentro un po’ d’acqua dal rubinetto. Un singhiozzo più forte a momenti mi fa cadere la capsula. In bocca. Giù nell’esofago. Respiro profondamente. “E’ tutto finito” mi rassicuro “Ora starò meglio”. Mi attacco con una mano al bordo del bancone, con l’altra cerco la sedia. Tengo gli occhi chiusi. “Ora starò meglio. Devo solo sedermi”. Non faccio in tempo a cercare ad occhi chiusi la sedia. L’esofago mi si contrae. Vomito. Fa male, senza contare il fatto che il calmante non fa effetto, ovviamente, essendo stato espulso subito. Apro gli occhi. Il cielo che entra dalla porta-finestra del salotto è abbagliante e grigio. Fa quasi male agli occhi. La cena di ieri mi è finita in parte sulla scarpa. Cazzo. Mi tremano le labbra. Non so più in che stato versi la mia faccia, a causa del pianto eccetera. Mi trascino in stanza. Otto del mattino. Devo andare in facoltà. O ci vado o muoio. Non ho voglia ma devo, per non abbandonarmi qui. Con la punta della scarpa destra levo la sinistra. Mi metto un paio di Converse. Ci metto troppo, mi tremano le dita e la vista non è precisa. Corro in bagno e mi lavo la faccia, di nuovo. A parte gli occhi arrossati non sono messo male. Recupero il moccio e vado a pulire quel casino in cucina. Nove meno un quarto. Recupero la borsa del computer con dentro anche i copioni. Una sistemata al volo ai capelli e giù per le scale.  

Falsità. Devo sempre dire che ho sempre avuto un rapporto strano con la falsità. Da una parte la odiavo, nella forma in cui mi portava a sorridere a gente che avrei volentieri eliminato dalla faccia della terra. Poi ho imparato ad apprezzarla, nella sua forma di riuscire a celare agli altri il dolore ed il rancore che si hanno dentro. Poi l’ho provata, come una droga. Inizialmente ti piace, ti senti anzi quasi un eroe: aiuti gli altri, non chiedi nulla in cambio e non ti accorgi che in realtà cerchi i guai altrui per evitare di pensare ai tuoi. E non ti accorgi che ciò ti inabissa, perché hai il peso dei tuoi guai e quello degli altri; inoltre non puoi poi fare finta di nulla, la maschera della falsità, della disponibilità, della gentilezza, tutto ciò ti si è ormai attaccato addosso. Non puoi farne a meno. Come una droga. Come Michele.

  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: LivingYesterday