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Autore: yeahbuddie    06/12/2011    10 recensioni
Ok, questa è la mia seconda fan fiction (la prima è stata su Harry Potter, ma dopo aver pubblicato il primo capitolo ho scordato la password, lol), e non so, spero la leggiate in tanti anche se in alcune parti sarà un po' noiosa. Poco più di un mese fa quei cinque cretini mi hanno rubato il cuore, letteralmente, perciò ho pensato di fare ciò che amo, cioè scrivere, per qualcuno che amo, cioè i One Direction. Come si suol dire, due piccioni con una fava. E vabè, non voglio annoiarvi quindi mi dileguo qui. Spero solo leggiate questa fan fiction in tanti, che recensiate e non so, leggete e basta!
Quindi: peace, love and One Direction.(L)
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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La casa non era come quelle di New York, o quelle americane in generale. 
“Beh per forza non lo è, sono in Inghilterra ora, che razza di cretina.”
 A quel pensiero aggrottai le sopracciglia per essermi data della cretina, ma infondo era vero. Non eravamo in America; lì tutto era diverso. A partire dalle case, come quelle che ci eravamo lasciati alle spalle dall’aeroporto a lì. Erano grandi e in mattoni; raramente ce n’era qualcuna di cemento. 
“Dev’essere questo lo stile inglese allora.”
La casa era enorme. Era costruita pienamente in mattoni, di un colore tra il bianco e il marroncino, che faceva risaltare il verde dell’erba del giardino. Le finestre erano grandi e quadrate, quelle al piano di sopra, mentre quelle al piano inferiore avevano una forma rettangolare, che ricordava le grandi finestre della mia vecchia camera.
La casa aveva due piani soltanto, ma doveva essere grande abbastanza da aprirci la metà di un parco divertimenti.
Attorno alla casa c’era qualche albero qua e là, che spuntava dal giardino, insieme ai pochi fiori, che però, andando dall’altro lato della casa, si estendevano e si facevano più belli e colorati. Sicuramente presto si sarebbero rinsecchiti però.
Appena finiva il bordo del marciapiede, iniziava il vialetto in pietra, che portava fino alla veranda, la cui era preceduta da una piccola piscina. Sicuramente veniva usata spesso in estate, ma sicuramente, non veniva usata per feste e festicciole, data la grandezza. Sulla veranda, e nel giardino, c’era qualche sdraio qua e là, probabilmente che veniva usata solo durante l’estate, come la piscina.
Guardando la mia espressione stupita, Mike sorrise a trentadue denti, mentre mia madre mi poggiò una mano sulla spalla per farmi avvicinare alla casa. Mio fratello invece, era già corso dentro, ansioso per chissà cosa.
Quando Mike aprì la porta, però, la casa non era come me l’aspettavo. Durante il viaggio avevo immaginato la casa in mille modi diversi, ma nessuno di quelli si avvicinava a com’era realmente.
Alla destra dell’entrata, c’era un salottino, seguito poi dalla cucina, da cui proveniva uno strano odore di bruciato. O forse lo immaginavo io.
Nel salottino c’era una tv al plasma, con di fronte un divano non molto lungo, affiancato da due poltrone dello stesso tessuto del divanetto, decorato a fiori.
Sulla sinistra dell’entrata invece, c’erano delle ampie e lunghe scale, che dovevano portare alle camere da letto, e che decisi di esplorare dopo, insieme al resto della casa. In quel momento il mio stomaco faceva troppo rumore per essere semplicemente ignorato, e il mio nuovo “compagno di casa” se ne accorse, perché mi sorrise – ancora – e posò i bagagli di mia madre accanto al divano.
«A quanto pare qualcuno ha un amico piuttosto affamato.» Disse Mike, ridendo della sua stessa battuta, a cui si unì mia madre.
«Spiritoso.» Risposi con voce bassa, sperando che nessuno dei due mi avesse sentita. Avevo troppa fame, e non volevo che qualche mia battuta facesse sì che nessuno dei due mi preparasse qualcosa. Specialmente perché io non ne sapevo niente di cucina, quindi sarei stata più che impedita nel prepararmi la cena da me.
Mentre Mike entrava in cucina, mia madre si avvicinò a me sussurrando. «Allora, ti piace?» Chiese semplicemente, sorridendo.
«Ti risponderò quando avrò avuto il tempo per vederla tutta.» Le risposi un po’ brusca. «Ma comunque nessun’altra casa può compensare la mia. Nemmeno questa stupida reggia.»
Finendo la frase, notai un lampo attraversare gli occhi di mia madre - forse stava perdendo la pazienza, o forse era stata solo una mia impressione? – Che però fu compensato da un sorriso che nacque sentendo la parola “reggia”.
«Beh, se l’hai chiamata reggia, una speranza che possa piacerti c’è. Non eri tu che avresti sempre voluto vivere una casa grande?»
Era vero, ma volevo vivere in una casa grande con la mia famiglia, non con quella degli altri. Appunto perché era la mia casa non l’avrei divisa con nessuno, mentre questa, per quanto bella potesse essere, avrei dovuto condividerla con persone sconosciute. Certo, magari erano brave persone ed io non dovevo essere affrettata nel giudicare, ma non volevo affezionarmi a quel posto e a quelle persone, perché presto sarei tornata a New York. L’avevo promesso a Nora e soprattutto l’avevo promesso a me stessa.
Quando feci per rispondere a mia madre, sentii Mike borbottare, e distolsi l’attenzione dalla casa e da mia madre per volgerla a lui, e a ciò che teneva tra le mani: un vassoio fumante di carne (se era davvero ciò che conteneva) abbrustolita, o forse dovrei dire completamente bruciata.
Mia madre, ovviamente, si avvicinò di corsa a Mike, muovendo le mani a destra e a manca per scacciare il fumo.
«Nicole!» Urlò Mike, mentre io mi sedetti sullo sgabello accanto al tavolo della cucina.
«Dai, tesoro, non prendertela. Tutti bruciamo qualcosa, e se ricordo bene, è successo anche a quel gran cuoco che sei.» Lo calmò mia madre, per poi baciarlo.
Bleah. «Dio, non fatelo quando avete spettatori almeno!» Esclamai infastidita. Eravamo lì da neanche tre minuti e già si saltavano addosso, ma che cavolo.
Alla mia non-battuta, qualcuno rise, e quando volsi la testa a sinistra, c’era una ragazza castana e un po’ robusta. Quando la guardai, mi squadrò dalla testa ai piedi, cosa che doveva essere una risposta alla mia stessa azione.
«Nicole!» Disse Mike, che sembrava essersi affaticato per riuscire a staccarsi da mia madre «Hai bruciato la cena. Diamine, ti avevo detto di stare attenta! Adesso ci toccherà ordinarla da Jimmy’s.»
La ragazza fece una strana smorfia, ma non sembrava affatto dispiaciuta per la cena.
«Scusami babbo, ma ero al telefono con Jess, e ho scordato di aver messo la carne in forno.»
Come ho già detto, non sembrava affatto dispiaciuta per la cena andata a male, così anche le sue scuse sembravano false, e non ero l’unica ad essermene accorta, anche se mia madre sorrideva gentilmente alla ragazza non-dispiaciuta.
«Nicole, è un piacere rivederti, finalmente» le disse avvicinandosi a lei, per poi stringerla in un abbraccio.
«E’ lo stesso per me, Sarah. Si sentiva la tua mancanza sai?» Rispose la ragazza sorridendo, mentre io strinsi i pugni sotto il tavolo. Non era gelosia la mia, non proprio almeno. Semplicemente non volevo essere rimpiazzata da un’altra figlia, una acquisita per giunta.
Per fortuna, fu Mike a parlare – e a farle staccare – prima di me. «Sono contento che vi siate trovate, ma la cena resta bruciata.» Disse scuotendo la testa in segno di disapprovazione. «Vado a prendere le pizze, ma sappi che questa cena ti varrà dei punti in meno per il viaggio a New York.» Continuò rivolgendosi alla figlia, che però sorrise in risposta.
New York? Sì, certo, come no. Non ce la vedevo proprio quella, lì. La conoscevo – o meglio, l’avevo vista – da non meno di dieci minuti e già mi stava sulle palle. Ed era giusto così, perché da quando aveva fatto la sua “apparizione” non mi aveva degnata di uno sguardo. Non che m’importasse, ma se fosse stata una persona brava e gentile come avrebbe dovuto essere, si sarebbe almeno presentata. Sì, neanch’io l’avevo fatto, ma chi ha detto che ero brava e gentile?
«Se non è un problema, voglio andare io» dissi d’un tratto, intromettendomi nella conversazione. «Voglio dire.. a prendere le pizze. Voglio andare io, ho voglia di fare due passi.»
«Ma non conosci la strada, è meglio che Nicole ti accompagni allora.» Rispose Mike un po’ preoccupato.
Al sentir ciò, la figlia strabuzzò gli occhi, chiaramente scocciata. La mia espressione non doveva essere da meno, e per fortuna di entrambe, mia madre se ne accorse.
«Ma no, caro, la pizzeria è dietro l’angolo. La troverà facilmente e non si perderà.» Disse dolcemente, circondandolo con un braccio. Stavano per venirmi i conati di vomito.
«Allora è deciso, vado e torno!» Mi alzai di soprassalto dallo sgabello, facendolo quasi cadere, e poi mi ricordai distrattamente che le pizze non le avrei di certo rubate. «Oh, ehm, dovreste darmi i soldi.»
«Certo.» Sorrise Mike prendendo il portafogli, allungandomi poi trenta sterline. «E ricordati che se non ti danno le pizze entro mezz’ora, la metà di quelle che compri sono gratis.» Concluse sorridendo a mia madre che teneva ancora il braccio attorno al suo collo.
«Me ne ricorderò.» Mi affrettai verso la porta, per poi fermarmi di colpo. “Forse dovrei cambiarmi.. ma no, non mi guarderebbe nessuno.”
Quando uscii di casa però, mi pentii di non aver preso almeno il giacchetto. Così mi affrettai verso la pizzeria, stringendomi nei vestiti non molto caldi. Indossavo una maglietta nera con le maniche lunghe, e sopra di essa una di stupida felpa di Pippo, che avevo comprato al Disney Store di Times Square, l’anno prima. Era calda certo, ma non era così carina da poterla portare girando per la città; mentre altrettanto caldi non erano i pantaloncini in jeans che portavo, anche se sotto indossavo delle calze scure, con tanto di stivali.
Okay, agli occhi di alcuni potevo sembrare una bambina un po’ troppo cresciuta, mentre ad altri, una di quelle giovani modelle che posavano per qualche marca di jeans.
Quei pensieri mi distolsero dalla strada, così non mi resi conto di essere arrivata davanti alla pizzeria finché quasi non ci sbattei contro. Era molto carina: al di fuori, c’erano vari tavolini sparsi qui e là sotto dei grandi ombrelloni da giardino, mentre l’insegna luminosa sopra le porte illuminava la strada di fronte. Quando, di tanto in tanto, le porte si aprivano, si sentiva il ronzio delle chiacchiere dei clienti, ma soprattutto si sentiva un buonissimo profumo – di pizza, ovviamente – che mi fece affrettare ad entrare.
L’interno della pizzeria era carino quanto l’esterno, c’era sempre qualche tavolo sparso qua e là, e poi un’ampia entrata che portava in una sala più grande, con altri tavoli. Alla destra dell’entrata, c’era un lungo bancone, in cui c’era della pizza a taglio, e in fondo al bancone si trovava una cassa, su cui puntai.
Non c’era nessuno però, così iniziai a battere il piede, sbuffando, in attesa di un cameriere, o chiunque potesse prendere la mia ordinazione. Poi, dei gridolini di alcune ragazze, attirarono la mia attenzione, e mi girai verso il loro tavolo.
Le ragazze erano tre, ed erano sedute con due ragazzi, piuttosto carini – o piuttosto fighi – aggiungerei. Uno aveva dei capelli ricci e castani, e stava sorridendo a due delle ragazze al tavolo. “Dio, che sorriso”, pensai. Era vero, aveva un sorriso bello, ma forse “bello” è un eufemismo. E di “bello” non aveva solo il sorriso, perché quando alzai gli occhi da quello, passai agli occhi, che erano di un verde giada bellissimo. Almeno sembrava così; non che vedessi così bene da quella distanza.
L’altro ragazzo, dio. Sarei rimasta a guardarlo per ore. Soprattutto, sarei rimasta a guardarlo per ore sorridere. Aveva sicuramente il sorriso più bello che avessi mai visto, e quegli occhi, poi. Erano di un castano semplice, ma somigliavano a quelli di Bambi. Sarei rimasta a guardare per ore anche quelli.
O forse sarei rimasta a guardare tutto di lui, per ore.
Mi sorpresi a pensare a quelle cose: non ero il tipo da amore a prima a vista, né il tipo da amore e basta. I miei ragazzi precedenti erano sempre stati carini, certo, ma non era mai stato niente di serio.
Mi distolsi finalmente dai miei pensieri, e quando tornai a guardare i due ragazzi rimasi stupita nel vedere il tipo dei miei strani pensieri di poco prima, che mi fissava. O meglio, che fissava il mio corpo. O forse i miei vestiti, o sicuramente, la maglia da ragazzina. 
“Dio che vergogna, avrei dovuto cambiarmi.”
Il ragazzo a guardarmi, e in quel momento ringraziai il cielo per il fatto che continuasse a guardare il mio corpo invece che il mio viso. Dovevo essere piuttosto imbarazzata e rossa di vergogna dato che sentivo le guance esplodermi.
L’altro ragazzo, il riccio, continuava a ridere con le due ragazze, mentre la terza cercava di attirare l’attenzione del moro. Lui però non la degnò di uno sguardo, e quando il riccio se ne accorse, guardò nella stessa direzione del moro: la mia.
D’istinto volsi lo sguardo altrove, imbarazzata, per poi sentirmi chiamare.
«Hei, tu, rossa!»
Mi girai lentamente, cercando il più possibile di non dare a vedere il mio imbarazzo, sfoderando perciò la mia arma segreta: il mio caratteraccio.
«Che vuoi?» Risposi al riccio, guardandolo falsamente seccata. Lui sorrise, e poi continuò.
«Vuoi unirti a noi?»
Sì. Cazzo, sì. «No, grazie.» Per una volta ringraziai la mia bocca e la mia voce di non avermi tradita, così, dopo aver lanciato un’ultima occhiata al tavolo, mentre il riccio continuava a sorridere e l’altro squadrava tutto ciò che andasse al di sotto della mia testa, mi voltai verso la cassa pregando che fosse arrivato qualcuno da cui ordinare.
E così fu. Ora, dietro il bancone, c’era un ragazzo biondo, un po’ più alto di me (non che ci volesse molto) che però se ne stava girato, per i fatti suoi. Persi la pazienza, e sbuffai rumorosamente sperando che si accorgesse di me.
Il biondo per fortuna aveva un buon udito, così si voltò. «Oh, hei, scusami.» Disse cadendo dalle nuvole, per poi rendersi conto di qualcosa. «Voglio dire, chiedo scusa.» Continuò, per poi farmi un cenno che non appresi subito, dato che me ne stavo imbambolata a fissarlo negli occhi. Che diamine, ma che avevano i ragazzi di quella città? E che diamine avevo io? Dovevo darmi una regolata, anche a costo di uscire di casa bendata per evitare gli occhi di tutti.
Quelli del ragazzo di fronte a me erano forse gli occhi più belli che avessi mai visto: erano di un azzurro così profondo da poterci – e volerci – annegare. Un azzurro limpido, di un colore di una via di mezzo tra il celeste del cielo e il blu del mare. Erano ipnotici, e bellissimi.
Per fortuna, quando suonò l’acchiappasogni sopra la porta per l’arrivo di un cliente, tornai in me, e volsi lo sguardo sul cartellino sulla divisa del ragazzo, che segnava in lettere chiare e perfette “Niall”.
Non avevo mai sentito quel nome, ma forse neanche lui era di Londra. Ad ogni modo, riusciva a trattenermi dal guardarlo negli occhi, finché ripresi il mio contegno e potei tornare a guardarlo senza avere nessun effetto.
«Non fa niente.» Risposi sorridendo alle sue scuse. Lui sorrise di rimando, e nonostante avesse un sorriso un po’ sghembo, era davvero bello. Forse uno dei sorrisi più belli che avessi mai visto, come i suoi occhi, e aveva un non so che di dolce. Doveva avere più o meno la mia età.
«Allora, cosa ti porto?» Chiese, prendendo in mano un taccuino e armandosi di penna.
«Mmh.. vorrei ordinare delle pizze» dissi un po’ esitante. «Quattro pizze. No scusa, voglio dire cinque, cinque pizze.»
Merda, ero uscita così in fretta che avevo anche scordato di chiedere che pizze volessero.
Alle fine optai per cinque Margherite, e guardai il ragazzo sparire dietro il bancone con l’ordinazione. Quando poi tornò, venti minuti dopo, quindi appena in tempo per non farmi avere la cena per metà gratis, mi consegnò le cinque pizze e dopo aver pagato mi girai in fretta. Troppo in fretta.
Non mi ero accorta che qualcuno mi stesse passando accanto in quel momento, né quel qualcuno si era accorto di me. Per fortuna riuscii a salvare le pizze, almeno le restanti quattro. Non avevo sbattuto contro il tipo così forte, ma abbastanza forte da farmi quasi rovesciare tutte le pizze.
«Cazzo, guarda dove vai, razza di idiota!» Sbottai urlando, raccogliendo le pizze salve, ancora nei loro cartoni.
La quinta era uscita fuori dalla scatola, perciò non potevo semplicemente riprenderla e portarmela dietro. Non avevo voglia di aspettare ancora, sia perché metà della gente della sala si era voltata al mio imprecare, che per la stanchezza. E per il mio essere incredibilmente affamata.
«Scusa, non l’ho fatto apposta.» Rispose il tipo. O meglio, il ragazzo.
Quando alzai lo sguardo verso il suo viso, dovetti ammettere che era piuttosto carino. Magari non come gli altri due del tavolo, ma era un bel tipo anche lui: occhi castani, capelli corti e spettinati, di un castano scuro.
«Non l’avrai fatto apposta, ma ho perso la mia pizza, grazie mille.» Dissi scocciata, roteando gli occhi e voltandomi verso la cassa, da cui era comparso di nuovo il ragazzo biondo, Niall.
Quando vide la pizza per terra, si avvicinò con un «Ci penso io a pulire» per poi chiedermi se volevo ordinarne un’altra. Io risposi di no, inventando che era tardi, e lo ringraziai per aver pulito. Dopo essermi voltata di nuovo verso il ragazzo che mi aveva fatto perdere la pizza, lo fulminai con lo sguardo, per poi sorpassarlo e uscire dalla pizzeria.
Forse era stata una mia impressione, ma mi era sembrato che sorridesse quando gli passai accanto.
Uscendo, avrei preferito rientrare e starmene lì dentro al caldo, ma dopo la figuraccia con i ragazzi al tavolo, l’imbarazzo con il cassiere e la scena con l’ultimo arrivato, là dentro non ci avrei mai più rimesso piede.
Dopo pochi metri dalla pizzeria, sentii dei passi dietro di me, e quando mi voltai a guardare, trovai il ragazzo che mi aveva fatto cadere la pizza, e mi fermai di colpo.
«Che fai, mi segui adesso?»
Lui sorrise, affrettando il passo fino ad arrivare di fronte a me. «No.. no. Volevo solo scusarmi per la pizza, e ridarti i soldi.» Sembrava sincero, ma non m’interessava la sua “carità”, così finsi di non crederci.
«Sì, certo, come no.» Risposi secca, roteando gli occhi mentre riprendevo a camminare.
Cercai di sbrigarmi, sia per le pizze calde che per il freddo, e magari anche per seminare il ragazzo, che però teneva il mio passo, senza schiodarsi.
«Vuoi andartene?» Sbottai seccata, guardandolo negli occhi.
Nello stesso istante in cui lo feci, me ne pentii. Certo, avevano un colore normale – cioè, non del verde del tipo al tavolo, né dell’azzurro del cassiere – ma erano comunque.. profondi. Aveva uno sguardo sincero, o dolce. Non so spiegarmi, ma comunque avevano anch’essi un effetto ipnotico.
«Sai, non dovresti girare da sola a quest’ora della notte.» Mi rispose sorridendo, guardandosi attorno di tanto in tanto.
Feci una risata isterica, per poi alzare un sopracciglio, incredula del fatto che ci stesse provando in quel modo strano. «Stai scherzando?»
«Sì, ma comunque mi va di accompagnarti, quindi se non vuoi che quelle pizze si gelino come stai facendo tu, dovremmo affrettarci.» Rispose aggrottando le sopracciglia, squadrandomi velocemente dalla testa ai piedi.
Sul fatto che stavo gelando aveva pienamente ragione, ma non lo diedi a vedere.
Riprendemmo a camminare, e pochi secondi dopo, con la coda dell’occhio vidi che si stava togliendo la giacca di pelle. Sotto indossava una semplice maglietta bianca, e mi chiedevo come faceva a non aver freddo indossando solo quelle due cose.
Solo quando mi porse la giacca capii che se l’era tolta per me. “Che galantuomo”. Quel che risposi non era altrettanto galante però.
«Non c’è bisogno che ti spogli per me» gli dissi brusca «Sia perché poi saresti tu ad avere freddo, sia perché non mi conosci.» Conclusi, per poi aggiungere «Sia perché sono arrivata», appena ci fermammo davanti casa.
Lo guardai un attimo, e la sua espressione era tra la stupita e divertita.
«Così.. abiti qui? Voglio dire, sei nuova in città, vero?»
Come lo sapeva? Certo che ero nuova, lo avrebbe capito chiunque mi avesse parlato per almeno tre secondi dato l’accento americano era ben diverso da quello inglese.
«Direi di sì.» Risposi, spostando le pizze da un braccio all’altro, per suonare al campanello non appena arrivammo nella veranda.
«Farei meglio ad andare allora» disse il ragazzo in fretta, «Tanto sei arrivata a casa sana e salva».
Ma va? Non ci vuole mica un addestramento militare per arrivare a casa da una pizzeria dietro l’angolo.
«Comunque sono Liam!» Urlò sorridendomi mentre spariva nel buio della via, quando Nicole aprì la porta.
Mi squadrò da cima a fondo, per poi passare alle pizze, e notare che erano solo quattro.
«Dov’è l’altra pizza? Siamo in cinque, sveglia!» Si lamentò nello stesso istante in cui io dissi: «Se ti levi dalle palle magari evito di congelare qua fuori.»
Oh, che bello, prevedevo in arrivo una grande amicizia. 



My space”: posso dire di essere fiera di me perché ho scritto anche questo capitolo tutto in una notte, cioè ieri sera, ovvero stanotte e.e però, dato che appunto l’ho scritto tutto d’un botto, non ho ricontrollato né ho voluto farlo, perché conoscendomi avrei sicuramente cambiato qualcosa, magari rovinandolo (di più ahahahah) come anche col primo, spero vi piaccia, e che non sia di nuovo troppo lungo (è un po’ più lungo del precedente) anche se, per quel che ho visto, vi è piaciuto così il primo capitolo *-* 
anche qui ho descritto un po’ tante cose (mi pare ahahah) e voilà, i one direction hanno fatto la loro apparizione uù anche se manca ancora il più cretino dei cinque ahahah. vi informo poi che sto per iniziare a scrivere il terzo, e dato che sono strastrastrafelice perché mi è arrivato stamattina l’yearbook e il calendario (ci ho pianto per un’ora e sto ancora tremando çç) e che quindi forse lo pubblico entro/o stasera se riesco a finirlo, altrimenti domani uu grazie inifinitamente a chi ha letto e recensito l'altro capitolo, grazie davvero çç spero vi piacciano e che recensiate anche i prossimi capitoli soahgvaugfsdf
ps. di nuovo: per chi non avesse un account qui e vuole recensire o dirmi qualunque cosa sulla storia, su twitter sono @69withpayne :3
   
 
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