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Autore: yeahbuddie    05/12/2011    15 recensioni
Ok, questa è la mia seconda fan fiction (la prima è stata su Harry Potter, ma dopo aver pubblicato il primo capitolo ho scordato la password, lol), e non so, spero la leggiate in tanti anche se in alcune parti sarà un po' noiosa. Poco più di un mese fa quei cinque cretini mi hanno rubato il cuore, letteralmente, perciò ho pensato di fare ciò che amo, cioè scrivere, per qualcuno che amo, cioè i One Direction. Come si suol dire, due piccioni con una fava. E vabè, non voglio annoiarvi quindi mi dileguo qui. Spero solo leggiate questa fan fiction in tanti, che recensiate e non so, leggete e basta!
Quindi: peace, love and One Direction.(L)
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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«Sveglia!» Continuava ad urlare mio fratello.
Non volevo saperne di alzarmi però. Avevo fatto tardi la notte precedente, ma anche se non lo avessi fatto, non avevo di certo voglia di affrontare la giornata che mi aspettava.
«Non rompere» biascicai assonnata, nascondendo la testa sotto i cuscini.
Lui però non mollava, al contrario, iniziò a tirare la coperta che tentavo invano di tenermi addosso.
«Cazzo, trovati un hobby e sparisci da qui!» Gli urlai contro, tirandogli un cuscino. Purtroppo neanche quello lo fermò, e per mia grandissima sfiga, a lui si aggiunse anche mia madre.
«Stai ancora dormendo?! Ti ho chiamata un’ora fa, per la miseria! Se non ti alzi perderemo l’aereo!»
«Dio, che palle.» Dissi alla fine, arrendendomi.
Mi alzai in fretta e di malavoglia, e dopo aver raccolto i vestiti del giorno prima dal pavimento corsi in bagno, mentre mia madre e mio fratello prendevano le ultime cose.
Quando mi guardai allo specchio, avevo più trucco io sotto gli occhi che un centro estetico.
«Sembro un panda» dissi alla me stessa nello specchio, iniziando a lavare via il trucco e dandomi una ravvivata ai capelli. Avevano un aspetto orrendo, ma poco importava dato che avrei passato le ore successive a dormire scomodamente su un sedile d’aereo. “Li sistemerò appena arrivati”, decisi alla fine.
Infilati felpa e jeans, uscii dal bagno in fretta e furia, senza neanche pensare al trucco, e mi precipitai al piano di sotto, dove trovai mia madre ad aspettarmi sulla soglia della porta. Tamburellava nervosamente sullo stipite con le chiavi di casa, impaziente di uscire. Al contrario, io dovetti costringere i miei piedi a sbrigarsi nello scendere le scale; proprio non volevo andarmene.
«Che c’è?» Chiesi sbuffando una volta salita in macchina, con lo sguardo di mio fratello puntato addosso.
«C’è che sei una…» ricominciò lui, quando mia madre interruppe la nostra ancora-non-iniziata litigata.
«Non cominciate. Tu» ordinò indicando me, seduta al posto del passeggero «Giù i piedi da lì. E tu» stavolta indicando Tyler «chiudi la bocca. Non voglio sentir ronzare una mosca fino all’arrivo all’aeroporto.» Detto questo, infilò le chiavi e accese il motore; il tragitto verso la mia schifosa nuova vita stava per cominciare.
«Non ci sono mosche in questo periodo dell’anno» dissi, tentando una battuta –piuttosto triste, devo aggiungere – che non ebbe risposta.
Il tragitto dalla mia ormai vecchia casa all’aeroporto non fu lungo, ma le sette ore di volo che susseguirono lo erano. Appena arrivati in aeroporto, lasciammo la macchina al parcheggio ( ce l’avrebbero fatta arrivare non so come) e poi ci affrettammo a fare il check-in; non c’era molta fila, così ci imbarcammo all’incirca quindici minuti dopo: appena in tempo per il decollo. Per fortuna a mio fratello era capitato un posto due file dietro me e mia madre, così avrei potuto godermi – se si può godere a lasciare la propria città alle spalle – il volo.
Infilai le cuffie dell’iPod, così che mia madre non iniziasse con la solita solfa del “fai la brava ragazza per una volta e impara ad essere adulta e responsabile”, ma non feci partire subito la musica. Avevo bisogno di un bel po’ di minuti di silenzio per dire addio alla mia città.
Avevo sempre amato New York, sin da quando ero bambina, anche se ci eravamo trasferiti lì solo quando mio padre se ne andò, più o meno quando io avevo sette anni. Lui lavorava per una compagnia d’affari importante, per questo era sempre fuori città, il che significava che non lo vedevamo mai. Certo, avremmo potuto sentirlo per telefono, ma chissà come trovava sempre una scusa, del tipo “sono ad una riunione importante”, oppure “devo preparare un discorso di benvenuto” o ancora “sono ad una cena per concludere un affare importante”; così però ci aveva alleggerito la sofferenza della sua perdita. Non poteva mancarti qualcuno che non c’era mai stato, no? Che fosse un genitore poco importava, specialmente se non lo si conosceva per niente. Io e lui infatti non eravamo mai andati molto d’accordo, almeno non lo eravamo stati le poche volte che si faceva vivo. Diciamo che aveva un bel rapporto solo con Tyler, dato che quando lui aveva la mia età lo portava spesso al lavoro con sé. Quindi tra noi due, lui era stato sicuramente quello ad aver sofferto di più dopo la sua “partenza”. Mia madre ovviamente c’era stata male, e per quel che ricordo, era quasi arrivata alla depressione per lui. Si erano sposati quando erano giovani – così mi raccontava quando le chiedevo della sua “favola”, prima di andare a dormire – e prima del matrimonio erano stati insieme per anni, ma dopo pochi anni da sposati, lui era cambiato. Non gli importava più di lei, né di noi, così un giorno, mia madre trovò un lurido e squallido biglietto d’addio appeso sul frigorifero, che segnava la fine della loro promessa d’amore, se così si vuol chiamarla. Ricordavo ancora quel giorno come se fosse ieri, ed ogni volta che riaffiorava il ricordo, era una fitta al cuore: volevo bene a mia madre, era la mia migliore amica, e anche solo ripensare al suo viso in lacrime mi frantumava il cuore.
Avevo una migliore amica come tutte le normali adolescenti, ma lei era la mia vera migliore amica. Lo era sempre stata, perché sapeva capirmi. Ogni volta che combinavo qualche guaio a scuola, recitava la parte della brava mamma incazzata davanti ai professori, ma appena messo piede fuori dalla scuola, andavamo a prenderci un gelato o a fare shopping come se niente fosse. Io ero sempre stata un po’ ribelle – “e maleducata, nonché sconsiderata”, a quanto dicevano i miei vecchi professori – ma avevo preso quella parte del mio carattere da lei, perciò capiva i motivi di certe mie azioni, anche se non sempre. E come lei capiva i miei, io capivo i suoi, perciò quando qualcosa non andava tra di noi, ci sedevamo sul davanzale della mia finestra a chiacchierare, finchè non ci assaliva il sonno. Ricordo che a volte dormimmo anche appallottolate là sopra, col riflesso della luna sul pavimento e l’aria fresca che entrava dalla finestra sempre aperta. Sorrisi al pensiero di quel ricordo, mentre guardavo con la coda dell’occhio mia madre sistemarsi il cuscino sotto la testa.
Mentre la osservavo, così bella e giovane, notai una nota di malinconia nei suoi occhi. Sicuramente sarebbe mancata anche a lei la nostra vecchia casa, le sue vecchie amiche e soprattutto la nostra vecchia città. Ma i cambiamenti non sempre portano il male, almeno così diceva lei.
Due anni fa, durante una vacanza in California, incontrò il suo nuovo amore, Mike. Era stato amore a prima vista, a quanto mi aveva raccontato, e da quel giorno non avevano mai smesso di parlarsi. Eravamo andati due settimane in vacanza a San Louis, ma alla fine lei aveva deciso di restare ancora una settimana, spedendo però me e Tyler dai nonni, a New York. Non si fidava mai a lasciarci soli, credeva che “per caso” io avrei potuto dar fuoco a mio fratello mentre lui avrebbe potuto buttarmi giù da un ponte. Litigavamo come normali fratelli, anche se a volte lo avrei strozzato davvero.
Dopo quelle sue tre settimane di vacanza, ricominciò a pensare all’aspetto fisico: aveva iniziato ad andare in palestra tre volte a settimana, a truccarsi tutti i giorni e soprattutto, aveva ricominciato a sorridere. Per questo ero felice che lei e Mike si fossero trovati, ma allo stesso tempo ero triste per il fatto di dover abbandonare tutto per lui, o meglio, per la loro felicità. Sapevo che era da egoisti, ma non volevo lasciare i miei amici, la mia Grande Mela, né tantomeno casa mia. Era in quella città che ero cresciuta, ed era lì che volevo diventare adulta. Ma quando lei ci diede la notizia del trasferimento, avevo dovuto lasciare tutto per forza, e questo aveva significato abbandonare anche la mia migliore amica. O meglio, l’altra mia migliore amica. Quella con cui parlavo di ragazzi, con cui uscivo e con cui ridevo fino a soffocare. Nora, cara e dolce Nora. Non ricordo un giorno in cui non ci eravamo sentite, perché da quando ci eravamo conosciute in seconda media (lei si era trasferita dal Texas), non ci eravamo mai separate. Certo, il fatto che abitasse a due case dopo la mia contribuiva, ma non era per questo che eravamo migliori amiche. Lo eravamo perché ognuna completava l’altra; eravamo diverse come il giorno e la notte, ma nessuno andava più d’accordo di noi.
Ogni volta che ricordavo il giorno in cui ci eravamo conosciute, sentivo spuntarmi un sorriso poco a poco. La maggior parte della classe la derideva per il suo strano accento texano, perciò pochi giorni dopo il suo arrivo, avevo deciso di intervenire e interrompere la cosa. Avevo preso a calci – letteralmente – i bulli della classe, e attaccato al muro le ragazze che si credevano superiori. Da quel giorno, loro avevano paura anche solo di guardarla, mentre io mi ero beccata una punizione di due settimane, che però, per quel che mi aveva portato, ne era valsa la pena.
In quel preciso istante però, pensare al motivo della nascita della nostra amicizia, del sorriso non c’era traccia; al contrario, sentivo gli occhi inumidirsi.
Tenevo tanto a Nora, come lei teneva a me, e sapere un giorno che due giorni dopo nessuna delle due avrebbe più rivisto l’altra, aveva spezzato il cuore ad entrambe. Il tutto perché, ovviamente, eravamo noi a doverci trasferire, dato che Mike era il “capo” di un importante ospedale. Era anche un dottore, e a quanto diceva mia madre, invece che starsene rintanato nel suo ufficio come avrebbe dovuto fare, andava spesso ad aiutare gli altri dottori, a condurre e partecipare ad operazioni, e cose così. Perciò ad entrambi era sembrata una buona decisione far trasferire noi da lui, o meglio, da loro. Mike aveva due figli: il maschio, di cui non conoscevo il nome, che aveva la mia stessa età, e la femmina, Nicole, che era di un anno più piccola di me. Non sapevo altro però, perché non li avevo mai visti. O meglio, mi ero rifiutata, in un certo senso, di vederli. Loro abitavano praticamente su Marte rispetto a noi, perciò non era facile incontrarsi. Il natale scorso, mia madre e Mike avevano organizzato il natale in famiglia, se così si può chiamare, ma io mi ero rifiutata di andarci. Avevo tirato in ballo un concerto del mio gruppo preferito che aspettavo da mesi, che, anche se non era del tutto una bugia, aveva funzionato. Mia madre mi aveva lasciata dai nonni mentre lei e Tyler erano andati una settimana laggiù. A Londra.
Amavo quella città, era piena di vita e di meraviglie, ma non era la mia città. Sarà un ragionamento contorto, ma penso che ognuno abbia una sua città: quella in cui si sente a casa ovunque e con chiunque sia, anche in brutte circostanze magari. E beh, New York per me era così, era mia. Era la mia città. E avevo dovuto lasciarla per la verde e umida Inghilterra, in cui molto probabilmente avrei perso il bel color roseo della mia pelle. Per quanto potessi saperne, lì il sole c’era di rado, perciò era raro girare per la città e incontrare qualche tipo abbronzato o anche solo con un po’ di colore. Non sapevo che aspettarmi da quel posto, perché lo avevo visto solo in tv, in qualche film, perciò mi meravigliai quando all’atterraggio trovammo uno dei panorami più belli che avessi mai visto.
Mentre sorvolavamo sulla città, mi ero avvicinata al finestrino a forma di oblò, spegnendo l’iPod che avevo acceso qualche ora prima, e ciò che vidi fu stupefacente: tante luci dorate, il Tower Bridge sotto cui l’acqua rifletteva le luci del Parlamento, il Big Ben e affianco il London Eye. Certo, da quella distanza non si vedevano granché, ma lo spettacolo che mostravano toglieva il fiato.
Quando atterrammo e l’altoparlante annunciò che il volo era concluso, si alzarono tutti in fretta e furia, chi per dovere e chi semplicemente per evitare la coda. Io mi alzai lentamente, e con mia madre raggiunsi Tyler, per poi avviarci verso l’uscita. Mi sarebbe piaciuto visitare l’aeroporto: avevo letto sulla guida che c’erano un bel po’ di bei negozi da vedere, ma purtroppo non avevamo il tempo. Mentalmente però, segnai di dover fare un giro lì dentro almeno per una volta.
La gente si accalcava, chi per prendere i taxi e chi per abbracciare i propri familiari. Io invece, me ne stavo con le cuffie fisse nelle orecchie, di nuovo, a leggere la guida turistica che avevo comprato prima di partire. Con la penna segnai un po’ di posti in cui sarei andata nei giorni successivi: se dovevo vivere lì per il resto della mia vita, tanto valeva ambientarmi subito, almeno con la città. Quando iniziai a leggere di uno Starbucks a pochi passi dall’aeroporto, non mi accorsi di mia madre che mi chiamava, per poi togliermi le cuffie con la forza.
 «Hey!» Esclamai, riprendendomi le cuffie.
«“Hey” cosa? Devi prenderti le valigie, non siamo i tuoi fattorini.» Mi ordinò mia madre indicando le mie cinque valigie. Guardandole, mi pentii momentaneamente di non aver buttato niente prima di partire, così, mentalmente, presi nota anche di quello.
Sbuffai, avvicinandomi al carrello con sopra le valigie. «Che palle» dissi tra me e me.
«Cosa?»
«Mi fanno male le spalle.» Mentii. Prima di partire, avevo stretto una specie di patto con mia madre: io avrei detto meno parolacce a patto che lei convincesse Mike a non farmi dividere la stanza con la figlia. Odiavo condividere le cose, soprattutto se dovevo farlo con qualcuno che non conoscevo.
Trascinandomi lentamente il carrello colmo di valigie alle spalle, finalmente intravidi l’uscita dall’aeroporto.
Anche mia madre doveva averla notata, perché quando allungò il collo per controllare, sorrise e affrettò il passo.
«La mia morte si avvicina» sbuffai, guadagnandomi una risata in risposta da Tyler, affianco a me. Lo fulminai con un’occhiataccia, o forse con due, senza accorgermi che eravamo arrivati all’esterno dell’aeroporto.
Faceva piuttosto freddo per essere l’inizio di ottobre, ma forse contribuiva il fatto che era sera. Mentre mia madre allungava ancora il collo alla ricerca di un taxi, tirai fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e lessi l’orario sul display. “Sono già le nove.”  Guardai il cielo e mi sorprese abbastanza vedere che quella sera non c’era neanche una stella. Non che con i grattacieli di New York ne avessi mai viste chissà quante, ma comunque ce n’erano abbastanza.
Quando mia madre trovò quel che cercava, si voltò verso di noi sorridendo.
«Il taxi è arrivato, possiamo andare.»
Quel che si presentò davanti ai nostri occhi quando arrivammo davanti alla fermata dei taxi, di certo non era un taxi. Al contrario, era una jeep, di quelle costose, a vedere la cromatura delle ruote. Non ne capivo molto di macchine, ma anni fa guardavo spesso quel programma di Mtv in cui ti aggiustano la macchina gratuitamente, perciò sapevo almeno il minimo indispensabile. La jeep era enorme e nera, con i finestrini oscurati, e sembrava ci fosse dentro un vip.
Appena la macchina si fermò però, dallo sportello del guidatore ne uscì un uomo alto e robusto – si intende muscoli, ovvio. Riconobbi l’uomo solo quando alzai lo sguardo dai suoi vestiti: una giacca lunga nera, dei pantaloni grigi e dei mocassini. Indossava anche una sciarpa bianca, che si intonava al grigio dei jeans. Quando alzai lo sguardo, i suoi capelli castani, con qualche sfumatura di grigio qua e là, mi fecero notare che sembrava molto più giovane dell’età che portava. Mike aveva quarant’anni, ma nonostante le sfumature di grigio tra i folti capelli corti, sembrava ne avesse trenta. Era perfetto quindi per mia madre: lei aveva trentasette anni e ne dimostrava venticinque.
Quando Mike scese dall’auto costosa, posò per un attimo lo sguardo su Tyler, che sorrideva come un ebete, come del resto faceva mia madre. Mi faceva ridere vederla così, come un’adolescente con la sua prima cotta, però a volte esagerava.
Guardando qui due che si mangiavano con gli occhi a vicenda, roteai gli occhi e feci per girarmi dall’altra parte, quando Mike parlò. «Tu devi essere la famosa Alex» mi sorrise, allungando una mano che voleva stringessi.
«E tu il famoso Mike» risposi io con aria superiore, se così si può dire, ignorando la mano ancora china verso di me.
Lui però non se la prese, al contrario, continuava a sorridere. «E’ un piacere conoscerti, finalmente.»
“Finalmente” un corno. Ma chi ci teneva a conoscerlo, io volevo solo restare a casa mia, nella mia città e dalla mia migliore amica. Durante il volo avevo cercato di non pensarci, volgendo i miei pensieri a ciò che sorvolavamo oppure a qualche attore figo di cui avrei appeso i poster nella mia nuova camera. Ma anche pensando a quegli stupidi poster, mi veniva in mente la casa, la nuova casa. E la mia nuova camera. Così poi mi addormentai, per risvegliarmi due ore dopo – assonnata e dolorante – all’aeroporto.
Guardando quel sorriso, mi venivano in mente solo tutte le cose che avevo lasciato, o meglio, che avevo dovuto lasciare; non ci pensavo minimamente di sorridergli.
«Come vuoi» risposi alla fine, girando i tacchi e salendo all’interno dell’auto. Avrei giurato di veder mia madre diventare blu dalla rabbia, ma non ci feci molto caso.
Da lì all’arrivo a casa, restammo in silenzio. O meglio, io me ne stavo in silenzio, mentre i piccioncini davanti parlottavano tra loro e Tyler s’intrometteva di tanto in tanto nel discorso.
Dopo all’incirca un’ora di macchina e di rottura di palle, arrivammo a casa. O forse dovrei dire alla reggia. Quando scesi dall’auto, nonostante odiavo stare lì dal momento in cui avevo messo piede sull’aereo, rimasi sbalordita da quel che avevo davanti agli occhi. 


''Myspace": so che questo capitolo è stra-lento, ma ci tengo a questa storia, e vorrei farla come si deve uu mi è capitato negli ultimi giorni di leggere fan fiction stupide, spesso iniziate con la protagonista ed uno dei One Direction che fanno sesso ahahah ok, capisco che vogliate farveli tutti (è lo stesso anche per me ahahah) però dai cazzo, se dovete scriverlo almeno fatelo con decenza no? cwc Che poi, la maggior parte di quelle ff, non ha neanche una frase scritta in un italiano corretto, ma vabbé, qui non parliamo di loro ma di me, o meglio del capitolo e.e so che è lento, ripeto, però ho in mente tutto il continuo della storia, quindi l'inizio ho dovuto farlo per forza così. Poi, sinceramente preferivo specificare e descrivere per bene alcune cose che per me erano importanti. Se avete letto fino alla fine, allora vi aspetto al prossimo capitolo (sembra tipo la fine di un qualche telefilm ahahah), in cui parlerò siiiiicuramente di quei cinque figli di belle donne (?)
Oh e ps: in caso non aveste un account qui ma vorreste comunque recensire o farmi sapere anche solo che vi piace, potete anche trovarmi su twitter ovviamente uu sono @69withpayne (non fate caso al nick ahahahah) 
   
 
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