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Autore: BrokenArrow    06/12/2011    1 recensioni
Confuso, mi avvicinai brancolando nel buio verso la luce lunare riflessa sul pavimento gelido. Quando la mia ombra si rifletté per terra, fui spaventato e incredulo di ciò che vidi, come un cieco che vede il mondo per la prima volta.
All’altezza delle spalle, dall’incavo delle costole, spuntavano un paio di ali nere.
Le mie parole uscivano a stento, soffocate dall’orrore che provai in quel momento. Impotente di fronte a quell’ombra che non mi apparteneva, mi piegai a terra e sbattei forte i pugni. Lacrime amare che non potevo fermare, scesero a fiotti, impregnando la pietra opaca.
Mentre prima sentivo le forze ritornare ora non ne possedevo più, nemmeno un briciolo. Mi sentivo come un contenitore senza alcuna utilità, svuotato da quella triste verità che ora mi apparteneva e che mi avrebbe segnato per sempre.
Ora lo sapevo... destino peggiore della morte era la dannazione eterna.
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salem non si poteva considerare una metropoli come Portland, ma aveva comunque il suo ben da fare. Era una della città più dinamiche di tutto l’Oregon, di fatto era la capitale e contava circa 150.000 abitanti. Sorgeva nella fertile Willamette Valley, una delle aree agricole più produttive al mondo e il soprannome che venne dato alla città fu “Cherry City”, la cosiddetta “città delle ciliegie”. Casa mia si trovava vicino al centro, esattamente su uno degli affluenti del fiume ed era una di quelle costruzioni risalenti all’epoca vittoriana. La mia famiglia e i miei antenati vivevano in quella casa fin da quando si insediarono le prime comunità di coloni nel 1840 e quando la zona era abitata solamente dai nativi.
Mentre attraversai un vasto viale alberato, le foglie autunnali sotto i miei piedi scricchiolarono al contatto, secche e rumorose. L'autunno è sempre stata la mia stagione preferita, con quelle foglie dai colori caldi e di per sé vivaci, ma allo stesso tempo spenti, perché immersi in un’atmosfera tetra e silenziosa. E’ una stagione che induce alla riflessione, che mormora nel soffio del vento e scricchiola nelle foglie cadute.
Col mio solito passo veloce, in poco tempo arrivai in centro e decisi di vagare senza una meta, trasportato dalla marea dei passanti. Mi piaceva osservare la gente, sbirciare nei loro sguardi, nei loro atteggiamenti, e a volte provare a carpire i loro stati d’animo, la loro essenza. Ho sempre pensato che le persone sono come biglie colorate: ognuna ha il suo colore, la sua sfumatura, la sua luce. Sono diverse, eppure tutte della stessa forma e apparentemente uguali. Ma non appena guardi più a fondo, dentro il vetro, ti accorgi che ognuna di esse ha dentro di sé qualcosa di speciale, che la rende unica e diversa da tutte le altre. Mentre camminavo osservai queste persone, e purtroppo mi resi conto che esse mi passavano accanto, incuranti l’una dell' altra, compreso me. Ognuna di loro aveva la sua vita e di quella degli altri pareva non interessare a nessuno. C’era chi correva all’ ultimo minuto per non rischiare di perdere l’autobus o il taxi. Chi usciva dai supermercati e dai negozi con borse piene della spesa o chissà cosa. Uomini e donne d’affari che vestivano in giacca e cravatta sempre col cellulare all’ orecchio. E poi c’erano famiglie, coppie, delle persone così legate da essermi estranee. Tutti avevano un ruolo importante o meno in questo mondo e io sentivo di non farne più parte, soprattutto dopo quello che era successo. Loro erano così umani e io mi sentivo così diverso…
C’era una sola persona che in questo momento avrebbe potuto essermi di conforto, che mi avrebbe sempre accolto a braccia aperte: Matt, il mio migliore amico. Frequentavamo entrambi le stesse lezioni alla North Salem High School e avevamo lo stesso gusto in fatto di musica.
Quell’ anno, un giorno di maggio, avevamo marinato la scuola con Kyle e David, altri due nostri compagni di scuola, per andare al concerto dei Guns N’ Roses a Portland, infischiandocene che il giorno dopo ci sarebbe stato il compito in classe di matematica. Avevamo evitato quello che sarebbe stato altrimenti uno schifo. Col primo treno che ci era capitato ci recammo sul posto del concerto e dopo una notte indimenticabile eravamo tornati la mattina dopo, esausti per il viaggio. Quella sì che era stata una notte pazzesca, una delle migliori. Alzai gli occhi: il cielo infinito era ora ricoperto da nuvoloni grigi. Fra poco avrebbe incominciato a piovere e sarei dovuto rincasare al più presto, ma non mi importava. I temporali qui a Salem, e in tutto l’Oregon, erano micidiali. Arrivavano all’ improvviso e non facevi in tempo a ripararti sotto qualcosa, che ti ritrovavi già bagnato fradicio, dalla testa ai piedi. Decisi di ignorare il rombo dei tuoni che, prepotenti, iniziavano a farsi sentire. Continuai a camminare più veloce verso la zona dove abitava Matt. A un certo punto fui attirato da una lattina di birra abbandonata per la strada e iniziai a calciarla a destra e a manca, ma dopo qualche minuto mi stancai e la lasciai in pace. In giro c’era pochissima gente e i negozi si erano svuotati. Sembrava che la città si stesse preparando a una catastrofe naturale, mentre in realtà stava soltanto cercando di evitare un po’ di pioggia innocua.
Stavo attraversando un incrocio quando dal cielo incominciarono a cadere leggere gocce di pioggia che subito dopo qualche secondo diventarono sempre più forti, fino a formare delle impetuose cascate d’acqua. Ecco cosa intendevo per temporale dalle nostre parti. Tirai su il cappuccio della felpa e un fulmine squarciò il cielo etereo e grigio, seguito dal brontolio sommesso e profondo del tuono.
Ora si che mi sentivo meglio, sotto la pioggia e circondato dal rumore dei tuoni: corrispondevano esattamente al mio stato d’animo. Sembrava quasi che capissero come mi sentivo.
Il freddo si fece più intenso e fui costretto ad accelerare un po’ il passo. Le gocce di pioggia insistenti mi colpirono ripetutamente dappertutto.
Ero ancora in una delle strade principali quando, appena girato l’angolo, che dava su High Street, non feci in tempo a scansarmi che qualcuno mi arrivò addosso, ansimante. Una ragazza minuta mi arrivò in pieno petto. A metà tra l’imbarazzo e la sorpresa si staccò subito e fece un passo indietro.
“Scusa!” sussurrò senza fiato, come se avesse appena corso per chilometri. Dopodiché alzò immediatamente lo sguardo per vedere chi fossi. Rapito da quella voce imbarazzata, incrociai un paio di occhi verdi.
Rimasi di sasso. Quei lineamenti dolci e marcati allo stesso tempo, le labbra sottili, le folte sopracciglia scure e i folti capelli, tutto di lei mi suggeriva di averla già incontrata. E cosa forse ancora più strana, mi sentivo irrimediabilmente attratto da quella ragazza che mi stava di fronte, aspettando che dicessi qualcosa. Era assurdo e incomprensibile. Una forza invisibile ma potente mi teneva inchiodato lì, davanti a lei, come se la forza di gravità fosse aumentata di colpo sotto i miei piedi. Quasi non riuscii a parlare.
“Figurati.” Risposi dopo un po’, più turbato del dovuto.
Avevo la voce tremante e il respiro mozzato. Sperai che lei non se ne accorgesse. Cercai disperatamente di controllare le mie emozioni e con grande sforzo abbozzai un sorriso che lei ricambiò. Ero riuscito a malapena ad aprire bocca che mi era già passata di fianco e aveva incominciato a correre, diretta verso una meta a me sconosciuta e bagnata fradicia dalla testa ai piedi. Sentii il desiderio di seguirla, ma non lo feci.
Continuai per la mia strada, ma poi ebbi l’irresistibile impulso di girarmi un’ultima volta, prima che scomparisse per sempre alla mia vista. Con grande sorpresa notai che anche lei si era voltata e mi stava fissando.
Ma fu un attimo e continuò a correre più veloce che mai per la sua strada, fino a quando svoltò in un angolo e sparì completamente alla mia vista.
Provai disperatamente a ricordare qualcosa sul perché di quella strana sensazione di averla già vista da qualche parte. Mi concentrai con tutto me stesso. Anche se poteva sembrare solo una strana sensazione e niente di più, volevo comunque esserne sicuro. Chiusi gli occhi e fissai nella mia mente quel suo viso angelico (l’angelo ero io, che ironia eh?).
Come un fulmine a ciel sereno, ricordi vivi e temporaneamente sepolti riaffiorarono nella mia mente. Frammenti di scene accadute la sera prima affollarono la mia testa senza che io potessi fermarle. Vidi una casa in fondo a una strada, forse di periferia, che non conoscevo affatto, e vidi me stesso, trasportato verso di essa come se a muovere il mio corpo non fossi io, ma qualcun altro.
Come per quella ragazza avevo sentito un attrazione quasi mistica provenire da quel posto. Qualcosa di misterioso mi costringeva ad andare avanti e a non voltarmi indietro per nessun motivo.
Notai distrattamente quello che forse era un magazzino abbandonato, vicino alla casa. Tutta la mia attenzione era però rivolta alla veranda di quella casa, alla ragazza seduta su una panchina di legno e così assorta nella lettura di un libro, sotto la debole luce di una lanterna appesa sotto il porticato, e che avevo sbirciato affascinato da dietro un cespuglio, fino a quando lei non aveva alzato di scatto la testa verso la mia direzione, avendo percepito la mia presenza. Quella stessa ragazza che se ne era andata con la stessa velocità con cui era apparsa.
Era stato l’ultimo ricordo vivo e presente nella mia mente mentre di ciò che accadde immediatamente dopo ricordai solo quel terribile colpo alla testa, lo stesso che mi risvegliò in una realtà ben diversa e più terribile della precedente: nella cella in cui ero stato imprigionato per qualche oscuro e incomprensibile motivo. In qualche modo quella ragazza doveva essere implicata in quello che mi era successo la sera prima e forse col suo aiuto avrei scoperto qualcosa in più. Non potevano essere solo banali coincidenze. Dovevo tentare.
Improvvisamente il suono di un clacson mi riportò in strada. Una camion si fermò di colpo a qualche centimetro di distanza da me. Senza accorgermene ero finito in mezzo alla strada, proprio al centro delle due corsie e per poco non ero stato investito. Ci era mancato davvero poco.
“Stai più attento, ragazzo! Vuoi forse farti ammazzare?” La voce rozza ma bonaria del camionista mi rimproverò, preoccupato forse più per se stesso che per la mia incolumità.
“Mi scusi…”
Dove avevo la testa? Mi scansai e lui ripartì lasciandosi dietro una nuvola grigia di gas. Se volevo farmi ammazzare di sicuro non avrei scelto di suicidarmi in questo modo così doloroso, non che avessi intenzione di farlo, ma era il mio stesso corpo che aveva deciso di andarsene tranquillamente in mezzo alla strada per farsi investire. Stavo cominciando a non credere più alle coincidenze.
E se era questo il mio destino? Se l’incontro con quella ragazza misteriosa era già stato prestabilito? A poco a poco, dentro di me, si stavano facendo strada queste strane idee. E ultima, forse la più importante, forse la più inconcepibile: e se il fatto di essere un angelo implicasse la parola “immortalità”? Chi poteva dirlo, se non il destino a cui ormai mi ero completamente affidato?
 
  
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