Fissò per l’ennesima
volta il foglio bianco: erano passate due ore, e ancora non era riuscita a
mettere insieme due frasi che avessero un senso. Avrebbe dovuto consegnare
l’articolo la mattina seguente, ma non aveva la più pallida idea di come ci
sarebbe riuscita. I capelli rossi e riccissimi le incorniciavano il viso,
alcune ciocche le ricadevano davanti agli occhi, obbligandola, di tanto in
tanto, a scostarle con due dita e portarle dietro alle orecchie. Sospirò; così
non riusciva a lavorare. Chiuse il suo portatile e s’alzò dalla sedia per
dirigersi in cucina a prepararsi un caffè. Erano circa le due del mattino e la
casa era avvolta da un silenzio rassicurante. Sorseggiò l’espresso, posò la
tazzina nel secchiaio e ripercorse il corridoio illuminato dai deboli raggi
lunari. Non doveva cedere alla stanchezza, doveva finire quell’articolo, doveva
scrivere. Se non l’avesse portato entro qualche ora in redazione, avrebbe
potuto scordarsi definitivamente il posto di lavoro. E rimanere disoccupata non
era certo nei suoi piani. Aprì nuovamente il computer e tentò di concentrarsi.
Lentamente, quasi senza che se ne accorgesse, le dita iniziarono a battere sui
tasti.
Cinque ore più tardi,
dall’altro capo della città, Suzanne, una giovane studentessa universitaria, si
era svegliata in preda al panico per l’esame che avrebbe dovuto sostenere
quella mattina. Si alzò in fretta dal letto e si catapultò in bagno a vestirsi.
Infilò i soliti jeans stracciati e la maglia degli Aerosmith, pettinò alla
meglio la folta chioma bionda e, afferrate al volo una mela e la cartella, uscì
di casa. Mentre era per strada, il suo cellulare squillò.
- Pronto? -
- Ehi, Suz, dove cazzo sei? Tra poco si entra! – gridò la voce dell’amico
dall’altro capo del telefono.
- Sono per strada, Jeff, sto arrivando! – rispose affaticata mentre correva
lungo il marciapiede, facendo lo slalom tra i passanti.
- D’accordo, ma sbrigati! – disse, e riattaccò.
La ragazza prese a correre più forte, ormai erano le otto. Svoltò in un vicolo
e prese una scorciatoia.
Cambiò improvvisamente direzione, scansando al pelo un’anziana signora che le
sembrò essere piombata davanti a lei dal nulla. Finì dunque in mezzo alla
strada, che tentò disperatamente di attraversare, ma l’unico risultato che
ottenne fu l’essere praticamente presa sotto da un’auto color grigio
metallizzato. La vettura inchiodò, ma non riuscì ad evitare l’impatto con la
ragazza, la quale si ritrovò prima sul cofano del veicolo, e circa due secondi
dopo, sdraiata sull’asfalto. Era lucida, ma le doleva una gamba ed era
impossibilitata a muoverla.
Sentì qualche voce che chiamava aiuto, “chiamate un’ambulanza!” gridavano
alcuni.
- Sei sveglia?!- esclamò improvvisamente una voce femminile al suo fianco.
Annuì energicamente.
- Non preoccuparti, sta arrivando l’ambulanza – continuò quella voce.
- Ma non c’è alcun bisogno di un’ambulanza, sto bene! – disse provando ad
alzarsi, ma un dolore lancinante al ginocchio la bloccò.
- Ferma, non muoverti, potresti peggiorare le cose – le sussurrò la giovane
donna accanto a lei, facendola stendere nuovamente a terra. Dopo alcuni minuti
arrivarono due dottori che la caricarono su una barella per portarla al pronto
soccorso. La donna rimase in attesa della polizia per chiarire le cause
dell’incidente.
Gwen posò la penna, ormai stanca di scrivere, s’alzò e, preso il cappotto, uscì a fare una passeggiata, avvolta dall’aria di settembre. Le foglie cadevano dagli alberi ormai spogli e formavano piccoli turbini mossi dal vento. La ragazza si fermò dal fioraio a prendere le solite rose rosse. Ne prese cinque, senza farsi togliere le spine dai gambi, e si diresse a passo svelto verso il cimitero. Varcato il cancello, camminò lungo il campo disseminato di lapidi, finché non giunse alla tomba di lei.
Suzanne Smith,
Seattle 1973- New York 1994.
La donna si sedette lì vicino, coi fiori in grembo, come era
solita fare da ormai quasi vent’anni.
- Ehi, Suz, come va? – cominciò. Due ragazzini che erano con la nonna si
voltarono e la guardarono storto, ma lei con ci badò.
- Sai, Bret ha fatto il grande passo, finalmente. Mi ha chiesto di sposarlo! E’
stato così romantico! Mi ha portato fuori a cena e mentre tornavamo si è
inginocchiato, mostrandomi l’anello, e ha fatto la proposta – disse, sfiorando
con le dita il piccolo diamante aveva al dito. Una lacrima le solcò il volto.
- Avresti dovuto vederlo, era così commosso quando gli ho risposto di sì! –
continuò sorridendo, mentre le lacrime avevano preso a scendere più
velocemente.
- I ragazzi sono stati entusiasti della notizia! In particolare poi, la piccola
Emma era felicissima! – sussurrò con la voce rotta dal pianto. Una goccia cadde
su un petalo rosso vermiglio. Il cellulare vibrò nella borsa e Gwen,
asciugandosi le guance, frugò al suo interno per vedere chi fosse. Bret.
- Devo andare, Suz, ci vediamo domani! – bisbigliò posando con grazia le rose
sulla tomba .
- Ciao! – concluse voltandosi e uscendo in fretta dal cimitero.
Suz era sul letto
d’ospedale, con una gamba ingessata e una fame terribile. Non riusciva a non
pensare di aver perso l’esame, e tutto per la sua stupida fretta.
Continuava a maledirsi per non essere stata più attenta. Aveva giusto esaurito
gli insulti esistenti da rivolgersi, quando un bussare delicato la destò dalla
concentrazione in cui si era rifugiata per crearne di nuovi.
- Avanti – disse.
Una folta chioma rossa fece il suo ingresso all’interno della stanza,
timidamente.
- E’ permesso? – mormorò con voce delicata.
La donna dell’auto metallizzata, pensò Suzanne.
- Certo, vieni pure – rispose. Guardandola, Suz notò che non doveva essere
tanto più grande di lei.
- Come ti chiami? – chiese.
- Gwen – disse piano.
- Io sono Suzanne, molto piacere – fece la ragazza, porgendole una mano. Gwen
s’affrettò ad avvicinarsi al letto per stringerla.
- Piacere mio – sussurrò un po’ sconcertata dalla cordialità della fanciulla.
In fondo, l’aveva investita appena un’ora prima.
- Quanti anni hai? – domandò curiosa.
- Ventiquattro, tu? -
- Ventuno – rispose Suzanne. Come immaginava, non era tanto più anziana di lei.
- Senti … ero venuta a vedere come stavi, sai, per l’incidente … sono
mortificata – cominciò Gwen.
- Oh, non ti devi preoccupare, andavo così di fretta! Ecco, correvo
all’università, avevo un esame importante e mi ero svegliata tardi … a questo
punto suppongo sia rimandato! – disse la ragazza.
- Mi dispiace, davvero. Che università frequenti? – chiese.
- Lettere -
- Anch’io ho fatto lettere, sono uscita l’anno scorso! Ora scrivo per un
giornale locale, ma ancora non sono sicura che sia la carriera che voglio
intraprendere … almeno non in definitiva. Il mio sogno sarebbe scrivere per
conto mio, scrivere romanzi – spiegò Gwen.
- Io invece, una volta uscita, voglio diventare insegnante! – esclamò Suz.
- Davvero interessante! Oh, ti piacciono gli Aerosmith? – fece la rossa,
indicando la maglietta appoggiata allo schienale di una sedia.
Suzanne sorrise.
- Li conosci? Sono il mio gruppo preferito! -
- Certo che li conosco! Mio fratello li ascoltava continuamente … - mormorò con
aria persa.
- As … ascoltava? – azzardò timorosa Suzanne, nella speranza che il ragazzo in
questione non fosse morto.
- Eh sì, ora è passato ad un genere del tutto diverso, si è buttato a capofitto
nella musica Jazz, ma conserva i suoi vinili come tesori! – disse.
- Ah! – esclamò la bionda, sollevata.
La conversazione venne interrotta da un’infermiera che fece una brusca
irruzione nella stanza.
- Signorina, devo chiederle di uscire, l’orario di visita è finito, può tornare
oggi pomeriggio, dalle tre alle sei – annunciò rivolta a Gwen.
- Certamente. Allora ci vediamo oggi pomeriggio, Suzanne, ciao! – disse alla
ragazza sorridendo.
- Ciao Gwen! – rispose, e sorrise di rimando.