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Autore: MedusaNoir    20/12/2011    4 recensioni
Si rividero il giorno seguente e molti altri ancora, senza mai svelarsi quel particolare essenziale.
- Hai paura di affezionarti dandomi un nome? – provò a scherzare una volta Manuel, passandole un braccio attorno alle spalle. - Dai, dimmelo, dimmelo, dimmelo, dimmelo, dimmelo!
- Mi piace questo senso di mistero – rispose la ragazza con un sorriso.
Genere: Commedia, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Sulle note di Cat Stevens'
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Consiglio (tu no, sei OBBLIGATA a farlo!), prima di leggere la storia, di ascoltare la canzone "Sintetico" dei No Wow.


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Cercando il suo nome

Fammi provare altri pensieri,

sentirli sotto pelle.

Lasciali fare il loro effetto,

io mando giù altri riflessi

per tornare a pensare

che ci si può intrattenere

senza farsi male.

 

- E’ il tuo turno, preparati.

L’uomo calvo e tarchiato gli parlò in fretta, senza considerare che il ragazzo avrebbe potuto non capire il suo stretto dialetto di Brooklyn, e se ne andò lasciandolo solo con la sua Gibson; tuttavia, a Manuel bastò lanciare un’occhiata all’artista che stava terminando la propria esibizione sul palco del Blue Velvet per comprendere le parole del padrone del locale. Imbracciò la chitarra, salutò con un cenno della mano il barista con cui aveva passato la sera a chiacchierare e si preparò ad entrare in scena.

In tutte le sei settimane che aveva trascorso a Brooklyn, Manuel era riuscito a salire su un palco solo tre volte, limitandosi a suonare alle entrate della metropolitana per puro divertimento. Non che non cercasse di diventare un musicista di talento; al contrario, era approdato negli Stati Uniti per seguire un corso che sarebbe durato tre mesi. Come sempre, non aveva detto niente ai genitori e agli amici, che la sera della sua partenza lo aspettavano al solito pub per festeggiare i suoi ventisette anni, ma si era limitato a una breve telefonata in cui avvertiva il fratello che sarebbe stato via per un po’.

L’emozione di essere al centro dell’attenzione lo colse all’improvviso quando si ritrovò sotto lo sguardo dei frequentatori assidui del Blue Velvet, tra cui – gli aveva raccontato il barista, italiano come lui – molto spesso si potevano trovare dei talent scout. Cercando di non farsi sopraffare dal nervosismo, decise di osservare un punto fisso nel locale per tutta la durata della canzone.

Solo quando le corde della Gibson smisero di vibrare, si concesse un sorriso emozionato e ringraziò il pubblico, continuando a tenere lo sguardo su quel punto indefinito. Fu solo allora che se ne accorse: per quelli che gli erano sembrati cinque lunghissimi minuti, aveva avuto gli occhi puntati su una ragazza bionda seduta al bancone, che ora le restituiva il sorriso.

Riesci a fare colpo anche senza accorgertene, si complimentò con se stesso. Vai così, Manuel!

Scese dal palco e raggiunse il bancone, la fidata Gibson nella custodia ancorata alle sue spalle, in apparenza per chiedere al barista come pensava che fosse andato. Si voltò poi verso la ragazza, offrendole da bere.

- Ho appena compiuto ventuno anni – rispose lei con una pronuncia più chiara del tarchiato proprietario del locale. – Quindi direi di sì, molto volentieri.

Manuel cominciò a scherzare con la ragazza, parlando di musica e della propria città natale, ascoltando i suoi aneddoti del college, ma mai, per le due ore che trascorsero a parlare, si rivelarono i loro nomi. Lei gli lasciò un biglietto con il proprio numero e Manuel si rese conto allora di non sapere come si chiamasse quell’angelo dai brillanti occhi azzurri; si passò una mano tra i capelli neri, presentandosi e chiedendole il suo nome, ma la ragazza si limitò a fargli l’occhiolino uscendo dal Blue Velvet.

- Chiamami – disse solo.

 

Si rividero il giorno seguente e molti altri ancora, senza mai svelarsi quel particolare essenziale.

- Hai paura di affezionarti dandomi un nome? – provò a scherzare una volta Manuel, passandole un braccio attorno alle spalle. - Dai, dimmelo, dimmelo, dimmelo, dimmelo, dimmelo!

- Mi piace questo senso di mistero – rispose la ragazza con un sorriso.

Andavano al cinema, passeggiavano per il parco, si attaccavano lo zucchero filato tra i capelli e poi correvano sotto la pioggia, peggiorando solo la situazione; lei lo andava a prendere al termine delle lezioni, lui entrava di nascosto nel suo dormitorio quando le compagne di stanza erano a casa dei genitori per il fine settimana. Uscivano quasi tutte le sere, recandosi al Blue Velvet o in qualsiasi altro pub incontrassero sulla strada, ma evitavano accuratamente di stare in compagnia di persone conosciute: nell’ultimo mese e mezzo che Manuel passò a Brooklyn, la ragazza non gli presentò mai una sua amica, né lui le fece conoscere i compagni del corso. Erano solo loro due, l’italiano e l’americana, che si divertivano a rotolarsi nei prati e a comporre canzoni. Lei aveva una voce angelica, adatta alle note che Manuel suonava accarezzando le corde della Gibson, e il ragazzo si ritrovava sempre più spesso ad osservarla estasiato, chiedendosi cosa mai ci trovasse in lui.

Poi, come avevano saputo fin dall’inizio, il tempo a loro disposizione terminò.

 

Eppure a volte ancora respiro

il profumo sintetico delle tue parole,

evaporato per restare attaccato

a sensazioni nuove,

ad atmosfere perse,

vissute di già.

 

Non ci furono lacrime e frasi d’amore quando Manuel entrò nell’aeroporto, ci fu solo un abbraccio terminato con un fugace bacio sulle labbra. La ragazza sorrideva, sembrava che stesse salutando un parente che avrebbe rivisto a Natale, e solo Manuel avvertiva una stretta nello stomaco, anche se non lo diede a vedere e si comportò come sempre, continuando a sbracciarsi in segno di saluto mentre andava ad imbarcarsi. Neanche allora si dissero i loro nomi.

Una volta preso posto sull’aereo, le dieci ore di volo che lo aspettavano pesarono come massi sul petto di Manuel; non sarebbe riuscito a dormire per l’emozione del ritorno e di ciò che si stava lasciando indietro, non avrebbe nemmeno potuto ascoltare musica, sapendo che la voce che sarebbe uscita dalle cuffie non sarebbe stata la sua.

Allora gli venne alla mente una frase di Camus: “Un uomo che fosse vissuto un giorno solo potrebbe senza difficoltà vivere cento anni in una prigione. Avrebbe abbastanza ricordi per non annoiarsi”. Lui non era vissuto un giorno solo passeggiando per le strade di Brooklyn con quell’angelo biondo, i ricordi del breve periodo passato insieme lo avrebbero accompagnato per quelle dieci ore. Preferiva pensare a ciò che era stato, piuttosto che al silenzio che ora sentiva premere sulle sue orecchie.

Chiuse gli occhi, imparò a ricordare. La prima immagine che gli salì alla mente fu di un pomeriggio al Sunset Park, pochi giorni dopo il loro incontro; stavano camminando, con in mano un gelato, tra gli americani che sdraiati sull’erba accoglievano l’arrivo dell’estate.

- Devo consegnare la relazione sull’Impero Romano entro martedì – aveva sospirato la ragazza, lo sguardo perso rivolto alle poche nuvole. – Non mi va di passare l’intero fine settimana chiusa in biblioteca…

- Ti do una mano io!

- Dici sul serio?

In quel momento i suoi occhi azzurri avevano cominciato a brillare, spostandosi su Manuel.

- Certo! In due magari riusciamo a finire prima, così possiamo anche andare a vedere quel film di Woody Allen che è appena uscito.

- Oh, sei il tesoro!

Gli aveva circondato il collo con le braccia, sporcandogli la maglietta di cioccolato e panna, e lo aveva baciato per la prima volta. Manuel era rimasto senza parole per quel gesto improvviso e la cosa più intelligente che riuscì a dire quando lei ebbe allontanato le sue labbra fu: - Si dice un tesoro, non il tesoro.

Un sorriso attraversò il volto di Manuel, mentre ripensava alle lezioni di italiano che aveva impartito alla ragazza, desiderosa di apprendere una nuova lingua come una bambina che andava a scuola per la prima volta.

- Mi insegni a suonare la chitarra?

- Solo se me lo chiedi in italiano. Mi insegni a suonare la chitarra?

- Mi insegni… a… Com’era?

- Suonare

- Sunare

Manuel era scoppiato a ridere. – Suonare, non sunare!

- Non lo imparerò mai! Dovresti parlarmi in italiano sempre, così mi abituo.

L’aveva fissata negli occhi, la testa sulle sue gambe e le dita tra i capelli biondi. Si guardavano, lei leggermente imbronciata e lui addolcito da quella visione.

- Sei bellissima.

- Che significa?

- Non te lo dico: voglio vedere se riuscirai a capirlo da sola!

Il sorriso di Manuel si affievolì, mentre la consapevolezza che non l’avrebbe più incontrata si faceva largo nella sua mente.

Quella sera avrebbe dormito nel suo appartamento, era troppo tardi per riaccompagnarla fino al college. Lei stava ridendo a una sua battuta, lui cercava di farla divertire ancora di più imitando la cameriera del ristorante dove avevano cenato: aveva gonfiato le guance, si era portato le mani ai fianchi e aveva cominciato a parlare con modi bruschi.

- Smettila!

- “Avete deciso cosa ordinare, allora? Non posso stare qui tutta la sera, ho lasciato il camion in doppia fila!”

- Dai, non riesco a reggermi in piedi!

Manuel l’aveva afferrata prima che cadesse lungo le scale, scossa da un attacco irrefrenabile di risa; l’aveva presa in braccio, trasportandola fino al letto che si trovava addossato ad una parete nell’unica stanza dell’appartamento.

- Tu vivi in questo posto? – aveva esclamato la ragazza, guardandosi attorno stupita.

- Non potevo permettermi di meglio – si era limitato a rispondere Manuel, stringendosi nelle spalle. Aveva abbassato lo sguardo su di lei, passandole un dito sulle guance morbide e baciandole delicatamente le labbra rosse. – Sei bellissima

- Grazie -. Lei era arrossita, mostrando di avere finalmente capito quelle due parole.

- Puoi dormire qui, io mi accontenterò del divano. Fa un po’ freddo, ma la finestra è rotta e i giornali che ci ho messo non sono serviti a molto…

Improvvisamente la ragazza lo aveva tirato a sé, facendolo cadere in ginocchio sul letto. Si era avvicinata al suo orecchio, sussurrando dolcemente. – Facciamo l’amore?

Manuel infilò le cuffie, ora pronto ad ascoltare qualsiasi voce, ma non la sua, che gli riecheggiava ancora nella testa.

 

Non scende l’effetto dei tuoi sorrisi,

ancora, le immagini, posso toccarle,

assaporarle un po’, giusto il tempo

di assaggiare e andarmene

con in bocca un sapore dolciastro

che rende amaro ogni sorriso.

 

Era una fortuna che il supermercato di Gloucester Road restasse aperto fino a tardi: in quel modo, Manuel poteva evitare di preoccuparsi di tornare in albergo presto solo per riuscire a comprare insalata e macedonia in scatolette trasparenti. Tre anni dopo il corso a Brooklyn, era stato accettato ad una nuova scuola di tre settimane a Londra, trascinandosi sempre dietro la fidata Gibson; aveva suonato per qualche mese il basso nei Moonlight Sonada, ma il gruppo si era sciolto e si stava riformando sotto il nome di Lilim, e finalmente lui sarebbe tornato a imbracciare la Gibson. Era scappato, però, gli serviva un po’ di tempo per accettare l’addio alla chitarra di Marco, il suo amico di sempre, e l’opportunità di un nuovo corso in Inghilterra l’aveva attratto come una splendida opportunità per maturare musicalmente e allo stesso tempo tenere a bada le emozioni. Non sopportava gli addii, no, soprattutto da quando aveva vissuto quella strana esperienza negli Stati Uniti. Strana: non poteva definirla in un altro modo.

E ora perché, a tre anni di distanza, quell’angelo biondo tornava a fare capolino nella sua testa? Certo, “tornava”, come se a intervalli più o meno brevi di tempo lui non ci pensasse! A volte i ricordi erano talmente dolci da far spuntare sul suo volto un sorriso amaro.

Distolse lo sguardo dallo scaffale delle insalate in scatola, pensando che avrebbe preferito di gran lunga, per una volta, mangiare un panino. Mentre cercava gli affettati, però, sussultò.

Non è possibile, ora ho perfino le visioni! Manuel, devi smettere di mangiare questa robaccia, chissà che ci mettono dentro!

Guardò i capelli della ragazza china sullo scaffale più basso, le ginocchia leggermente sollevate da terra. Di spalle somigliava incredibilmente al ricordo che si portava dietro da tre anni. La sentì imprecare in inglese, forse perché non trovava il barattolo di sugo che le serviva, e per un momento il suo cuore si fermò; gli ci volle qualche secondo, prima di ricordare che si trovava in Inghilterra.

Tuttavia, continuava ad osservare il suo profilo, la mano che spostava dietro l’orecchio i capelli biondi, e nel suo petto qualcosa parve esplodere. Cercando di trattenere l’emozione, si inginocchiò accanto a lei.

- Serve aiuto? – chiese in inglese.

La ragazza alzò lo sguardo su di lui, uno sguardo pieno di rabbia, e Manuel credette che avrebbe potuto facilmente aggredirlo per averla importunata. Poi la sua espressione dura si rilassò, la rabbia cedette lo spazio alla sorpresa e gli occhi si spalancarono allo stesso modo del sorriso di Manuel.

- Non riesci proprio a stare senza di me, eh? – scherzò il ragazzo, alzandosi e abbracciandola.

- Ma… Mi hai preso in giro! – replicò la ragazza. – Mi avevi detto di essere italiano, e ora ti trovo a Londra?

- E’ il destino, che vuoi farci?

Osservandola attentamente, Manuel si accorse che aveva ragione, era la ragazza americana che da tre anni le occupava la mente, ma sembrava in qualche modo diversa: i suoi lineamenti erano meno delicati, gli occhi azzurri erano offuscati dal un velo di tristezza e i capelli erano di un biondo quasi sporco. Portava delle ferite più evidenti di qualsiasi graffio o livido sulla pelle.

- Mi stai ascoltando?

Manuel sussultò per l’ennesima volta e si accorse che, fino a quel momento, la ragazza gli aveva parlato. – Scusa, cosa stavi dicendo?

- Ti ho chiesto come mai fossi qui.

- Ma per inseguire te, mia bella.

- Raccontane un’altra – sbuffò lei, arricciando le labbra. Un altro segno del suo cambiamento: l’angelo biondo che aveva conosciuto a Brooklyn appariva lusingata ogni volta che lui le rivolgeva un complimento, arrossendo anche a volte; questa ragazza, invece, si limitò ad afferrare il barattolo di sugo che cercava e a metterlo nel cestino della spesa.

- Ceni da sola?

- Sono le nove, potrei anche cercare l’occorrente per il pranzo di domani.

- No, devi ancora cenare, ho sentito il tuo stomaco.

La ragazza azzardò una breve risata.

- Posso invitarti a cena come un tempo?

Lei sembrò riflettere, inspirando profondamente e guardandosi attorno, poi accennò un sorriso. – Sì, accetto volentieri.

- Bene, allora lasciamo tutto qui e scappiamo a Craven Road! – esclamò Manuel, prendendola sottobraccio. – Conosco un ristorante italiano in cui fanno degli spaghetti che sono la fine del mondo.

- Ehi, e la spesa?

- Torneremo a farla dopo, questo supermercato rimane aperto fino alle due -. Aggrottò le sopracciglia, lanciandole un’occhiata sorpresa. – Un tempo non ti saresti posta certe domande.

Finalmente la ragazza si lasciò andare un vero sorriso. – Hai ragione: che ci importa della spesa, andiamo a divertirci!

Attraversarono Kensington Gardens e raggiunsero Craven Road chiacchierando allegramente, spensierati come un tempo, quando vivevano la loro storia al presente, senza pensare al futuro; ogni tanto lui le indicava le stelle e fingeva di descrivere le costellazioni, ogni tanto lei rideva e lo prendeva in giro ricordando il passato.

 

- Ricordi quando ti eri finto offeso perché quel commesso ti aveva scambiato per un uomo? – esclamò la ragazza mentre tornavano indietro dopo cena, abbracciati per il freddo. – Non riusciva a credere che tu fossi una donna!

- A pensarci ora, è stato uno scherzo parecchio idiota – rifletté Manuel.

- Anche perché poi è intervenuta la sicurezza.

- Stavo quasi per dimenticarmi questo dettaglio! E abbiamo corso per tutto il centro commerciale facendo impazzire la guardia, è stato stupendo!

Si fermarono di fronte all’albergo di Manuel, ridendo ancora, pervasi dall’euforia di essersi rivisti.

- Cavolo! – esclamò Manuel, dandosi uno schiaffo sulla fronte. – Abbiamo dimenticato la spesa.

- Che importa? Andremo a farla domani.

- Mi piace questo spirito, donna -. Si guardò intorno e si rese conto di essere arrivato. – Scusa, sono un maleducato: avrei dovuto accompagnarti al tuo hotel e invece ho proceduto imperterrito verso il mio. Dov’è che alloggi?

- Non ho un hotel, sto a casa di una zia che ora è in viaggio. Non è lontana da qui, comunque, posso andarci da sola…

- Non se ne parla nemmeno, ti accompagnerò.

- E se invece mi facessi salire?

Manuel la guardò negli occhi, scorse di nuovo quel velo di tristezza che aveva scovato all’inizio e interpretò le sue parole come una disperata richiesta d’aiuto.

- Sali pure – le sorrise.

 

- E’ quasi più grande questa stanza dell’appartamento che avevi a Brooklyn! – lo prese in giro la ragazza. – Come mai hai preso una matrimoniale?

- Era rimasta solo questa, ho saputo all’ultimo momento che mi avevano accettato al corso. Ne ho approfittato per scappare.

- Anch’io.

Manuel si voltò verso la ragazza, che si era seduta sul letto e guardava davanti a sé, ancora una volta con la testa fra le nuvole. Si sedette accanto a lei.

- Sei scappata?

Lei annuì. – Ma parliamo di altro, ti va?

- Già, come del fatto che tu non dovresti essere qui.

Lo guardò, Manuel era stranamente serio: respirava profondamente, non riusciva a tenere lo sguardo su di lei e si passava con nervosismo la mano tra i capelli.

- Perché? – gli chiese, sebbene conoscesse già la risposta.

- Perché tra esattamente trenta secondi ti bacerò e ti sdraierò sul letto, e ti toglierò la maglietta, e faremo l’amore, e quello che è successo tre anni fa tornerà a galla.

Si era avvicinato al suo volto, sentiva il respiro della ragazza addosso. Poi, qualche istante dopo, lei parlò, la voce leggermente vibrante.

- Trenta.

Le loro labbra si incontrarono per la prima volta dopo anni, senza la tenerezza del primo bacio, senza l’abitudine, ma con un’insolita ebbrezza. Manuel non aveva mai provato la sensazione di fare qualcosa di sbagliato perché non sapeva come sarebbe stata la vita dopo quel mese e mezzo passato insieme, ma ora era conscio di ciò che volesse dire vivere senza di lei: non era male, si andava avanti, però mancava qualcosa.

La spinse sul letto, sfiorandole il collo con le punte calde delle dita; lei rabbrividì mentre le mani di Manuel le sfilavano la maglietta, percorrendo delicatamente la curva della schiena. Le baciò le spalle, passò alle braccia, la ricoprì di carezze e respiri strozzati, poi tornò sulle sue labbra, ne approfittò a lungo per potersene portare via il ricordo più nitido possibile.

 

La mattina seguente, prima ancora che i raggi del sole riuscissero a penetrare le pesanti nubi che oscuravano la finestra della sua camera, Manuel fu svegliato dallo squillo di un telefono. Senza uscire dal piumone, allungò il braccio sul comodino alla ricerca del suo cellulare, poi la musica cessò, sostituita immediatamente da una voce melodiosa.

- Pronto, sono Heather.

Heather.

Manuel spalancò gli occhi, allontanando immediatamente da sé tutta la stanchezza, affiorò dalle coperte e cercò di pensare a mente lucida. Così era quello il suo nome; dopo tre anni di vuoto, un nome. In quel momento si rese conto di quanta importanza avesse un nome, a differenza di quello che diceva Giulietta. E ora perché gli venivano in mente Romeo e Giulietta? Scacciò quel pensiero per ascoltare la conversazione. Ora il tono di Heather – ma sì, non avrebbe potuto avere un altro nome! – gli sembrava più alto, avvertiva un forte fastidio nella sua voce.

- Chi ti ha dato questo numero? Avanti, Rob, parla e dimmi chi è stato! Non ho voglia di stare ad ascoltare le tue… No, Rob, quante volte devo ripetertelo? Non tornerò a casa, non finché ci sarai tu ad aspettarmi. Ma quale altro uomo! Abbiamo fatto una cavolata, capisci? E ora è finita, finita! Sto attaccando, Rob, e oggi pomeriggio andrò a comprare un’altra scheda, ma stavolta mi vedrò bene dal dare il mio numero a persone inaffidabili. Non cercarmi più.

Spinse il tasto per chiudere la chiamata e respirò profondamente, prima di lanciare il telefono sul letto.

- Così il motivo per cui eri triste era un uomo – esordì Manuel, fingendo indifferenza. Si era reso conto in un attimo che, se Heather avesse rivolto quelle parole a lui, si sarebbe sentito come se il mondo gli stesse crollando addosso.

Heather sollevò lo sguardo, gli occhi rossi: sembrò accorgersi solo in quell’istante che c’era anche lui. Si alzò di scatto dal letto, mettendo delle distanze fra loro due.

- Già, e tu sei appena andato a letto con una donna sposata. Come ti senti ora? Tradito, deluso?

- Sento una fitta al cuore – rispose sinceramente Manuel.

Heather non parve stupita della sua schiettezza, ma al contrario di come avrebbe fatto tre anni prima, quando si sarebbe avvicinato a lui per stringerlo in un affettuoso abbraccio, afferrò i propri vestiti e li indossò di corsa.

- Ti ho sempre preso in giro – sbottò, infilando la maglietta dei Sex Pistols. – Ricordi i nostri incontri a Brooklyn? Ricordi che non volevo farti conoscere le mie amiche, né darti un nome? Non volevo farmi rintracciare, non volevo che qualcuno scoprisse la mia tresca clandestina con un ragazzo che non era il mio promesso sposo! Lui era partito per lavoro, mi aveva lasciata sola lì, tra il college e le serate nei pub, e io mi ero accorta improvvisamente che la mia vita era già stesa davanti a me, che non avevo più niente da scegliere: c’erano lui, un matrimonio e una vita da moglie rispettabile di un manager così famoso per la sua età. Mi sono sentita in gabbia e quando ti ho visto… quando ho notato che mi guardavi, e mi sorridevi, non ho potuto fare a meno di sorriderti anch’io, di accoglierti nella mia vita perché volevo assolutamente un cambiamento, una possibilità di scelta. Come sarebbe potuto essere il mio mondo accanto ad un’altra persona? -. Heather aveva le lacrime agli occhi mentre si gettava sulle spalle il giubbotto grigio. Sparò tutto quello che le passava per la testa, senza nemmeno dare il tempo a Manuel di digerire quelle rivelazioni. - Quel mese e mezzo con te è stato fantastico, anche troppo, perché poi non ho saputo dimenticare quanto fossi stata bene in tua compagnia… E… e ora t-tu sei t-tornato qui, durante la mia f-fuga da Robert, da questo matrimonio che non p-poteva andare avanti, e d-di nuovo mi s-sento priva di scelta e…

- Resta con me! – esclamò Manuel, interrompendola. Le prese le mani, ma lei lo scacciò. – Hai detto che il tuo matrimonio non poteva andare avanti, no? Che non sei riuscita a dimenticarmi… Nemmeno io ce l’ho mai fatta, Heather, è impossibile scacciarti dalla mia mente!

- Dovrai farlo! – strillò Heather con voce acuta. – Dimenticami, io mi dimenticherò di te!

Afferrò la borsa e uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Per la prima volta, a Manuel non venne in mente nessun gesto plateale da compiere, nessuna pazzia, nessun ultimo tentativo: per quanto volesse ancora stringerla tra le braccia, la Heather che aveva appena conosciuto era diversa da quella di cui si era innamorato, e lui aveva paura di scoprire quale delle due fosse quella vera.

 

Ma non mi lasci spazio,

anche se credi che non essendoci

non mi occupi i pensieri.

 

Manuel odiava gli addii. Dopo tutti quelli che aveva dovuto sopportare nella sua vita, quello a Heather era sicuramente il più duro di tutti, peggiore perfino dell’abbandono di Marco, che comunque era rimasto il suo migliore amico, sempre disposto ad ascoltarlo in qualsiasi momento.

La notte che aveva passato con Heather a Londra, mentre lei dormiva lui aveva infilato un pezzo di carta nella sua borsa, dandole un indirizzo, un numero, tutto ciò che potesse servirle in caso avesse desiderato contattarlo. Quelle poche righe scribacchiate in fretta, al buio, tennero viva la speranza in lui nei mesi che seguirono. Ogni volta che il telefono squillava, lui saltava dal letto e correva a rispondere, cercando poi di mantenere un tono tranquillo quando non era la sua voce angelica a parlare dall’altra parte; gli sembrava di vederla ovunque, al supermercato, al cinema, nel parco sotto casa: Heather era costantemente presente nella sua vita.

Quella sera di settembre i Lilim avrebbero tenuto il loro terzo concerto, il primo in presenza di un talent scout; si erano esercitati tutta l’estate, sperando di poter sfruttare una possibilità del genere, quando e se sarebbe arrivata, e ora era la loro grande occasione.

Manuel era nervoso, continuava ad accordare la sua Gibson, lanciando occhiate agli strumenti disposti sul palco e chiedendo agli altri componenti del gruppo se si sentissero pronti. A pochi minuti dall’inizio del concerto, avvistò Marco tra il pubblico e corse da lui, sapendo che il suo amico non si sarebbe fatto avanti con Aurora ed Ettore nelle vicinanze.

- Se non smetti di tremare, non riuscirai certo a tenere in mano la chitarra! – lo prese in giro Marco, guardandosi attorno.

- Sono dietro al palco, ripassano il nuovo pezzo.

- Di chi…?

- Davide e gli altri tre – rispose Manuel, cercando di non nominare l’ex ragazza del suo amico e il suo attuale fidanzato.

- Ah, sì, ok – si limitò a dire Marco, sovrappensiero.

Manuel aggrottò la fronte, ma non chiese altro perché Simona venne a chiamarlo per salire sul palco.

Il nervosismo scomparve quando le corde della Gibson iniziarono a vibrare sotto le dita di Manuel, che scacciò l’ansia per lasciare spazio ad una piacevole sensazione di euforia. Si muoveva lungo il palco tra gli altri componenti della band, appoggiò la schiena a quella di Simona e poi scivolò a terra ai piedi di Aurora, suonando le ultime note di una canzone.

Quando cominciarono il nuovo pezzo, con la coda dell’occhio notò che Marco stava sorridendo a qualcuno che aveva avvistato in lontananza. Sorrise a sua volta, felice all’idea che il suo amico avesse finalmente ritrovato l’amore, e seguì il suo sguardo; solo allora si accorse di una chioma biondo scuro che si muoveva tra il pubblico, cercando di raggiungere le prime file. Sentì una stretta allo stomaco mentre una ragazza in minigonna appariva al fianco di Marco, sorridendo timidamente nella direzione del chitarrista.

Manuel non riusciva a crederci, l’emozione era tale che pensava di non potere trattenerla; tuttavia, riuscì a terminare la canzone, suonando come se ad accompagnarlo non fosse la voce di Aurora, ma di un incantevole angelo biondo.

Aspettò che Ettore terminasse la canzone, poi non si soffermò nemmeno ad accogliere gli applausi del pubblico. Si tolse in fretta la Gibson, la lasciò a terra, sola e indifesa per la prima volta, e saltò dal palco per correre tra le braccia di Heather.

Il talent scout avrebbe valutato negativamente quel gesto? I Lilim avevano appena perso l’occasione di fare carriera? Non gli importava: in quel momento la sua mente era occupata da un unico pensiero, in quel momento gli occhi azzurri di una giovane ragazza americana, di nuovo brillanti, erano davanti ai suoi.

Heather.

 

Rendili reali.

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E questo era il mio personale regalo di compleanno per una persona che merita questo e tanto altro, una marea di altro. Non serve dire il suo nome, no? :3

Dirti che ti voglio bene è riduttivo :) Buon compleanno, "Luna" (la migliore scrittrice diciassettenne)!


Arianna (ehm, volevo dire Medusa!)

   
 
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