Si rividero il giorno seguente e molti altri ancora, senza mai svelarsi quel particolare essenziale.
- Hai paura di affezionarti dandomi un nome? – provò a scherzare una volta Manuel, passandole un braccio attorno alle spalle. - Dai, dimmelo, dimmelo, dimmelo, dimmelo, dimmelo!
- Mi piace questo senso di mistero – rispose la ragazza con un sorriso.
Genere: Commedia, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
L’uomo
calvo e tarchiato gli parlò in fretta, senza
considerare che il ragazzo avrebbe potuto non capire il suo stretto
dialetto di
Brooklyn, e se ne andò lasciandolo solo con la sua Gibson;
tuttavia, a Manuel
bastò lanciare un’occhiata all’artista
che stava terminando la propria esibizione
sul palco del Blue Velvet per comprendere le parole del padrone del
locale.
Imbracciò la chitarra, salutò con un cenno della
mano il barista con cui aveva
passato la sera a chiacchierare e si preparò ad entrare in
scena.
In
tutte le sei settimane che aveva trascorso a Brooklyn,
Manuel era riuscito a salire su un palco solo tre volte, limitandosi a
suonare
alle entrate della metropolitana per puro divertimento. Non che non
cercasse di
diventare un musicista di talento; al contrario, era approdato negli
Stati
Uniti per seguire un corso che sarebbe durato tre mesi. Come sempre,
non aveva
detto niente ai genitori e agli amici, che la sera della sua partenza
lo
aspettavano al solito pub per festeggiare i suoi ventisette anni, ma si
era
limitato a una breve telefonata in cui avvertiva il fratello che
sarebbe stato
via per un po’.
L’emozione
di essere al centro dell’attenzione lo colse
all’improvviso quando si ritrovò sotto lo sguardo
dei frequentatori assidui del
Blue Velvet, tra cui – gli aveva raccontato il barista,
italiano come lui –
molto spesso si potevano trovare dei talent scout. Cercando di non
farsi
sopraffare dal nervosismo, decise di osservare un punto fisso nel
locale per
tutta la durata della canzone.
Solo
quando le corde della Gibson smisero di vibrare, si
concesse un sorriso emozionato e ringraziò il pubblico,
continuando a tenere lo
sguardo su quel punto indefinito. Fu solo allora che se ne accorse: per
quelli
che gli erano sembrati cinque lunghissimi minuti, aveva avuto gli occhi
puntati
su una ragazza bionda seduta al bancone, che ora le restituiva il
sorriso.
Riesci a fare colpo
anche senza accorgertene, si complimentò con se
stesso. Vai così, Manuel!
Scese
dal palco e raggiunse il bancone, la fidata Gibson
nella custodia ancorata alle sue spalle, in apparenza per chiedere al
barista
come pensava che fosse andato. Si voltò poi verso la
ragazza, offrendole da
bere.
-
Ho appena compiuto ventuno anni – rispose lei con una
pronuncia più chiara del tarchiato proprietario del locale.
– Quindi direi di
sì, molto volentieri.
Manuel
cominciò a scherzare con la ragazza, parlando di
musica e della propria città natale, ascoltando i suoi
aneddoti del college, ma
mai, per le due ore che trascorsero a parlare, si rivelarono i loro
nomi. Lei
gli lasciò un biglietto con il proprio numero e Manuel si
rese conto allora di
non sapere come si chiamasse quell’angelo dai brillanti occhi
azzurri; si passò
una mano tra i capelli neri, presentandosi e chiedendole il suo nome,
ma la
ragazza si limitò a fargli l’occhiolino uscendo
dal Blue Velvet.
-
Chiamami – disse solo.
Si
rividero il giorno seguente e molti altri ancora, senza
mai svelarsi quel particolare essenziale.
-
Hai paura di affezionarti dandomi un nome? – provò
a
scherzare una volta Manuel, passandole un braccio attorno alle spalle.
- Dai,
dimmelo, dimmelo, dimmelo, dimmelo, dimmelo!
-
Mi piace questo senso di mistero – rispose la ragazza con
un sorriso.
Andavano
al cinema, passeggiavano per il parco, si
attaccavano lo zucchero filato tra i capelli e poi correvano sotto la
pioggia,
peggiorando solo la situazione; lei lo andava a prendere al termine
delle
lezioni, lui entrava di nascosto nel suo dormitorio quando le compagne
di
stanza erano a casa dei genitori per il fine settimana. Uscivano quasi
tutte le
sere, recandosi al Blue Velvet o in qualsiasi altro pub incontrassero
sulla
strada, ma evitavano accuratamente di stare in compagnia di persone
conosciute:
nell’ultimo mese e mezzo che Manuel passò a
Brooklyn, la ragazza non gli
presentò mai una sua amica, né lui le fece
conoscere i compagni del corso.
Erano solo loro due, l’italiano e l’americana, che
si divertivano a rotolarsi
nei prati e a comporre canzoni. Lei aveva una voce angelica, adatta
alle note
che Manuel suonava accarezzando le corde della Gibson, e il ragazzo si
ritrovava sempre più spesso ad osservarla estasiato,
chiedendosi cosa mai ci
trovasse in lui.
Poi,
come avevano saputo fin dall’inizio, il tempo a loro
disposizione terminò.
Eppure a volte ancora respiro
il profumo sintetico delle tue parole,
evaporato per restare attaccato
a sensazioni nuove,
ad atmosfere perse,
vissute di già.
Non
ci furono lacrime e frasi d’amore quando Manuel
entrò
nell’aeroporto, ci fu solo un abbraccio terminato con un
fugace bacio sulle
labbra. La ragazza sorrideva, sembrava che stesse salutando un parente
che
avrebbe rivisto a Natale, e solo Manuel avvertiva una stretta nello
stomaco,
anche se non lo diede a vedere e si comportò come sempre,
continuando a
sbracciarsi in segno di saluto mentre andava ad imbarcarsi. Neanche
allora si
dissero i loro nomi.
Una
volta preso posto sull’aereo, le dieci ore di volo che
lo aspettavano pesarono come massi sul petto di Manuel; non sarebbe
riuscito a
dormire per l’emozione del ritorno e di ciò che si
stava lasciando indietro, non
avrebbe nemmeno potuto ascoltare musica, sapendo che la voce che
sarebbe uscita
dalle cuffie non sarebbe stata la sua.
Allora
gli venne alla mente una frase di Camus: “Un uomo che
fosse vissuto un giorno solo potrebbe senza difficoltà
vivere cento anni in una
prigione. Avrebbe abbastanza ricordi per non annoiarsi”. Lui
non era vissuto un
giorno solo passeggiando per le strade di Brooklyn con
quell’angelo biondo, i
ricordi del breve periodo passato insieme lo avrebbero accompagnato per
quelle
dieci ore. Preferiva pensare a ciò che era stato, piuttosto
che al silenzio che
ora sentiva premere sulle sue orecchie.
Chiuse
gli occhi, imparò a ricordare. La prima immagine che
gli salì alla mente fu di un pomeriggio al Sunset Park,
pochi giorni dopo il
loro incontro; stavano camminando, con in mano un gelato, tra gli
americani che
sdraiati sull’erba accoglievano l’arrivo
dell’estate.
- Devo consegnare la
relazione sull’Impero Romano entro martedì
– aveva sospirato la ragazza, lo
sguardo perso rivolto alle poche nuvole. – Non mi va di
passare l’intero fine
settimana chiusa in biblioteca…
- Ti do una mano io!
- Dici sul serio?
In quel momento i suoi
occhi azzurri avevano cominciato a brillare, spostandosi su Manuel.
- Certo! In due magari
riusciamo a finire prima, così possiamo anche andare a
vedere quel film di
Woody Allen che è appena uscito.
- Oh, sei il
tesoro!
Gli aveva circondato
il collo con le braccia, sporcandogli la maglietta di cioccolato e
panna, e lo
aveva baciato per la prima volta. Manuel era rimasto senza parole per
quel
gesto improvviso e la cosa più intelligente che
riuscì a dire quando lei ebbe
allontanato le sue labbra fu: - Si dice un tesoro, non il tesoro.
Un
sorriso attraversò il volto di Manuel, mentre ripensava
alle lezioni di italiano che aveva impartito alla ragazza, desiderosa
di
apprendere una nuova lingua come una bambina che andava a scuola per la
prima
volta.
- Mi insegni a suonare
la chitarra?
- Solo se me lo chiedi
in italiano. Mi insegni a suonare la chitarra?
-
Mi insegni… a… Com’era?
- Suonare –
- Sunare…
Manuel era scoppiato a
ridere. – Suonare, non sunare!
- Non lo imparerò mai!
Dovresti parlarmi in italiano sempre, così mi abituo.
L’aveva fissata negli
occhi, la testa sulle sue gambe e le dita tra i capelli biondi. Si
guardavano,
lei leggermente imbronciata e lui addolcito da quella visione.
- Sei bellissima.
- Che significa?
- Non te lo dico:
voglio vedere se riuscirai a capirlo da sola!
Il
sorriso di Manuel si affievolì, mentre la consapevolezza
che non l’avrebbe più incontrata si faceva largo
nella sua mente.
Quella sera avrebbe
dormito nel suo appartamento, era troppo tardi per riaccompagnarla fino
al
college. Lei stava ridendo a una sua battuta, lui cercava di farla
divertire
ancora di più imitando la cameriera del ristorante dove
avevano cenato: aveva
gonfiato le guance, si era portato le mani ai fianchi e aveva
cominciato a
parlare con modi bruschi.
- Smettila!
- “Avete deciso cosa
ordinare, allora? Non posso stare qui tutta la sera, ho lasciato il
camion in
doppia fila!”
- Dai, non riesco a
reggermi in piedi!
Manuel l’aveva
afferrata prima che cadesse lungo le scale, scossa da un attacco
irrefrenabile
di risa; l’aveva presa in braccio, trasportandola fino al
letto che si trovava
addossato ad una parete nell’unica stanza
dell’appartamento.
- Tu vivi in questo
posto? – aveva esclamato la ragazza, guardandosi attorno
stupita.
- Non potevo
permettermi di meglio – si era limitato a rispondere Manuel,
stringendosi nelle
spalle. Aveva abbassato lo sguardo su di lei, passandole un dito sulle
guance
morbide e baciandole delicatamente le labbra rosse. – Sei
bellissima –
- Grazie -. Lei
era arrossita, mostrando di avere
finalmente capito quelle due parole.
- Puoi dormire qui, io
mi accontenterò del divano. Fa un po’ freddo, ma
la finestra è rotta e i
giornali che ci ho messo non sono serviti a molto…
Improvvisamente la
ragazza lo aveva tirato a sé, facendolo cadere in ginocchio
sul letto. Si era
avvicinata al suo orecchio, sussurrando dolcemente. – Facciamo
l’amore?
Manuel
infilò le cuffie, ora pronto ad ascoltare qualsiasi
voce, ma non la sua, che gli riecheggiava ancora nella testa.
Non scende l’effetto dei tuoi sorrisi,
ancora, le immagini, posso toccarle,
assaporarle un po’, giusto il tempo
di assaggiare e andarmene
con in bocca un sapore dolciastro
che rende amaro ogni sorriso.
Era
una fortuna che il supermercato di Gloucester Road
restasse aperto fino a tardi: in quel modo, Manuel poteva evitare di
preoccuparsi di tornare in albergo presto solo per riuscire a comprare
insalata
e macedonia in scatolette trasparenti. Tre anni dopo il corso a
Brooklyn, era
stato accettato ad una nuova scuola di tre settimane a Londra,
trascinandosi
sempre dietro la fidata Gibson; aveva suonato per qualche mese il basso
nei
Moonlight Sonada, ma il gruppo si era sciolto e si stava riformando
sotto il
nome di Lilim, e finalmente lui sarebbe tornato a imbracciare la
Gibson. Era
scappato, però, gli serviva un po’ di tempo per
accettare l’addio alla chitarra
di Marco, il suo amico di sempre, e l’opportunità
di un nuovo corso in
Inghilterra l’aveva attratto come una splendida
opportunità per maturare
musicalmente e allo stesso tempo tenere a bada le emozioni. Non
sopportava gli
addii, no, soprattutto da quando aveva vissuto quella strana esperienza
negli
Stati Uniti. Strana: non poteva definirla in un altro modo.
E
ora perché, a tre anni di distanza, quell’angelo
biondo
tornava a fare capolino nella sua testa? Certo,
“tornava”, come se a intervalli
più o meno brevi di tempo lui non ci pensasse! A volte i
ricordi erano talmente
dolci da far spuntare sul suo volto un sorriso amaro.
Distolse
lo sguardo dallo scaffale delle insalate in
scatola, pensando che avrebbe preferito di gran lunga, per una volta,
mangiare
un panino. Mentre cercava gli affettati, però,
sussultò.
Non è possibile, ora
ho perfino le visioni! Manuel, devi smettere di mangiare questa
robaccia,
chissà che ci mettono dentro!
Guardò
i capelli della ragazza china sullo scaffale più
basso, le ginocchia leggermente sollevate da terra. Di spalle
somigliava incredibilmente
al ricordo che si portava dietro da tre anni. La sentì
imprecare in inglese,
forse perché non trovava il barattolo di sugo che le
serviva, e per un momento
il suo cuore si fermò; gli ci volle qualche secondo, prima
di ricordare che si
trovava in Inghilterra.
Tuttavia,
continuava ad osservare il suo profilo, la mano
che spostava dietro l’orecchio i capelli biondi, e nel suo
petto qualcosa parve
esplodere. Cercando di trattenere l’emozione, si
inginocchiò accanto a lei.
-
Serve aiuto? – chiese in inglese.
La
ragazza alzò lo sguardo su di lui, uno sguardo pieno di
rabbia, e Manuel credette che avrebbe potuto facilmente aggredirlo per
averla
importunata. Poi la sua espressione dura si rilassò, la
rabbia cedette lo
spazio alla sorpresa e gli occhi si spalancarono allo stesso modo del
sorriso
di Manuel.
-
Non riesci proprio a stare senza di me, eh? –
scherzò il
ragazzo, alzandosi e abbracciandola.
-
Ma… Mi hai preso in giro! – replicò la
ragazza. – Mi avevi
detto di essere italiano, e ora ti trovo a Londra?
-
E’ il destino, che vuoi farci?
Osservandola
attentamente, Manuel si accorse che aveva
ragione, era la ragazza americana che da tre anni le occupava la mente,
ma
sembrava in qualche modo diversa: i suoi lineamenti erano meno
delicati, gli
occhi azzurri erano offuscati dal un velo di tristezza e i capelli
erano di un
biondo quasi sporco. Portava delle ferite più evidenti di
qualsiasi graffio o
livido sulla pelle.
-
Mi stai ascoltando?
Manuel
sussultò per l’ennesima volta e si accorse che,
fino
a quel momento, la ragazza gli aveva parlato. – Scusa, cosa
stavi dicendo?
-
Ti ho chiesto come mai fossi qui.
-
Ma per inseguire te, mia
bella.
-
Raccontane un’altra – sbuffò lei,
arricciando le labbra.
Un altro segno del suo cambiamento: l’angelo biondo che aveva
conosciuto a
Brooklyn appariva lusingata ogni volta che lui le rivolgeva un
complimento,
arrossendo anche a volte; questa ragazza, invece, si limitò
ad afferrare il
barattolo di sugo che cercava e a metterlo nel cestino della spesa.
-
Ceni da sola?
-
Sono le nove, potrei anche cercare l’occorrente per il
pranzo di domani.
-
No, devi ancora cenare, ho sentito il tuo stomaco.
La
ragazza azzardò una breve risata.
-
Posso invitarti a cena come un tempo?
Lei
sembrò riflettere, inspirando profondamente e guardandosi
attorno, poi accennò un sorriso. – Sì,
accetto volentieri.
-
Bene, allora lasciamo tutto qui e scappiamo a Craven Road!
– esclamò Manuel, prendendola sottobraccio.
– Conosco un ristorante italiano in
cui fanno degli spaghetti che sono la fine del mondo.
-
Ehi, e la spesa?
-
Torneremo a farla dopo, questo supermercato rimane aperto
fino alle due -. Aggrottò le sopracciglia, lanciandole
un’occhiata sorpresa. –
Un tempo non ti saresti posta certe domande.
Finalmente
la ragazza si lasciò andare un vero sorriso. –
Hai ragione: che ci importa della spesa, andiamo a divertirci!
Attraversarono
Kensington Gardens e raggiunsero Craven Road
chiacchierando allegramente, spensierati come un tempo, quando vivevano
la loro
storia al presente, senza pensare al futuro; ogni tanto lui le indicava
le
stelle e fingeva di descrivere le costellazioni, ogni tanto lei rideva
e lo
prendeva in giro ricordando il passato.
-
Ricordi quando ti eri finto offeso perché quel commesso ti
aveva scambiato per un uomo? – esclamò la ragazza
mentre tornavano indietro
dopo cena, abbracciati per il freddo. – Non riusciva a
credere che tu fossi una
donna!
-
A pensarci ora, è stato uno scherzo parecchio idiota
–
rifletté Manuel.
-
Anche perché poi è intervenuta la sicurezza.
-
Stavo quasi per dimenticarmi questo dettaglio! E abbiamo
corso per tutto il centro commerciale facendo impazzire la guardia,
è stato
stupendo!
Si
fermarono di fronte all’albergo di Manuel, ridendo
ancora, pervasi dall’euforia di essersi rivisti.
-
Cavolo! –
esclamò Manuel, dandosi uno schiaffo sulla fronte.
– Abbiamo dimenticato la
spesa.
-
Che importa? Andremo a farla domani.
-
Mi piace questo spirito, donna -. Si guardò intorno e si
rese conto di essere arrivato. – Scusa, sono un maleducato:
avrei dovuto
accompagnarti al tuo hotel e invece ho proceduto imperterrito verso il
mio.
Dov’è che alloggi?
-
Non ho un hotel, sto a casa di una zia che ora è in
viaggio. Non è lontana da qui, comunque, posso andarci da
sola…
-
Non se ne parla nemmeno, ti accompagnerò.
-
E se invece mi facessi salire?
Manuel
la guardò negli occhi, scorse di nuovo quel velo di
tristezza che aveva scovato all’inizio e
interpretò le sue parole come una
disperata richiesta d’aiuto.
-
Sali pure – le sorrise.
-
E’ quasi più grande questa stanza
dell’appartamento che
avevi a Brooklyn! – lo prese in giro la ragazza. –
Come mai hai preso una
matrimoniale?
-
Era rimasta solo questa, ho saputo all’ultimo momento che
mi avevano accettato al corso. Ne ho approfittato per scappare.
-
Anch’io.
Manuel
si voltò verso la ragazza, che si era seduta sul
letto e guardava davanti a sé, ancora una volta con la testa
fra le nuvole. Si
sedette accanto a lei.
-
Sei scappata?
Lei
annuì. – Ma parliamo di altro, ti va?
-
Già, come del fatto che tu non dovresti essere qui.
Lo
guardò, Manuel era stranamente serio: respirava
profondamente, non riusciva a tenere lo sguardo su di lei e si passava
con
nervosismo la mano tra i capelli.
-
Perché? – gli chiese, sebbene conoscesse
già la risposta.
-
Perché tra esattamente trenta secondi ti bacerò e
ti
sdraierò sul letto, e ti toglierò la maglietta, e
faremo l’amore, e quello che
è successo tre anni fa tornerà a galla.
Si
era avvicinato al suo volto, sentiva il respiro della
ragazza addosso. Poi, qualche istante dopo, lei parlò, la
voce leggermente
vibrante.
-
Trenta.
Le
loro labbra si incontrarono per la prima volta dopo anni,
senza la tenerezza del primo bacio, senza l’abitudine, ma con
un’insolita
ebbrezza. Manuel non aveva mai provato la sensazione di fare qualcosa
di
sbagliato perché non sapeva come sarebbe stata la vita dopo
quel mese e mezzo
passato insieme, ma ora era conscio di ciò che volesse dire
vivere senza di
lei: non era male, si andava avanti, però mancava qualcosa.
La
spinse sul letto, sfiorandole il collo con le punte calde
delle dita; lei rabbrividì mentre le mani di Manuel le
sfilavano la maglietta,
percorrendo delicatamente la curva della schiena. Le baciò
le spalle, passò
alle braccia, la ricoprì di carezze e respiri strozzati, poi
tornò sulle sue
labbra, ne approfittò a lungo per potersene portare via il
ricordo più nitido
possibile.
La
mattina seguente, prima ancora che i raggi del sole
riuscissero a penetrare le pesanti nubi che oscuravano la finestra
della sua
camera, Manuel fu svegliato dallo squillo di un telefono. Senza uscire
dal
piumone, allungò il braccio sul comodino alla ricerca del
suo cellulare, poi la
musica cessò, sostituita immediatamente da una voce
melodiosa.
-
Pronto, sono Heather.
Heather.
Manuel
spalancò gli occhi, allontanando immediatamente da
sé
tutta la stanchezza, affiorò dalle coperte e
cercò di pensare a mente lucida.
Così era quello il suo nome; dopo tre anni di vuoto, un
nome. In quel momento
si rese conto di quanta importanza avesse un nome, a differenza di
quello che
diceva Giulietta. E ora perché gli venivano in mente Romeo e
Giulietta? Scacciò
quel pensiero per ascoltare la conversazione. Ora il tono di Heather
– ma sì,
non avrebbe potuto avere un altro nome! – gli sembrava
più alto, avvertiva un
forte fastidio nella sua voce.
-
Chi ti ha dato questo numero? Avanti, Rob, parla e dimmi
chi è stato! Non ho voglia di stare ad ascoltare le
tue… No, Rob, quante volte
devo ripetertelo? Non tornerò a casa, non finché
ci sarai tu ad aspettarmi. Ma
quale altro uomo! Abbiamo fatto una cavolata, capisci? E ora
è finita, finita! Sto
attaccando, Rob, e oggi
pomeriggio andrò a comprare un’altra scheda, ma
stavolta mi vedrò bene dal dare
il mio numero a persone inaffidabili. Non cercarmi più.
Spinse
il tasto per chiudere la chiamata e respirò
profondamente, prima di lanciare il telefono sul letto.
-
Così il motivo per cui eri triste era un uomo –
esordì
Manuel, fingendo indifferenza. Si era reso conto in un attimo che, se
Heather
avesse rivolto quelle parole a lui, si sarebbe sentito come se il mondo
gli
stesse crollando addosso.
Heather
sollevò lo sguardo, gli occhi rossi: sembrò
accorgersi solo in quell’istante che c’era anche
lui. Si alzò di scatto dal
letto, mettendo delle distanze fra loro due.
-
Già, e tu sei appena andato a letto con una donna sposata.
Come ti senti ora? Tradito, deluso?
-
Sento una fitta al cuore – rispose sinceramente Manuel.
Heather
non parve stupita della sua schiettezza, ma al
contrario di come avrebbe fatto tre anni prima, quando si sarebbe
avvicinato a
lui per stringerlo in un affettuoso abbraccio, afferrò i
propri vestiti e li
indossò di corsa.
-
Ti ho sempre preso in giro – sbottò, infilando la
maglietta dei Sex Pistols. – Ricordi i nostri incontri a
Brooklyn? Ricordi che
non volevo farti conoscere le mie amiche, né darti un nome?
Non volevo farmi
rintracciare, non volevo che qualcuno scoprisse la mia tresca
clandestina con
un ragazzo che non era il mio promesso sposo! Lui era partito per
lavoro, mi
aveva lasciata sola lì, tra il college e le serate nei pub,
e io mi ero accorta
improvvisamente che la mia vita era già stesa davanti a me,
che non avevo più
niente da scegliere: c’erano lui, un matrimonio e una vita da
moglie
rispettabile di un manager così famoso per la sua
età. Mi sono sentita in
gabbia e quando ti ho visto… quando ho notato che mi
guardavi, e mi sorridevi,
non ho potuto fare a meno di sorriderti anch’io, di
accoglierti nella mia vita
perché volevo assolutamente un cambiamento, una
possibilità di scelta. Come
sarebbe potuto essere il mio mondo accanto ad un’altra
persona? -. Heather
aveva le lacrime agli occhi mentre si gettava sulle spalle il giubbotto
grigio.
Sparò tutto quello che le passava per la testa, senza
nemmeno dare il tempo a
Manuel di digerire quelle rivelazioni. - Quel mese e mezzo con te
è stato fantastico,
anche troppo, perché poi non
ho saputo dimenticare quanto fossi stata bene in tua
compagnia… E… e ora t-tu
sei t-tornato qui, durante la mia f-fuga da Robert, da questo
matrimonio che
non p-poteva andare avanti, e d-di nuovo mi s-sento priva di scelta
e…
-
Resta con me! – esclamò Manuel, interrompendola.
Le prese
le mani, ma lei lo scacciò. – Hai detto che il tuo
matrimonio non poteva andare
avanti, no? Che non sei riuscita a dimenticarmi… Nemmeno io
ce l’ho mai fatta,
Heather, è impossibile scacciarti dalla mia mente!
-
Dovrai farlo! – strillò Heather con voce acuta.
–
Dimenticami, io mi dimenticherò di te!
Afferrò
la borsa e uscì dalla stanza, chiudendosi la porta
alle spalle. Per la prima volta, a Manuel non venne in mente nessun
gesto
plateale da compiere, nessuna pazzia, nessun ultimo tentativo: per
quanto
volesse ancora stringerla tra le braccia, la Heather che aveva appena
conosciuto era diversa da quella di cui si era innamorato, e lui aveva
paura di
scoprire quale delle due fosse quella vera.
Ma non mi lasci spazio,
anche se credi che non essendoci
non mi occupi i pensieri.
Manuel
odiava gli addii. Dopo tutti quelli che aveva dovuto
sopportare nella sua vita, quello a Heather era sicuramente il
più duro di
tutti, peggiore perfino dell’abbandono di Marco, che comunque
era rimasto il
suo migliore amico, sempre disposto ad ascoltarlo in qualsiasi momento.
La
notte che aveva passato con
Heather a Londra, mentre lei dormiva lui aveva infilato un pezzo di
carta nella
sua borsa, dandole un indirizzo, un numero, tutto ciò che
potesse servirle in
caso avesse desiderato contattarlo. Quelle poche righe scribacchiate in
fretta,
al buio, tennero viva la speranza in lui nei mesi che seguirono. Ogni
volta che
il telefono squillava, lui saltava dal letto e correva a rispondere,
cercando
poi di mantenere un tono tranquillo quando non era la sua voce angelica
a parlare
dall’altra parte; gli sembrava di vederla ovunque, al
supermercato, al cinema,
nel parco sotto casa: Heather era costantemente presente nella sua vita.
Quella
sera di settembre i Lilim avrebbero tenuto il loro
terzo concerto, il primo in presenza di un talent scout; si erano
esercitati
tutta l’estate, sperando di poter sfruttare una
possibilità del genere, quando
e se sarebbe arrivata, e ora era la loro grande occasione.
Manuel
era nervoso, continuava ad accordare la sua Gibson,
lanciando occhiate agli strumenti disposti sul palco e chiedendo agli
altri
componenti del gruppo se si sentissero pronti. A pochi minuti
dall’inizio del
concerto, avvistò Marco tra il pubblico e corse da lui,
sapendo che il suo
amico non si sarebbe fatto avanti con Aurora ed Ettore nelle vicinanze.
-
Se non smetti di tremare, non riuscirai certo a tenere in
mano la chitarra! – lo prese in giro Marco, guardandosi
attorno.
-
Sono dietro al palco, ripassano il nuovo pezzo.
-
Di chi…?
-
Davide e gli altri tre – rispose Manuel, cercando di non
nominare l’ex ragazza del suo amico e il suo attuale
fidanzato.
-
Ah, sì, ok – si limitò a dire Marco,
sovrappensiero.
Manuel
aggrottò la fronte, ma non chiese altro perché
Simona
venne a chiamarlo per salire sul palco.
Il
nervosismo scomparve quando le corde della Gibson
iniziarono a vibrare sotto le dita di Manuel, che scacciò
l’ansia per lasciare
spazio ad una piacevole sensazione di euforia. Si muoveva lungo il
palco tra
gli altri componenti della band, appoggiò la schiena a
quella di Simona e poi
scivolò a terra ai piedi di Aurora, suonando le ultime note
di una canzone.
Quando
cominciarono il nuovo pezzo, con la coda dell’occhio
notò che Marco stava sorridendo a qualcuno che aveva
avvistato in lontananza.
Sorrise a sua volta, felice all’idea che il suo amico avesse
finalmente
ritrovato l’amore, e seguì il suo sguardo; solo
allora si accorse di una chioma
biondo scuro che si muoveva tra il pubblico, cercando di raggiungere le
prime
file. Sentì una stretta allo stomaco mentre una ragazza in
minigonna appariva
al fianco di Marco, sorridendo timidamente nella direzione del
chitarrista.
Manuel
non riusciva a crederci, l’emozione era tale che
pensava di non potere trattenerla; tuttavia, riuscì a
terminare la canzone,
suonando come se ad accompagnarlo non fosse la voce di Aurora, ma di un
incantevole angelo biondo.
Aspettò
che Ettore terminasse la canzone, poi non si
soffermò nemmeno ad accogliere gli applausi del pubblico. Si
tolse in fretta la
Gibson, la lasciò a terra, sola e indifesa per la prima
volta, e saltò dal
palco per correre tra le braccia di Heather.
Il
talent scout avrebbe valutato negativamente quel gesto? I
Lilim avevano appena perso l’occasione di fare carriera? Non
gli importava: in
quel momento la sua mente era occupata da un unico pensiero, in quel
momento
gli occhi azzurri di una giovane ragazza americana, di nuovo brillanti,
erano
davanti ai suoi.
E
questo era il mio personale regalo di compleanno per una persona che
merita questo e tanto altro, una marea di altro. Non serve dire il suo
nome, no? :3
Dirti
che ti voglio bene è riduttivo :) Buon compleanno, "Luna" (la migliore scrittrice diciassettenne)!