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Autore: shotmedown    20/12/2011    2 recensioni
No, lei non ci credeva più. Inutile negarlo, c'era qualcosa che non andava nella sua vita, e non poteva far altro che crogiolarsi nella sua ignoranza; un giorno, forse, qualcuno le avrebbe fatto capire quanto contasse, e le avrebbe donato un mondo fatto di sicurezza e passione, ma per ora, si limitava a partire, ad andare lontano. Boston le stava stretta, Montréal era la libertà.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Cinque amici e un paio di chitarre.'
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<< Ho riesaminato i miei appunti sulle nostre imprese degli ultimi sette mesi,
le dico le miei conclusioni? Io sono psicologicamente disturbato. >>

Dr. Watson, Sherlock Holmes


 



Avevo una personalità scontrosa da far ribrezzo, ultimamente. Quella mattina, subito dopo il piccolo litigio risoltosi in breve con Pierre, in casa avevo visto Leah e Jack. C’era stato una specie di terzo grado sulla giornata appena trascorsa con lui, e nonostante avessi detto e ribadito che mi aveva solo aiutato a trovare lavoro, loro avevano sentito la necessità di riaprire un vecchio cassetto. Un cassetto che avrei preferito sigillare.
“Lascia perdere Ben, okay?” La tazza di caffé cadde a terra, rovesciando tutto il contenuto sul pavimento. Cercai di calmarmi, ma con scarsi risultati.
“Ti sto solo dicendo che forse se ti lasciassi andare potresti trovare qualcuno di meglio!” affermò lei. Credevo sapesse cosa avessi passato, credevo avesse compreso quanto avessi sofferto a causa di un uomo. Uno solo, su quanti ce n'erano su quel maledetto pianeta. Alzai al massimo il volume dell'i-pod, arrivando tuttavia a sentire le lamentele della mia amica. 
“No, Leah, no.
“Mi dici perché?”
“Vado in camera mia.” Cercai di non ascoltare cosa mi stesse dicendo dall’altra parte, ma con scarsi risultati. Ben. Forse lasciarlo in chiesa non era stato maturo, ma in quel momento mi era sembrata la scelta migliore; per entrambi. Mi lasciai andare alla musica di Jeff Buckley, quasi fosse calmante quanto a volte deprimente.
 
Pierre p.o.v
Quella casa era vuota. Totalmente vuota. E mi andava bene così.
“Pronto?” ritornai alla realtà udendo il suono della voce di una donna dall’altra parte della cornetta con un brusio di sottofondo decisamente fastidioso.
“ Buonasera. Mi chiedevo se fosse possibile avere due biglietti per il concerto degli Ash di questa sera.”
“Sta scherzando, vero? Due giorni fa c’è stato il sold out!” rise senza averne voglia, per il semplice gusto di prendermi per i fondelli.
“Va bene, ho afferrato. Quanto vuole?”
“Cosa?”
“Ha capito bene.” Attese qualche istante prima di rispondere alla mia domanda.
“Ma chi si crede di essere?!”
“Pierre Bouvier, piacere. Ora mi risponda.”
“B-Bouvier? Quel Bouvier?”
“Non il fratello di Marge Simpson.” Trattenni una risata. Era davvero difficile convincere delle ragazze. Talvolta risultava impossibile. Con alcune bastava essere rockstar, con altre ci volevano le tenaglie vere e proprie. Quella donna apparteneva al primo genere.
“Ne ho due!” gridacchiò. Proprio quello che volevo evitare a tutti i costi. Per le persone normali non avevano nessuna considerazione, e mi infastidiva. Andai, però, contro la mia morale, accettando i biglietti.
“Perfetto. Vengo a prenderli.” Staccai prima che continuasse a cercare di irritarmi, benché involontariamente. ‘Ma che fai?’ Non lo sapevo. Non comprendevo a pieno quel mio comportamento, ma era come se il suo solo nome mi spingesse a farlo. Presi di nuovo l’auto dal garage e mi diressi al porto, dove si sarebbe tenuto l’evento musicale. Prima di scendere, indossai un cappellino per non farmi riconoscere dalle persone arrivate da ore per assistere al concerto. Corsi dritto alla cassa, alla quale stava seduta la ragazza che poco prima doveva avermi ricevuto al telefono.
“Dica.” Di nuovo fredda come prima.
“I due biglietti di cui parlavamo poco prima.” Abbassò il capo per assicurarsi che fossi realmente io, e prima di gettarsi in mille smancerie, mi passò i due foglietti. Le rivolsi qualche sorriso di circostanza, le firmai un autografo e infine mi allontanai per andare via. Avevo una sola ora per raggiungere casa sua e convincerla a venire.
 
Sam p.o.v
Grace. L’ultima canzone prima che tornassero ancora a disturbarmi.
“Sam!” Jack bussava insistentemente alla porta, nonostante sapesse che non avrei risposto. Alzai il volume dell’ipod, incurante del fatto che l’indomani avrei dovuto comperarne una nuova se avesse continuato così.  “oh drink a bit of wine, we both might go tomorrow…oh my love”
Una delle canzoni più belle che avessi mai ascoltato. La porta si spalancò improvvisamente, facendomi sobbalzare. “Jack, dannazione! Si può sapere che vuoi?!” rabbuiai.
“ E’ da stamattina che sei così irritata. Hai le mestruazioni?” Mi alzai dal letto e gli corsi dietro, riuscendo, proprio davanti al divano, a saltargli sulla schiena per atterrarlo. Gli sollevai il capo trattenendolo per i capelli e costringendolo a guardarmi in faccia.
“L’umore delle donne non è legato solo a quello!” Iniziò a ridere, cadendo sulla mia amica.
“Va bene, va bene! Mi arrendo! Ero venuto ad annunciarti una persona.” disse, mettendosi a sedere composto.
“Sai che il Buckley time non si interrompe. E comunque, chi è?” con un cenno del capo indicò qualcuno dietro di me. Mi voltai e me lo trovai davanti; di nuovo nell’arco di una giornata. “ E tu che ci fai qui?” mormorai. Ero totalmente imbarazzata.
“Bé, ero venuto a chiederti se ti andava di venire al concerto degli Ash di questa sera. Hai detto che ti piacevano, e...” sgranai gli occhi. Ero fisicamente immobile ma la mia mente vagava dietro le quinte del palcoscenico, alla ricerca di un autografo da uno dei componenti della band. Uno qualsiasi.
“Ma i biglietti...” prima che potessi terminare la frase tirò fuori dalla tasca due strisce di carta bianche. Inconsapevolmente, un enorme sorriso mi si stampò sul volto. Leah tossicchiò, attirando l'attenzione di tutti. “Leah, gli Ash non ti piacciono.” affermai.
“Lo so, ma...” aspettai che terminasse la frase. “ Pierre, a che ora me la riporti a casa?” avevo voglia di svenire.
“ Leah!”
“Mi preoccupo solo per te! Siamo in una città nuova e poi sei una sconsiderata...”
“Grazie.”
“Prego, e comunque, tornando al discorso principale, all’una devi rientrare. Io e Jack ti aspetteremo.”
“E non vi annoierete?” chiese Pierre.
“Ci troveremo un passatempo...” si guardarono e ammiccarono entrambi. Mi venne da vomitare al solo pensiero di quei due...sull’amato divano...
“Vado a vestirmi.” dissi infine. Ci impiegai poco, cosicché Leah non coinvolgesse Pierre in discorsi sgradevoli; alle volte mi veniva da paragonarla a una sorta di madre. Ciò che mi turbò di più, fu la confidenza con la quale Pierre, per l'ennesima volta, era entrato in casa mia per uscire. Ci conoscevamo da qualche giorno, pur tuttavia era lì. Ancora. 
“Andiamo?” domandò lui, sorridendomi. Annuii, uscendo per prima, seguita da lui che, ero sicura, stava cercando qualcosa di interessante da dire. Salimmo in auto e fui immediatamente presa da un moto di eccitazione assurdo.
“E’ la prima cosa bella che mi capita da quando sono qui.” dissi.
“Prima?” chiese flebile lui. Lo guardai, per poi abbassare subito lo sguardo.
“La seconda. Grazie ancora per il lavoro. Quello è al primo posto nella classifica.” parcheggiò velocemente nell’area vip. “Perché qui? Ti lasciano passare?” rise in un modo che parve beffeggiatore.
“Diciamo di sì.” Camminammo fino alle transenne, che oltrepassammo senza problema. Mi chiedevo perché avesse tutti quei privilegi. La sicurezza addirittura lo salutava. Mi strinse l’avambraccio e mi condusse alla prima fila.
“Poi mi spieghi.” dissi, un istante prima che la band facesse la sua entrata in scena. E Tim Wheeler era proprio di fronte a me. Qualcosa, uno strano impulso, mi spinse a saltare, cantare, dimenarmi come un emerita cretina. Ma mi sentivo bene, ero viva.
 
Ero stanchissima, e quindi, benché non volessi finire in quello stato, mi addormentai sul sedile della Audi di Pierre. Nella mia testa risuonavano ancora i testi delle canzoni degli Ash, il volto del cantante di fronte al mio...e non era stato un sogno. Avrei voluto ringraziare Pierre nel modo migliore, ma non riuscivo a immaginare nulla che potesse “fronteggiare” validamente quell’esperienza.
Il problema era che dopo quattro ore di salti e grida le palpebre avevano iniziato a diventare fortemente pesanti, ed era difficile restare svegli.
Il giorno dopo, mi ritrovai Leah sul letto, intenta a scrutarmi.
“Sei una frana.” sussurrò. Mi stiracchiai per bene, cercando di capire perché mi avesse definito in quel modo, a quell'ora del mattino.
“Perché?” ridacchiò.
“Ti addormenti nell’auto di un figo come quello?”
“Mmmh...Leah...Ti prego...” implorai, cercando di riaddormentarmi.
“Ti ha rimessa lui a letto, sai?” mi alzai di scatto, forse troppo in fretta. Per un secondo persi la vista.
“Come?”
“Sì. Gli ho detto che poteva dormire qui.” Cercai di non mostrarmi toccata dalla situazione. Però, poteva essere un modo per iniziare a rendergli il favore.
“E’ di là?” annuì. Mi alzai e mi trascinai a forza in cucina, cercando di non badare al mio aspetto. Stava guardando fuori dalla finestra, con lo sguardo perso nel vuoto. Chissà a cosa stava pensando...
“Buongiorno.” mi rivolse un debole sorriso, per poi prendere una tazza, riempirla di caffé e porgermela. “Leah mi ha detto che hai dormito qui...”
“Avrei voluto. Ma Jack non era dello stesso parere. Ha parlato tutta la notte; di cose interessanti, se devo essere sincero. Ma ora sta rigirando il dito nella piaga, perché dorme. E io vorrei essere al suo posto.” mi voltai verso il mio amico che dormiva profondamente sul divano.
“Mi vesto e ti accompagno.” dissi, bevendo l’ultima goccia. “ Non vorrei che morissi.”
Feci una doccia veloce e con altrettanta velocità indossai una felpa e un paio di jeans. Presi le chiavi della sua auto e lo aiutai a scendere le scale, facendolo appoggiare a me. Mancava un solo millimetro e i suoi occhi si sarebbero sigillati per ore. Cercai di ricordare dove fosse esattamente casa sua, dato che erano quasi tutte uguali. Villette a due piani con un verdeggiante giardino. Poi mi tornò alla mente il numero civico; finalmente. Scesi per prima, cercando di svegliarlo.
 "Siamo arrivati. Pochi passi a potrai dormire." 
A passi pesanti scese dall’auto e si accasciò su di me. ‘Perfetto,’ pensai. Riuscii ad arrivare alla porta d’ingresso, l’aprii e mi diressi in salotto. Lo gettai sul divano e lo sistemai per bene, stendendogli una coperta trovata lì addosso.
“Sogni d’oro...” sussurrai, e senza rendermene conto, quasi istintivamente, gli diedi un bacio sulla fronte. Mi pentii immediatamente di averlo fatto e dunque, uscii di casa in tutta fretta. Fuggii, sarebbe lecito dire. 

  
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