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Autore: TuttaColpaDelCielo    23/12/2011    1 recensioni
Non abbiamo che le nostre cicatrici, e per trovarvi un senso possiamo solo scavare nel passato.
Possiamo solo ricordare.

Respirano aria di morte, guardano il loro mondo coprirsi di cadaveri. Anni più tardi saranno dei reduci senza speranza e senza gloria; ora sono solo formiche che si muovono su una terra agonizzante, ignare che l'Occidente sta per vedere un'alba rossa di sangue.
I loro ultimi giorni, l'ultimo sussulto di vite già distrutte.
Il crollo delle architetture vacillanti su cui hanno modellato il loro mondo.
Seconda classificata al contest Let's fly on fantasy's wings indetto da SunnyPain.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 4 – Cicatrici



Gli Epirei si snodano per un terzo del loro corso sottoterra, scavando nella roccia, prima di riaffiorare e affluire al Dara. Così mi aveva raccontato mia madre, nei suoi saltuari e fiacchi sforzi per erudirmi.

Fu in quei budelli soffocanti che trascorremmo i nostri ultimi giorni; capimmo tutti che quella sarebbe stata la nostra fine, perché il futuro stava ormai assumendo le tinte meno fumose del presente. La paura scavò solchi profondi dentro di noi, ferendo con unghie di rimorso e disperazione, lasciandoci cicatrici e memorie indelebili. La paura, soprattutto, svelò cos’eravamo davvero – vili, dal primo all’ultimo.

L’Anastasis si compì poco dopo. L’occidente vide un’alba tinta di rosso, riecheggiante di grida; Dysis venne rasa al suolo e le sue macerie lasciate a monito per chi avesse voluto di nuovo sfidare i protetti di Nemesis.

Avevano dovuto aspettare secoli, ma gli Anastatoi ottennero la loro vendetta. Noi stiamo ancora attendendo la nostra, senza sperarvi veramente – non c’è nessuna profezia a darci forza, nessun dio al nostro fianco. Non abbiamo che le nostre cicatrici, e per trovarvi un senso possiamo solo scavare nel passato.

Possiamo solo ricordare.



Sentiva il suo viso tra i capelli, ad inspirare il loro odore, e il suo braccio circondarle i fianchi.

«Neryon» chiamò, sfiorando il freddo cerchio nero che portava al polso «perché non lo togli mai?»

«E tu perché credi che ti risponderò, ther?» rispose – e quell’insulto detto con il sorriso racchiudeva tutto ciò che c’era tra loro.

L’abitudine, l’intimità, i discorsi lunghi ore. L’odio, anche, e la stanchezza. Il peso di un destino ineluttabile che schiacciava entrambi, poiché entrambi ne afferravano la trama, e condividerlo era l’unico modo per non restarne soffocati.

Era stato un cambiamento lento, quasi impercettibile. Era diventato tutto meno brutale, meno doloroso, fino a non lasciarle che qualche segno dove lui l’aveva stretta; era arrivata a sentire la mancanza dei loro dialoghi spesso insensati, delle sfide, della semplice presenza di qualcuno accanto a sé. Si rifugiava in un meccanismo perverso che la portava a ignorare l’umiliazione e dimenticare il dolore; non sapeva più dire quanto di quella serenità fosse dovuto alla propria mente e quanto invece fosse reale.

«Ho sentito delle grida, oggi.» la riscosse lui.

«Ho avuto una piccola discussione.» minimizzò.

«Con un uomo?»

Ricordò gli occhi d’argento di Hetrir, il suo disprezzo, la sua rabbia. Era un uomo come si definiva, o una bestia almeno quanto lei?

«Se così vogliamo chiamarlo, sì.»

«Bene.»

«Perché?»

«Sei una femmina del branco, non può attaccarti.» sogghignò «Sai, un cadavere non sarebbe particolarmente di compagnia.»

Si chiese come potesse conoscere un tabù.


* * *


Hetrir la fissava. Doveva essere finito l’effetto della droga: iniziava ad essere sempre più leggero e breve, lasciandolo lucido per qualche tempo. Solitamente trascorreva quegli attimi accanto a Soyi – l’unica, oltre a lei, cui fosse permesso di rimanere cosciente, perché il cucciolo reagiva male a quelle erbe –, senza prestare attenzione a nient’altro. Il giorno precedente era stato un’eccezione.

Sistemò la manica sinistra, scoprendo il bracciale lavorato. Non aveva chiesto lei quel dono; anzi, il volto di Nemesis non faceva che ricordarle il poco tempo restante. Puttana. Poteva davvero biasimarla per aver scelto di non impazzire? Codarda. Per aver ceduto alla stanchezza, per aver abbandonato un orgoglio inutile e dannoso? Traditrice. Come poteva sputare sentenze, lui, lui che non ne aveva il diritto? Che non sapeva, che non capiva, che non ascoltava?

Sfiorò la mano di Khai. Era diventata più grande della propria, si accorse – stava diventando un uomo, ormai, ma senza perdere la vitalità dell’infanzia. Gli sorrise debolmente, sperando che la mantenesse per sempre; lui, con la mente annebbiata dalla droga, nemmeno se ne accorse.

«Ahdle.» la chiamò la sorella, al suo fianco.

Spostò lo sguardo dal giovane a Soyi.

«Dimmi.»

«Ho passato la nona luna, ormai. Volevo chiederti se...» esitò, torturandosi il labbro inferiore «se mi aiuterai, quando sarà il momento.»

Sentì lo stomaco stringersi in una morsa tale da spezzarle il fiato; lacrime amare le inumidirono gli occhi, ma l’argyrion restò quieto – era un dolore troppo umano perché potesse venirne destato.

«So che ti chiedo molto» continuò l’altra in un sussurro «ma mi fido solo di te.»

Pensava davvero che avrebbe ignorato l’invidia, la rabbia, il dolore? Riponeva davvero tanta fede in un affetto ormai polveroso?

Davvero, si rispose. Aveva la sincerità e la speranza sul volto; e, in fondo, non meritava un diniego.

«Ilithia.» cedette infine, tornando a guardare Khai «Prega Ilithia perché guidi le mie mani.»

E spera che ascolti le tue richieste più delle mie.


* * *


Non dubitava che quei cunicoli fossero stati usati come carceri. Si sentivano gli Epirei scorrere, oltre le pareti di roccia, e l’umidità permeava l’aria stantia. Dagli angoli, dove la luce delle torce non arrivava, sembravano provenire sibili e gemiti – bestie striscianti celate dall’acqua, ossessioni malate annidate nel buio. L’arrivo degli Anastatoi, tra quei contorni di ombra e angoscia, assumeva le tinte violacee di un incubo; e c’era da chiedersi se non sarebbe stato meglio morire subito, invece di nascondersi come topi.

Erano appena qualche centinaio di persone, ma tra gli echi e l’oscurità di quei cunicoli soffocanti sembravano moltiplicarsi all’infinito. Stringeva la mano di Khai fino a conficcargli le unghie nella pelle, e appena più delicatamente quella della sorella, sostenuta da Hetrir; il suo sguardo, però, era fisso su un altro che si voltava ogni minuto verso di lei.

L’argento, in quei budelli che avrebbero accolto cadaveri mangiati dalle larve, non riluceva.

Non Nemesis al suo polso.

Non gli occhi di Hetrir.

Non, soprattutto, quelli che cercava con l’angoscia a spezzarle il respiro.

Le architetture vacillanti su cui aveva modellato il proprio mondo erano appena crollate su un suolo già umido di sangue.


* * *


Gli artigliava le braccia fino a fargli male, ma forse non se ne rendeva nemmeno conto. Un sospiro riecheggiò nella galleria isolata in cui si erano rifugiati; non l’aveva mai sentita sospirare, e fu come se quel suono non le appartenesse davvero.

«Non ti piace questo posto.» commentò.

«A qualcuno piace, per caso?»

Si liberò dalla sua stretta e le prese la mano, distinguendo appena i contorni dei bracciali ai loro polsi.

«Immagino di no.»

«E allora perché dovrebbe piacere a me?» ringhiò «Non c’è aria. Non c’è luce. Non c’è calore. Perché dovrebbe piacermi, eh?»

«Sta’ calma» passò il pollice sul volto d’argento di Nemesis «o provocherai l’argyrion. E me.»

Rimasero in silenzio per un tempo indefinibile, mentre lo scorrere dei minuti si perdeva nel buio, scandito solo dai loro respiri. Ad un tratto la voce dell’uomo risuonò di nuovo nel cunicolo.

«Hai paura, Ahdle?»

«Di che cosa? Della morte?» rise, di una risata amara e stridula «Lo sapevo da tempo.»

«Di qualcosa.»

Non pensava gli avrebbe risposto, ma l’oscurità favoriva le confessioni, e la sua mente si era ormai convinta di stare bene, insieme a lui – o forse era davvero così e il suo orgoglio si rifiutava, nel profondo, di accettarlo.

«Non per me.» mormorò infine, improvvisamente stremata.

«Per quella donna? O per quel ragazzino che ti sta sempre intorno?»

«Entrambi.» fece una pausa «E tu, Neryon? Tu hai paura?»

Sfiorò di nuovo l’argyrion al polso di lei, i lineamenti della dea che s’indovinavano al tatto.

«No.»


* * *


Erano sedute a parlare, in un’intimità ritrovata con la prigionia. Tirani, addormentata accanto a loro, era una presenza discreta; Hetrir e Nemunas erano andati a prendere dell’acqua e Khai li aveva seguiti – con la minaccia degli Anastatoi nessuno faceva più caso a loro, e si erano ritrovati improvvisamente liberi. Erano sole, quindi, senza la presenza a volte quasi soffocante del branco.

«Tra una decina di giorni sarò all’ultima luna.» stava dicendo Soyi, accarezzandosi il ventre con aria incerta «Mi aiuterai, allora?»

Represse con stanca abitudine una protesta, salita dalle pieghe più profonde dell’anima – quelle che conservavano ancora il ricordo, e il dolore.

«Lo farò. Ma è meglio cercare anche una levatrice, o almeno un’altra donna.»

Prima che la sorella potesse rispondere, Tirani sbadigliò e si tirò a sedere. La videro assumere un’espressione accigliata e portare discretamente la mano tra le gambe, a contatto con il tessuto; ripulì le dita macchiate di sangue sulla coperta, poi si voltò verso di loro e chiese a bassa voce: «Ahdle, hai qualcosa per il mese?»

Non rispose. Non fece niente, in realtà, se non contare mentalmente. Una, due, tre volte. Il risultato era sempre lo stesso: almeno trentacinque giorni. Sicuramente più di una luna.

No, non era possibile. Non di nuovo. Non da lui. Non in quel momento.

Portò la mano al ventre.

Trentacinque giorni.


* * *


«Cos’hai?» le chiese, guardandola alla luce tremula della torcia.

«Nulla.»

Sentiva la traccia pungente della tensione, sopra il sudore; il corpo non mente, e lei di certo nascondeva qualcosa.

«Sei nervosa.» constatò senza emozione.

«È questo posto. Non c’è aria»

Cambiò discorso, decidendo di crederle – era stanco anche lui di nascondersi come un ratto.

«Avete trovato una levatrice, tra le donne del villaggio?»

Lei si irrigidì.

«Sarò io. Nessun’altra è disposta.»

«Hai avuto figli?» domandò istintivamente, interessato a una vita di cui non sapeva nulla.

«Uno.» rispose asciutta.

Gli sembrò di udire la sua voce tremare, prima che si girasse su un fianco e chiudesse gli occhi.


* * *


Fu uno scalpiccio lieve, all’inizio. Percorse i budelli neri, risuonò nelle sale umide, giunse sino a loro come il battito distorto di un cuore di roccia. E cresceva, cresceva, cresceva; finché capirono, e per un attimo ancora non si udì che quel suono agghiacciante. Poi fu il caos.

Richiami di madri, pianti, grida, un grumo denso di terrore che risucchiava tutti tra le sue spire vischiose. I volti passavano davanti agli occhi troppo veloci perché si potessero distinguere, le voci si confondevano in un unico urlo assordante, tutto era mischiato, confuso, soffocante, corpi sudati si accalcavano nei cunicoli togliendo aria e spazio, e quello scalpiccio si faceva sempre più vicino, sempre più forte, sempre più orrendo.

Sosteneva Soyi insieme a Nemunas, tentando di non farla cadere per gli urti; Khai, stringendole il braccio, si guardava attorno cercando la sorella. I suoi richiami venivano inghiottiti nel boato della folla, così come le parole che l’uomo più anziano stava cercando di farle udire, e quelle che Soyi ripeteva incessantemente – chiamava Hetrir, forse, ma perfino la sua sagoma imponente si perdeva in quella ressa.

Non avevano possibilità: glielo gridavano l’istinto e il ricordo, pelle tesa su una cicatrice che riprende a dolere, mentre il gelo ustionante dell’argyrion la confinava in un corpo lento e fragile. Il passato era tornato a ghermirla e questa volta avrebbe cancellato il futuro.


«Zenas!»

Urla panico sangue fuoco lacrime disperazione. Ma distingueva comunque il suo pianto, una lama che incideva fino alle pieghe più profonde dell’anima. Non poteva andarsene.

«Zenas!»


Lo scalpiccio si arrestò, ma i sibili delle frecce e lo stridore del metallo furono un suono ancor più terribile, una condanna a morte, una furia vendicativa e insensata, il fiele di Nemesis che scorreva acido in gola.

Soyi si accasciò, esausta, tenendosi il ventre.

«Andiamo.» le mormorò, inudibile «Forza, andiamo.»


«Ahdle, vieni via! Ahdle!»

«Non posso lasciarlo qui!»

Non fu più la stretta della sorella, ma una più rude, maschile.

«Muoviti, Ahdle.» le ringhiò l’uomo.

Il lupo, sconfitto, chinò la testa di fronte al capo. La madre, dentro di lei, continuò a urlare.

Non avrebbe più smesso.


Scorse uno sguardo grigio e si avvicinò di scatto, con un nome sulle labbra; ma quello scomparve tra la folla, e non seppe mai chi avrebbe chiamato, se Hetrir o Neryon, perché una spinta la gettò a terra.

D’istinto alzò le braccia per schermarsi. Il volto argentato di Nemesis, al suo polso, si rifletté impassibile nella lama del guerriero di fronte a lei.



Corse nella sua direzione nell’istante in cui gli Anastatoi raggiunsero il cuore della ressa, e la vide venire inghiottita dall’orda di soldati; il panico gli serrò lo stomaco e gli offuscò la mente, facendolo scattare verso di lei, ma non riuscì a penetrare nello sciame di persone terrorizzate.

Continuare a cercarla sarebbe stato inutile, si rese conto – e, se anche non lo fosse stato, l’uomo è egoista e codardo; la bestia no, a dispetto del suo nome, ma era sopita da troppo tempo perché potesse influenzarlo. L’amarezza che lo aggrediva a ogni passo non gli impedì di tornare a fuggire.

Incespicò in una donna a terra e, rialzatosi con un’imprecazione, riconobbe la sorella di Ahdle. Un ricordo, una voce, si fece strada tra il boato generale – «Hai paura?» «Non per me.» – e non riuscì a ignorarla. Almeno quello, si disse. Almeno quello glielo doveva – ma per cosa, poi? I ringhi le discussioni l’odio? Avevano davvero valore, quelle notti passate insieme?

Sì, pensò rabbiosamente, di valore ne avevano fin troppo.

Indicò alla gravida e ai due uomini con lei un passaggio ignorato dalla folla, troppo basso per un uomo adulto, quindi afferrò i polsi di ognuno e mormorò l’abituale formula, liberandoli dall’argyrion. La donna non si mosse, limitandosi a guardarlo: sembrava quasi chiedere E tu?, ma lui fece di nuovo cenno verso il cunicolo.

Gettò un’ultima occhiata al cuore della sala, dove Ahdle era scomparsa, dove gli Anastatoi infuriavano – dove qualcosa all’altezza dello stomaco gli ordinava di andare. Sfiorò il cerchio di metallo alla mancina; bastò un sussurro per farlo cadere a terra, e la roccia scalfì lo smalto nero, rivelando un bagliore argentato. I sensi, non più attenuati, vennero aggrediti dal caos nella caverna; impiegò qualche istante per riprendersi, poi fissò lo sguardo sulle tre fiere che correvano verso il cunicolo e cancellò ogni esitazione.

Un secondo dopo, un quarto lupo raggiunse gli altri.






Metto la parola fine a questa storia, ma non ai miei personaggi. Ho abbandonato il seguito principale, almeno per ora, ma ho in stesura altre piccole long-fic; non so quando le finirò, ma ho intenzione di pubblicarle, quindi ogni tanto date un'occhiata al mio account, se siete interessati.
Ringrazio per i preferiti. Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate di questa storia, e quali personaggi vorreste vedere approfonditi nelle altre storie ^^
Alla prossima vena d'ispirazione!
   
 
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