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Autore: Miss Demy    31/12/2011    17 recensioni
Missing Moments collocabili tra il cap 17 e 18 della fanfiction Moonlight, con protagonista Usa. Presenta Spoiler per Moonlight 2. Dalla shot:
«Ti prometto che quando sarà tutto finito, tu e io ce ne andremo sull’Empire State Building» promise mentre l’avvolgeva tra le braccia e chiudeva gli occhi, avvertendo solo la testa della bambina sul proprio petto, «e guarderemo la luna, immaginando tanti piccoli lunari a popolare quel satellite.»
Una risata, di chi ha in mente già la scena. «E conteremo le stelle?» L’idea l’allettava moltissimo.
«Certo, le conteremo, e se ne noteremo una cadente, esprimeremo un desiderio, ti va?»
«Sì, mi va» sussurrò strofinando la guancia sul maglione caldo e morbido della ragazza, «verrà pure Marzio con noi?»
«Sì, sarebbe una bella idea andare tutti e tre insieme.» Ne era fermamente convinta mentre il suo cuore si riscaldava al solo pensiero.
«E poi compriamo pure un hot dog con tanta maionese?»
Bunny ridacchiò a tanto entusiasmo, contenta del fatto che, almeno per un poco, la voglia di parlare di cibo le fosse tornata. «Sì, prenderemo anche quello» confermò cullandola lentamente, «e anche le patatine!»
«Non vedo l’ora…»
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Chibiusa, Usagi/Bunny
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nessuna serie
- Questa storia fa parte della serie 'Moonlight'
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La Rinascita

 

Ciò che accomuna tutte le bambine nel periodo natalizio è la carica di entusiasmo con cui scrivono la lettera a Santa Claus.
Alcune lo fanno chiedendo di ricevere una bambola nuova, una di quelle da collezione, con un ampio vestito in tulle rosa o velluto rosso, dalle rifiniture impreziosite da merletti lavorati a mano e perline, e con lunghi capelli dai boccoli dorati acconciati da un nastro di velluto. C’è chi desidera, invece, una grande casa di bambole, a due piani con l’ascensore interno, che vista dalle piccole finestre dia l’impressione che quell’abitazione sia vera, pronta ad accogliere le migliori amiche inanimate di ogni bambina. Non mancano quelle che desiderano un video gioco nuovo, con i mostri da sconfiggere per salvare la principessa rilegata in cima a un castello.
E poi, c’è chi non ha nulla da chiedere a Babbo Natale: nessuna bambola da pettinare, nessuna casa da spiare dalle finestrelle, nessun videogame. C’è chi non scrive nessuna lettera perché sa che il proprio regalo non potrà mai essere incartato e posizionato sotto l’albero. E l’unica cosa che certe bambine fanno è pregare, ritrovando la vera essenza del Natale e affidandosi al buon Gesù, sperando possa occuparsi direttamente del proprio desiderio. Forse resterà solo un desiderio espresso e irrealizzabile, ne sono consapevoli, ma ciò in cui continuano a sperare è soltanto un trapianto di midollo per poter continuare semplicemente a vivere.
Usa Tsukino, all’età di cinque anni, era tra queste bambine.
 
 
22 Novembre 2010 – Sloan Kettering Memorial Center, Upper East Side, NYC

Quando Bunny abbassò la maniglia della porta, aprendola e facendola cigolare come ogni altro pomeriggio, Usa distese le labbra bianche in un sorriso: finalmente, dopo un interminabile giorno tra quelle mura bianche e l’odore di chiuso, sua sorella era tornata a farle compagnia. Distese le braccia in avanti, fremendo in attesa che la distanza tra loro diminuisse sempre di più e lei potesse accoccolarsi in quell’abbraccio familiare. Quel pomeriggio però Bunny non parlò entrando nella stanza: nessun saluto, nessun nomignolo affettuoso verso quella bambina che aveva contato le ore, i minuti, bisognosa di quella stretta intima e confortante, vitale più dell’ossigeno. La ragazza richiuse la porta alle sue spalle, prima di avanzare a passo svelto verso quelle piccole braccia che volevano intrecciarsi alle sue. E fu solo quando avvertì la bambina stringersi a sé che, accarezzandole la schiena con delicatezza, lasciò uscire un sospiro di sollievo, mentre il viso di Usa si distendeva e su di esso si dipingeva un sorriso colmo di gioia.
Usa credé che quello sarebbe stato l’ennesimo pomeriggio monotono che avrebbe trascorso come tutti gli altri, uno di quelli in cui avrebbe chiacchierato con sua sorella mostrandole i disegni colorati o raccontandole dei programmi guardati alla televisione; avrebbe visto come sempre il suo anime preferito tra le braccia di Bunny, ridendo per la goffaggine della protagonista e prendendosi tutte le coccole che per lei non erano mai abbastanza.
E invece…
Rimase immobile, con la testa ben posata sul cuscino, a osservare la ragazza mentre si scostava da lei, sbottonava il suo cappotto rosa confetto, togliendolo e lasciando visibili le forme prosperose sotto i vestiti. Tante volte, guardandola, aveva pensato che da grande avrebbe voluto avere un corpo come quello, dei capelli morbidi e lunghi fino alla schiena che ondeggiavano a ogni movimento di testa.
Continuò ad ammirarla, mentre si sedeva sul bordo del letto, prendendo la sua piccola mano e incontrando i suoi occhi. «Devo dirti una cosa,» sussurrò Bunny pacatamente.
 «Che cosa?» non poté fare a meno di chiedere, mentre il tono della voce perdeva entusiasmo e un senso di amarezza e delusione iniziavano ad alimentarsi dentro di sé. Se per qualunque altra bambina quella domanda potesse essere considerata frutto della curiosità impaziente infantile, per Usa non lo era. Per lei rappresentava l’introduzione a un discorso ascoltato tante, forse, troppe volte. E ogni volta portava a brutte notizie, a terapie rivelatesi inefficaci, a controlli dagli esiti negativi, a peggioramenti della sua salute. Sospirò, abbassando lo sguardo verso le coperte rimboccate all’altezza della pancia, socchiudendo le palpebre in attesa dell’ennesimo problema che la sorella le avrebbe prospettato. E quando iniziò ad avvertire il suo tocco delicato sulla propria guancia, morbida ma sciupata, per lei fu un’amara conferma ai suoi timori. Arricciò le labbra in una smorfia di rassegnazione, quella stessa rassegnazione a cui non voleva abbandonarsi, ma che la perseguitava anche quando continuava a immaginare quel filo verde chiamato Speranza che l’avrebbe condotta presto fuori da quella stanza bianca, per le vie dell’Upper East Side, verso Rockefeller Center ad ammirare il maestoso abete ricoperto di addobbi e luci bianche. Si sarebbe piegata sulle ginocchia, riempiendosi le mani di neve e iniziando a creare un piccolo pupazzetto a cui avrebbe scattato una foto ricordo da fissare sul frigo con una calamita. Avrebbe continuato a seguire la Speranza, ritrovandosi a Elysion, il più grande negozio di giocattoli, accolta dal tepore di quel luogo pieno di bambole, peluche e trenini che percorrevano la stanza, fischiettando ed emettendo canzoncine natalizie. In fondo al locale, la sua bocca si sarebbe spalancata istintivamente, notando una fila di bambini che attendevano il proprio turno per sedersi sulle gambe di Santa Claus, impazienti di confidargli cosa avrebbero voluto ricevere la notte di Natale. E ogni volta che giungeva il suo turno, Babbo Natale svaniva nel nulla, insieme al filo verde, e lei si ritrovava in quella stanza che odorava di disinfettante a udire una voce roca che sghignazzava: «Rassegnati!»
 
«È una cosa bella, Usa!» e il tono della sua voce fu così carico di gioia che la bambina sollevò gli occhi verso quelli della ragazza, pendendo dalle sue labbra, in attesa che continuasse.
«Ho parlato con il dottor Tomoe: presto riceverai quella punturina che ti farà guarire.»
E in quel momento, Usa credé di non riuscire più a muoversi, mentre un calore improvviso nasceva dal suo cuore dilagando in tutto il suo fragile e debilitato corpo come un fiume in piena.
Non disse nulla, come se un nodo alla gola le impedisse di emettere qualsiasi suono vocale; riuscì a percepire solo quello dei suoi battiti che acceleravano, accompagnato dal respiro che diventava più affannato e dagli occhi che sembravano bruciarle. Non voleva crederci. Forse aveva capito male, forse era solo la sua necessità di liberarsi da quella voce crudele che la spingeva a rassegnarsi, forse si stava illudendo solamente.
«Hai sentito cosa ti ho detto?» Bunny portò la piccola mano alle labbra, schioccandole un bacio e cercando di trattenere le lacrime. «Hanno trovato un donatore.»
 
E fu solo allora che Usa aprì la bocca, muovendosi nel letto e agitando le mani.«Sì!» esultò, «Sì, sì, sì» mentre gli occhi, incapaci di trattenere le lacrime, le lasciarono uscire. O forse Usa non aveva voglia di trattenerle, forse voleva solo sfogarsi, affrontare i ricordi drammatici durati un anno intero, che il suo corpo non smetteva mai di rimembrarle, e pensare che presto tutto ciò avrebbe fatto soltanto parte del suo passato.
«Quando?» fu l’unica cosa che doveva sapere, l’unica che contasse sul serio. Non poteva più attendere: aveva già atteso trecentoottantanove giorni. Erano difficili da pronunciare, impossibili da vivere.
«Usa, vedi, ci vorrà un po’.» E a quelle parole, d’istinto, la bambina continuò a piangere, mentre il gusto che assaporava sulle labbra da molto dolce, diveniva salato e amaro. Come sempre.
«Aspetta, non piangere!» Bunny le accarezzò le guance, asciugandole e cercando di confortare la piccola, ancora frastornata. «Devono preparare il donatore; il dottore mi ha detto che prima dell’intervento devono mettere il suo corpo nelle condizioni per effettuare l’intervento al meglio.»
 
Era difficile per Bunny spiegare a Usa tante cose. Nessuno le aveva insegnato a farlo, nessuno le aveva suggerito i modi più adatti per far capire a una bambina di quattro anni che non avrebbe più rivisto mamma e papà, che il dottor Tomoe e tutti i medici l’avrebbero aiutata a stare bene, se fosse rimasta in quella stanza di quel reparto pieno di altri bambini. E la cosa più difficile era non sapere cosa rispondere mai alla domanda: «Bunny, quando mi fanno uscire? Non ci voglio stare più qui! »
«Presto, uscirai presto, non appena troveranno un donatore, una persona attraverso cui sarà possibile farti quella punturina che ti farà guarire.»
E alla domanda successiva, che inevitabilmente arrivava sempre.«Quando lo trovano?», la risposta era sempre la stessa:
«Presto, lo stanno cercando.»
 
Quella volta, però, la domanda a cui dovette rispondere, fu nuova, mai udita prima:
«Guarirò, non è vero Bunny?» Più che un quesito, aveva il tono e la luce negli occhi di chi lo sperava con tutta se stessa.
La ragazza avvertì una strana agitazione che la rendeva inquieta; si voltò verso la finestra, coperta dalle tendine verdi che non lasciavano guardare all’esterno: neanche il cielo di Manhattan quella sera le avrebbe suggerito la risposta. Ispirò profondamente, riappropriandosi di quell’autocontrollo possibile per apparire agli occhi della bambina tranquilla e fiduciosa.  
«Certo che guarirai» fu simile a un sussurro, mentre i suoi occhi diventavano lucidi e le labbra serrate forzavano un sorriso rassicurante. La mano di Usa era nella sua. Entrambe erano fredde; cercavano di riscaldarsi a vicenda, di affrontare tutto assieme, ancora una volta. Sarebbe andato tutto bene, continuava a ripetersi Bunny; sarebbe andato tutto per il meglio, doveva andare tutto per il meglio.
 
«Sono felice, Bunny.» Tre parole dette col cuore, un’affermazione che Usa aveva sempre desiderato pronunciare e che destarono la Moonlight dancer dai timori che cercava di celare alla bambina. «Sono davvero felice…»
 
Bunny non accennò alle sue preoccupazioni nate dai discorsi con il dottor Tomoe e alimentate dall’atroce paura di perdere per sempre colei per cui aveva fatto di tutto, persino accettare un lavoro in un night club dell’East Side di Manhattan. E se il trapianto non avesse sortito l’effetto dovuto? E, cosa fare in caso di rigetto? Come avrebbe detto alla bambina che anche l’unica ancora di salvezza si era rivelata un’arma per la distruzione fisica e psichica di quello scricciolo? E, peggio, se il corpo della bimba non fosse stato talmente forte da superare il trapianto, costretto a dire addio al mondo e alla vita crudele? Non era il momento per far vagare liberi nella sua mente tutti quei quesiti.
«Vieni qui, piccolina.» Si avvicinò al corpo della bambina, incurvandosi in avanti e avvolgendola tra le braccia. Con la guancia sulla testa fredda e dai pochi capelli, iniziò ad accarezzarle le spalle e la nuca: a Usa piacevano così le coccole. «Ce ne andremo via da qui» ripeteva come una cantilena, volta a convincere più se stessa che la sorellina. «Ce ne andremo via presto, te lo prometto.»
 
 
 
7 Dicembre 2010 – 31 giorni al trapianto

«Vuoi che ti sollevi il cuscino?» Bunny richiuse la sua rivista, staccando la schiena dalla poltrona e guardando la bambina che si muoveva sul letto in cerca di una posizione più comoda.
«Hm mh» annuì soltanto, riprendendo a guardare la tv davanti a sé.
La ragazza si alzò, avvicinandosi al letto e sorreggendo la bambina per la schiena, mentre sistemava il guanciale ormai appiattito.
«Ecco fatto,» le schioccò un bacio sulla fronte prima di rimboccarle le coperte e tornare a sedersi sulla morbida poltrona.
Il vociferare emesso dalla televisione fu coperto dalla voce malinconica di Usa. «Bunny, quanto tempo devo stare in questa stanza?» Si guardò ancora una volta intorno, notando le pareti bianche, senza neppure una finestra a cui affacciarsi per poter ammirare le stelle nel cielo della City. Nessun grattacielo, nessun ponte, nessun bagliore che New York donava allietando la vista di tutti coloro che decidevano di perdersi nel panorama più suggestivo di Manhattan. «A me non piace qui, voglio tornare nella mia stanza.»
«Usa, non è possibile» fu la risposta netta e decisa di Bunny, che continuava a fissare l’articolo sulle ultime tendenze di moda, «questa stanza serve per preparare il tuo corpo al trapianto: non puoi tornare nell’altra camera prima della punturina.»
Un sospiro nervoso. «Uffa!» mentre sbatteva un pugno sul materasso e cercava di incontrare lo sguardo della sorella, intenta a sfogliare pagina per leggere il seguito di quell’argomento che sembrava interessarle molto. «Potrò fare almeno l’albero di Natale, in reparto, con gli altri bambini?»
E Bunny posò il giornale sul bordo della poltrona, mettendosi in piedi e respirando profondamente; si sedette sul letto, accarezzando una gota della bambina e cercando le parole più adatte per farsi comprendere senza urtarla troppo.
«Ascolta, Usa» introdusse con tono dolce e paziente guardandola negli occhi nocciola dall’aria stanca, «ricordi tutte le volte cheabbiamo sperato di trovare un donatore affinché tu potessi guarire e uscire da questo ospedale?»
Usa fece un movimento d’assenso col capo, continuando a pendere dalle labbra della ragazza.
«Ecco, adesso l’hanno trovato e, finché non ti faranno la punturina, non potremo lasciare questa stanza.» Temette di essere stata troppo rigida, però in quel momento non trovava parole migliori; era difficile pure per lei rimanere in quella stanza sterile per un mese, lontana dalla City, isolata dal mondo intero, compreso lui: Marzio. Era sempre nei suoi pensieri e, anche se era trascorso ancora un solo giorno da quando lui l’aveva stretta forte a sé, riscaldandola col suo respiro e inebriandole i sensi con il suo odore intenso e speziato, le mancava davvero tanto, soprattutto in quei momenti in cui si trovava a ricoprire un ruolo troppo impegnativo verso la sua sorellina. Temeva sempre di sbagliare, di dire o fare qualcosa che urtasse colei che psicologicamente era molto provata, sopraffatta da continui sensi di nausea e dolori provocati dalle radiazioni e terapie effettuate in vista del trapianto. Usa era solo una bambina, non capiva molte cose che le venivano imposte, come rimanere in quella camera, senza poter fare un giro sulla sedia a rotelle lungo il corridoio, scambiare due parole e un sorriso con altri bambini nella ludoteca di quel reparto di pediatria oncologica e, soprattutto, fare l’unica cosa che in un anno era stata in grado di rilassarla e renderla serena: guardare la luna e contare le stelle.
La vide abbassare la testa e stringere i pugni sulla coperta, mentre la sua espressione si incupiva; posò una mano su quella di lei. «Ti prometto che quando sarà tutto finito, tu e io ce ne andremo sull’Empire State Building» promise mentre l’avvolgeva tra le braccia e chiudeva gli occhi, avvertendo solo la testa della bambina sul proprio petto, «e guarderemo la luna, immaginando tanti piccoli lunari a popolare quel satellite.»
Una risata, di chi ha in mente già la scena. «E conteremo le stelle?» L’idea l’allettava moltissimo.
«Certo, le conteremo, e se ne noteremo una cadente, esprimeremo un desiderio, ti va?»
«Sì, mi va» sussurrò strofinando la guancia sul maglione caldo e morbido della ragazza, «verrà pure Marzio con noi?»
«Sì, sarebbe una bella idea andare tutti e tre insieme.» Ne era fermamente convinta mentre il suo cuore si riscaldava al solo pensiero.
«E poi compriamo pure un hot dog con tanta maionese?»
Bunny ridacchiò a tanto entusiasmo, contenta del fatto che, almeno per un poco, la voglia di parlare di cibo le fosse tornata. «Sì, prenderemo anche quello» confermò cullandola lentamente, «e anche le patatine!»
«Non vedo l’ora…»
 
 
24 Dicembre 2010 – Upper East Side

In quella camera in cui non filtravano raggi mattutini ad augurare buongiorno, né chiaro di luna a rendere la buonanotte, solo una sensazione di gelo nelle vene colpì il fragile corpo di Usa, destandola lentamente dal suo riposo. Con una mano sfiorò l’angolo del collo, avvertendo prurito proprio attorno al catetere venoso che le era stato inserito nella fase di preparazione all’intervento. Si voltò alla sua destra, notando Bunny riposare sulla poltrona reclinabile avvolta in un plaid blu che lasciava scorgere solo il viso inclinato lateralmente e coperto da alcune ciocche bionde; quella mattina si sentiva debole, spossata, con un senso di nausea che partiva dallo stomaco fino alla bocca amara. “Neanche per la Vigilia riesco a stare meglio” pensò esausta. Quell’anno, per la prima volta, non aveva scritto nessuna lettera a Babbo Natale; a che sarebbe servito? Prima di tutto, lui non sarebbe potuto giungere fino a lì: non era permesso a nessuno di entrare, non c’era neanche una finestra, considerò, e poi, rifletté su qualcosa a cui la sua mente non riusciva a smettere di pensare da ormai una settimana, come un’ossessione che iniziava a dilagare dentro di sé fino a divenire l’unico desiderio che sperasse di realizzare, oltre alla guarigione, era inteso.
Forse non sarebbe servito a molto, forse quel genere di doni non era contemplato nella lista dei regali che Babbo Natale avrebbe portato ai bambini buoni. Però lei era stata davvero tanto buona, su ciò non c’erano dubbi: aveva sempre preso tutte le medicine, evitato di fare i capricci durante le iniezioni e non si lamentava mai quando si sentiva debole e aveva la sensazione di non riuscire neppure a parlare; non aveva mai obiettato quando Bunny andava via perché l’orario delle visite era terminato e neanche quando le era stato detto che non poteva mangiare frappé o ciambelle rivestite di glassa alla fragola. Sì, okay, non aveva fatto storie solo perché non aveva molto appetito, però in fin dei conti il risultato era stato lo stesso: aveva fatto la buona. Certo, qualche volta aveva strillato con tutte le poche forze che aveva, quando le braccia le facevano male e l’infermiera non riusciva a prenderle una nuova vena, scavando con quell’ago appuntito sulla sua pelle morbida e violacea, o anche quando chiedeva di andare via da quell’ospedale, a casa sua tra le sue bambole e il suo letto morbido e confortevole, e le negavano il permesso. Di pianti ne aveva fatti parecchi, e anche di obiezioni contro quelle medicine che le portavano via ciocche intere di capelli ramati. Però, in fin dei conti, lei era stata una brava bambina, ne era certa. Santa Claus doveva esaudire il suo desiderio perché non aveva mai desiderato nulla in quel modo. Nessuna bambola, nessun mega coniglio soffice da abbracciare nel cuore della notte, nessun giocattolo era mai stato chiesto con la stessa intensità, con tutta la sua anima. Doveva provare, c’era ancora tempo per scrivere una letterina e sperare che, posta sotto il cuscino, dato che non poteva spedirla, l’intensità delle sue parole sarebbe giunta fino a Lui. Si sporse in avanti, afferrando il rigido blocco di fogli bianchi che usava per disegnare e portandoselo sopra le gambe; tolse il tappo al pennarello dalla punta sottile e nera e inizio:

Caro Babbo Natale, quest’anno pensavo che non ti avrei scritto nessuna lettera per un motivo: non credo che tu con le tue renne e la tua slitta riusciresti ad entrare in questa stanza. Non è come l’altra, con la finestra grande; qui non ci sono finestre e neppure un camino, e i dottori dicono che non può entrare nessuno fino a quando mi faranno la puntura che mi farà guarire. Oggi però ho deciso che la lettera la scrivo ugualmente, anche se quest’anno non c’è nessun giocattolo che desidero. Il mio regalo non si può incartare e poi qui non c’è neanche l’albero sotto il quale posizionarlo, però è l’unica cosa che vorrei con tutta me stessa perché è quella più importante, quella che vale più di tutti i balocchi di Elysion. Ti prego Babbo Natale, io non posso chiederti di riportare qui la mia mamma e il mio papà perché so che loro ora sono in cielo e non possono tornare da me, però c’è una cosa che mi renderebbe felice. Per favore, permettimi di conoscere il mio donatore. Io non so chi sia, se è un maschio o una femmina, se giovane come Bunny o più grande. Vorrei sapere il suo nome, guardarlo negli occhi e potergli dire Grazie, perché è soltanto grazie a lui se finalmente potrò smettere di vivere in questo brutto posto, perché vorrei abbracciarlo forte e ringraziarlo per permettermi di avere una vita migliore, senza punture, chemioterapia, vomito e sensazioni così dolorose che il mio corpo non riesce a reggere. Finalmente grazie a Lui io guarirò, capisci? Ritornerò a essere una bambina sana, con tanti capelli morbidi come quelli di mia sorella; credo che anche io mi farò le code come le sue. Finalmente uscirò da qui, e potrò camminare tranquilla per le vie di Manhattan, respirare l’aria pura di Central Park, guardare le luci dei grattacieli all’imbrunire da uno dei fast food dell’East Side. Tornerò a scuola, con gli altri bambini e imparerò tante cose nuove. Conterò le stelle dall’Empire e mi sentirò felice sapendo che tutto questo farà parte del passato. Però ti prego, ti supplico, io devo conoscere chi mi renderà possibile tutto questo. Il dottor Tomoe ha detto che il donatore ha richiesto di rimanere anonimo e io ho pianto tanto. Perché non vuole conoscermi? Non vuole permettermi di stringergli la mano e fargli capire che io gli sarò grata per tutta la vita; io però mi sento in dovere di fargli capire che sarà sempre parte di me e che vorrei averlo presente in quella mia nuova vita che è possibile solo grazie a lui. Questo è ciò che vorrei ricevere per Natale: la possibilità di abbracciare colui che mi permetterà di guarire, di rinascere.
Con affetto,
Usa Tsukino

 
 
7 Gennaio 2011 – giorno del trapianto

La porta scorrevole fu aperta come tantissime altre volte, però quella non era come tutte le altre: quel giorno per Usa era un dì importantissimo, uno di quelli che cambiano la vita e lo fanno in meglio. Aveva fissato la maniglia per un arco di tempo indefinito e ogni secondo era stato scandito dal battito del suo piccolo cuore colmo di speranza. Fremeva sul letto e respirava profondamente, cercando di non affogare nella marea di ansia e agitazione che dilagava dentro di sé. Se aveva provato la sensazione di impazienza, non prendendo sonno la notte della vigilia di Natale, e svegliandosi alle prime luci dell’alba per poi correre fino al salone e trovare i doni sotto l’albero, quel giorno realizzò di non essere mai stata così elettrizzata e incapace di attendere oltre come in quei momenti che a lei parvero un’eternità.
Le lenti tonde del dottor Tomoe sembrarono splendere, mentre la sua figura compariva e avanzava all’interno della camera, seguita da Michelle, la giovane, ma allo stesso tempo, esperta infermiera.
«Allora, come sta oggi la nostra paziente?» E in una semplice domanda, Tomoe sfoggiò il suo sorriso migliore, quello sempre disegnato sulle sue labbra che rincuorava i suoi piccoli pazienti, Usa compresa.
Gli occhi della bambina brillarono di una nuova luce, come se un raggio di sole fosse penetrato all’interno schiarendo le sue iridi nocciola, ancora fisse sulle mani rivestite da guanti di Michelle. «Sto bene, è quella che mi farà guarire?» domandò notando una sacca trasparente dal liquido giallognolo.
Un sospiro, così lieve che venne soffocato dalla mascherina che nascondeva la bocca e metà volto del medico. «Sì, finalmente ci siamo, sei pronta?»
 
Bunny si alzò dalla poltrona sulla quale tante notti, approfittando che la piccola dormisse, aveva lasciato uscire lacrime silenziose e amare. Perché guardandola riposare, con le palpebre abbassate e il respiro regolare, la mente le aveva mostrato spesso l’immagine di sua sorella dopo il trapianto. Nessuna guarigione, nessuna ripresa graduale verso una nuova vita fatta di salute e momenti di pura quotidianità che Usa meritava: Bunny vedeva la morte che, come una signora vestita di nero, arrivava per prendere la bambina e portarla via da lei, togliendole l’unica persona superstite di quella che un anno addietro poteva chiamare famiglia. Ogni volta il cuore sembrava stesse per uscirle dal petto e rotolare a terra per poi essere schiacciato. Avrebbe fatto meno male, e invece l’idea di poter perdere Usa era un dolore senza paragoni. Stava facendo la cosa giusta? Si martellava il cervello con quell’interrogativo; e se il trapianto e la preparazione precedente avessero esposto la bambina a conseguenze negative e mortali? Non se lo sarebbe mai perdonato. A volte si chiedeva se fosse stato meglio rinunciare e far vivere a Usa quei mesi in più che probabilmente la mancanza di anticorpi nella fase pre-trapianto le avrebbe portato via, però poi realizzava che i medici avevano ragione: doveva essere fiduciosa, perché nei bambini la probabilità di riuscita era superiore rispetto agli adulti, e se era vero che la vita le aveva già tolto troppo, caricandola di problemi e responsabilità troppo pesanti per una teen-ager, Bunny volle sperare che il momento in cui finalmente l’arcobaleno avrebbe colorato il cielo nero e cupo fosse giunto. Usa lo meritava, meritava il sole e le sette sfumature dipinte nel cielo.
Non disse nulla, si avvicinò al letto fino a quando le ginocchia premettero sul materasso, e si limitò a prendere la mano della bambina nella propria.
«Sì, prontissima!» E la voce carica di entusiasmo di chi non può attendere oltre donò un sorriso alla ragazza che trattenne il fiato, avvertendo la sensazione di non riuscire a respirare appieno.
L’infermiera si posizionò all’altro lato del letto, agganciando la sacca a un’asta e svitando il tubo trasparente che collegava l’ago cannula alla soluzione per flebo.
«Durerà un paio d’ore, non te ne accorgerai neanche» spiegò con dolcezza avvitando di nuovo il tubo e guardandola in viso, «per qualsiasi fastidio noi siamo qui.»
Usa annuì, perdendosi nelle iridi verde smeraldo reso più intenso dalla mascherina che lasciava scoperti solo gli occhi dell’infermiera. «Va bene!»
Non riusciva a distogliere lo sguardo dal suo braccio, osservando come il sottile tubo si colorasse di giallo e la goccia lenta scendesse dalla sacca. Aveva atteso e immaginato quel momento così tanto che tutto le sembrò strano. In quegli attimi, mentre il dottore annotava alcuni dati sulla sua cartella clinica, mentre Michelle sganciava la soluzione per flebo dall’asta e mentre Bunny le stringeva la mano, infondendole conforto, Usa realizzò che aveva sempre immaginato quel giorno tanto atteso in maniera differente: credeva avrebbe dovuto fare una semplice iniezione e che subito dopo il suo corpo avrebbe riacquisito tutte le energie che l’avevano abbandonata molto tempo addietro, che il senso di spossatezza e di nausea sarebbero scemati sempre più facendole accorgere della netta guarigione. E invece era una semplice flebo giallognola, lunga da terminare. Temette sarebbe stata inutile, che non avrebbe sortito nessun effetto. Si incupì.
«Dottor Tomoe,» chiamò con espressione triste, attendendo di incontrare i suoi occhi, «io guarirò, non è vero?»
Il medico sollevò la testa, mentre ciuffi brizzolati gli ricadevano sulla fronte. «Certo che guarirai» si limitò a dire, come se non volesse dare false speranze a chi non sarebbe stata in grado di comprendere, fraintendendo quelle parole e considerandole una bugia cattiva, «faremo del nostro meglio per farti guarire.»
E attraverso le lenti spesse, Usa scorse un occhiolino, mentre le guance sbarbate evidenziavano un sorriso. Si avvicinò all’asta, abbassando di poco la velocità del liquido vitale. «Va bene, Usa, noi adesso andiamo, per qualsiasi cosa non esitare a premere il pulsante, io sarò subito da te.»
Usa chiuse gli occhi per un istante, assaporando ogni singolo secondo di quella mattina. Voleva poter ricordare l’odore a cui si era ormai abituata ma che cercava di percepire e impregnare sulla pelle: un giorno sarebbe stato quell’odore a ricordarle la Rinascita, il momento tanto pregato tutte le sere prima di andare a dormire, desiderato a ogni stella cadente che aveva visto attraversare il cielo, sofferto con ogni lacrima amara. Il silenzio dominò la stanza per un paio di minuti prima che Bunny lo fermasse. «Vuoi che ti accenda la televisione?» chiese accarezzando con il pollice la piccola mano ancora nella sua.
La bambina scosse la testa, mantenendo le palpebre abbassate. «No, vorrei riposare un po’.»
Avvertì le labbra morbide della sorella sulla propria fronte e il suo respiro riscaldarle il volto, prima di sentirla allontanare e udire il suono della rivista che veniva sfogliata.
Quel giorno non era il suo compleanno, erano appena trascorse le feste e tutto sembrava apparentemente normale. Eppure era un dì speciale per lei, perché non ci sarebbe stato Natale migliore, regalo più bello, di quel preciso istante. La sua vita stava per cambiare radicalmente.  Tante volte aveva fatto i capricci perché non voleva mangiare le verdure, o perché non voleva andare all’asilo e desiderava quel giocattolo troppo costoso che la madre non poteva comprarle. Si era lamentata perché il parco era troppo bello e non voleva tornare a casa all’imbrunire, perché nonostante fosse ora di cena e sapeva di non dover perdere l’appetito, preferiva sgranocchiare i biscotti riposti sulla credenza, e perché non voleva rimettere a posto le bambole sparse lungo il corridoio. Una lacrima le rigò la guancia. Era quella la normalità, la bellissima quotidianità fatta di piccole cose che rendono felici, solo che non poteva saperlo allora, era ancora troppo piccola; però quando erano venute meno, quando era stata costretta a rinunciarci venendo ricoverata a seguito della malattia, avrebbe dato qualunque cosa per poter udire ancora una volta la voce della madre che le ordinava di mettere in ordine, avrebbe ubbidito quando le dicevano di cenare con le buone pietanze piuttosto che con gli snack, concentrandosi sugli odori emessi da quei piatti caldi e prelibati; non si sarebbe lamentata al parco quando il sole iniziava a tramontare. Avrebbe dovuto respirare appieno l’aria pura, fissare nella mente le voci familiari, l’abbaiare dei cani e i rumori dei clacson della City, memorizzando quei momenti normali ma speciali. Erano rimasti un vago ricordo.
 
 
Una ragazza avanzava a passo deciso verso l’altra parte della strada; non c’erano automobili che ingorgavano le vie, né persone in mezzo a cui confondersi. Era sola, accompagnata da un tiepido venticello che le riscaldava le gote leggermente arrossate, e sfilacciava le lunghe code che il sole rendeva dai riflessi ramati. Si voltò alla sua destra, attratta dal vociferare di alcune ragazze, probabilmente sedicenni, sue coetanee; il sorriso nacque spontaneo sulle sue labbra scarlatte mentre udiva una di esse confidarsi con le amiche, raccontando di essere stata invitata a uscire da uno dei ragazzi più carini del liceo; ridevano all’unisono mentre le domandavano cosa avrebbe indossato per quell’appuntamento e, il volto gioioso di colei che si sentiva la ragazza più fortunata del Pianeta, mentre rispondeva: «Non lo so, ragazze, sono così indecisa» le provocò un calore al cuore. Era un bel momento, pieno di entusiasmo. Non vedeva l’ora di poter provare quella sensazione anche lei. Il gruppetto svoltò l’angolo e lei si ritrovò a incrociare lo sguardo di un uomo dai capelli corvini; il volto era sbiadito, appannato, non riusciva a identificarlo bene, eppure le sembrava di conoscerlo già. Lo seguì con gli occhi, notandolo avvicinarsi sempre di più a sé. Solo quando lui si arrestò, di fronte a lei, capì che non avrebbe mai potuto capire chi fosse quella persona.
«Ciao Usa» le rivolse la parola, confondendola ancora di più. Quella voce lei la conosceva: era calda, leggermente roca e infondeva protezione e coraggio.
«Chi sei? Ti prego, dimmi chi sei» implorava cercando inutilmente di scrutare i suoi occhi.
«Sono colui che ti ha permesso di guarire, colui che volevi tanto conoscere.»
E gli occhi color nocciola si inumidirono, mentre il cuore iniziò a scalpitare nel suo petto. Portò entrambe le mani sulla stoffa leggera della sua T-shirt rosa, sperando di calmare quel tamburellare che la agitava e rendeva sorpresa allo stesso tempo.
«Ti prego, dimmi il tuo nome.» Era l’unica cosa che desiderava sul serio.
«Sono tuo padre, Usa, il mio nome lo sai già» fu la risposta, con voce dolce e premurosa, di chi si commuove davanti a un incontro atteso da tutta una vita. La figura, avvolta in un cappotto scuro e dal viso annebbiato, iniziò a voltarsi lentamente, mentre l’eco dei suoi passi rimbombava per quella via deserta di Manhattan.
«No, aspetta, non è vero, mio padre è morto, non puoi essere tu!» iniziò a controbattere aumentando il tono, per essere certa che lui potesse udirla, anche se a distanza. «Dimmi chi sei, ti prego!»
Ma non ottenne nessuna risposta, solo il rumore del vento che smosse i ciuffi scuri e il colletto del cappotto dell’uomo. «Ci rivedremo, capirai chi sono e allora sarà tutto diverso.» La sua espressione era calma ma qualcosa nel suo tono presagiva nulla di buono. La sagoma scomparve prima che lei potesse domandare altro, rimanendo costretta a poter solo riflettere su quelle parole e sul loro significato enigmatico.
«Va tutto okay?» Una voce la distrasse, attirando la sua attenzione. Si voltò alla sua sinistra, e il cuore le si arrestò per un istante.
«S- sì, i- io credo di sì» balbettò avvertendo un calore alle guance e sperando che il ragazzo di fronte a lei non se ne accorgesse.
«Sto andando ad Elysion, sai, il negozio di giocattoli, vieni con me?» E quel tono pacato, quell’espressione rassicurante donata dalle iridi castane in cui poteva rispecchiare le proprie, per un attimo riuscì a distrarla dall’uomo misterioso. Annuì soltanto, continuando a fissare i folti capelli argentei simili a una soffice nuvola. Gli camminò di fianco, mentre davanti a loro comparve l’ingresso del regno dei sogni per tutti i bambini della Grande Mela.
«Non sei grande per i giocattoli?» osò domandare, anche se le parve una domanda sciocca nel momento in cui il calore di quel luogo incantato l’avvolse e la vista dei morbidi peluche attirò la sua attenzione.
Una risata.«Beh, in realtà questo posto è mio, mio padre è il proprietario,» spiegò il giovane, richiudendo la porta alle loro spalle, accompagnato dal suono di una campanella che annunciava il loro ingresso. «Io lo custodisco quando lui non c’è.»
«Wow…» esclamò lei a tale affermazione. «Io adoro questo posto!» mentre i suoi occhi iniziarono a illuminarsi davanti a tutti quei colori accesi, a quei suoni e ai volti dei bambini soddisfatti che sceglievano i loro doni.
«Lo so, Usa. Lo so,» le sorrise con dolcezza avviandosi dietro al bancone. Lei rimase ferma davanti all’entrata, aggrottando la fronte e assumendo un’espressione di pura incredulità.
«Sai il mio nome? Come fai a saperlo?» Era certa di non aver mai visto quel ragazzo prima, neanche in un sogno meraviglioso.
Le rispose con un sorriso, di chi sa e crede che tutto sia scontato, prima di iniziare a incartare uno scatolo con una carta dorata lucida.
«Rispondi, come fai a sapere il mio nome? Mi conosci?» sembrò più un ordine che una domanda.
«Non ancora» le fu detto, mentre il castano delle sue iridi si nutriva tramite quello degli occhi di lui e un calore le nasceva dentro.
«Come ti chiami?» sarebbe impazzita se nessuno le avesse spiegato come facevano tutti a conoscerla dato che lei non conosceva loro.
Il ragazzo posizionò una coccarda rossa sul pacco dorato, poi le si avvicinò e sorridendo le prese una mano baciandole il dorso. «Un giorno lo scoprirai, Usa. Un giorno…»
 
Il tocco delicato e inconfondibile di Bunny sulla propria fronte la destò, riportandola in quella stanza sterile dalle pareti bianche. Eppure lo sguardo amorevole e gli occhi grandi ed eloquenti di quel custode di Elysion era ancora vivido nella sua mente. Una lacrima scese istintiva, finendole tra le labbra.
«Hai quasi finito,» le comunicò la ragazza, facendo cenno col capo verso la sacca ormai appiattita.
Se ne accorse pure lei, annuendo e passando il polso sugli occhi. Un bacio le fu donato sulla guancia. «Va tutto bene, piccolina.» Parole piene d’affetto e di conforto.«Hai dormito parecchio,» cercò di rilassarla, vedendola confusa.
«Ho fatto un sogno strano» spiegò, ancora incredula. Era stato tutto così incredibilmente realistico che quel risveglio le apparve assurdo. Lei era grande, bella, con morbidi capelli e quelle forme tanto desiderate ogni volta che guardava la sorella. Lei era libera, viva, sana, e la City la stava attendendo per donarle tutta la magia che sono i newyorkers erano in grado di cogliere. Realizzò che non aveva mai fatto un sogno così particolare, se non premonitore di qualcosa di inspiegabile. Guardò il tubo che permetteva al liquido di scorrerle dentro, e ipotizzò che forse era solo dovuto a un desiderio espresso con troppa intensità ad averle fatto vedere in quel mondo onirico il suo donatore. Però era una congettura assurda. Suo padre era morto e tante cose del sogno non avevano un senso. Le piacque convincersi che le premonizioni fossero una capacità del donatore, che tramite il trapianto erano state ricevute da lei. Sarebbe stata una spiegazione davvero stupenda, piena di speranza.
Forse non avrebbe mai conosciuto colui che era appena entrato dentro di sé, rigenerandola di nuova e sana ninfa vitale, permettendola di rinascere in quel corpo che sarebbe rimasto lo stesso ma si sarebbe fortificato, irrobustito e avrebbe assunto tutte le energie di cui aveva bisogno. Forse non avrebbe mai conosciuto quel custode di Elysion, probabilmente era un personaggio della sua mente a cui un giorno sarebbe riuscita a dare una spiegazione plausibile.
Scrollò la testa, cercando di svuotarla da tutti quei dubbi. Guardò Bunny, i suoi occhi blu avevano una luce diversa, il suo volto era disteso in un’espressione serena. Era da tanto che Bunny non aveva quella luce in viso. Considerò che non fosse il caso di parlarle di ciò che aveva visto in quel mondo surreale. Forse era stato un sogno, solo un semplice sogno, e la realtà che le si prospettava davanti, fuori da quel luogo colmo di agonie, sarebbe stata diversa: lei sarebbe guarita, si sarebbe immersa nel caos della City, avrebbe conosciuto amiche con cui parlare dei suoi primi appuntamenti, un ragazzo che le avrebbe rubato il cuore facendole provare emozioni mai avvertite prima, avrebbe cercato di entrare a far parte delle cheerleader della scuola e magari sarebbe diventata sul serio una brava scrittrice. Era ciò che rispondeva ogniqualvolta le chiedevano cosa avrebbe voluto fare da grande. Era ancora piccola, però la vita che le si prospettava davanti aveva un odore buono, un aspetto luminoso. Bunny le sarebbe stata sempre accanto, a confortarla nei momenti bui, ad asciugare le lacrime che avrebbe versato, ad attutire il senso di vuoto che inevitabilmente le avrebbe dato la sensazione di annegare. La Rinascita era appena iniziata e, già dal principio, aveva tutto il sapore della Felicità.
 

 

Fine

 


Il punto dell'autrice

Era da tanto che non pubblicavo qualcosa in questo fandom, chiedo perdono per la mia assenza.
Da un po' che riflettevo sul fatto di dare più spazio ai personaggi di Moonlight che talvolta sono stati messi da parte per via del punto di vista di Marzio. Usa era un personaggio tra questi e mi piaceva mostrare alcuni aspetti in alcuni momenti in cui Marzio non è presente. Chiedo scusa se nel testo troverete delle parti riguardanti il trapianto di midollo con delle scorrettezze; non è un'esperienza che ho provato in prima persona e mi sono documentata su questo sito, anche se non tutto è specificato nei dettagli. Spero di riprendere Moonlight e terminare l'ultimo capitolo presto, ho già in mente come strutturarlo ma il poco tempo e l'ispirazione per altre shot o altre mie long-fic spesso mi tengono lontana dal mettere la parola fine a questa mia prima long AU.
Si sa, come in tutte le cose, più si tiene a fare bella figura e più magari si finisce per deludere le aspettative; io spero che questa shot sia potuta piacere e che non abbia deluso ma che soprattutto abbia ripagato l'attesa di coloro che volevano continuare a leggere qualcosa appartenente alla serie Moonlight. Spero di ricevere un vostro parere con le vostre opinioni positive o negative. Ne approfitto per augurarvi un Felice Anno Nuovo, sperando che l'arrivo del 2012 possa donare a tutti voi gioià, serenità e la realizzazione di tutti i vostri desideri.

Un bacione e a prestissimo!
Demy

 

 
 
 

 

   
 
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