Anime & Manga > Naruto
Segui la storia  |       
Autore: GreedFan    31/12/2011    3 recensioni
Il virus Idra non è una semplice malattia.
E' un vero e proprio incubo.
L'infezione dilaga nell'isola di Manhattan, trasformando i contagiati in aberrazioni assetate di sangue, e, mentre le autorità sanitarie di tutto il mondo si arrovellano per trovare una soluzione, una sola figura si erge al di sopra di tanta degradazione.
Zeus.
Un infetto più potente degli altri o un semplice scherzo della natura? La società "Eden" non può di certo immaginare quali saranno le conseguenze del suo gesto, quando tenterà di creare un'arma biologica in grado di contrastarlo.
E Sasuke Uchiha, l'arma biologica in questione, non ha la minima idea dell'incubo in cui si sta gettando.
Genere: Horror, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

028 – Break the Ice



Il convoglio entrò nella base.

Quattro autocarri in fila indiana, protetti da un paio di jeep e soldati appiedati e muniti di lanciarazzi, oltrepassarono il portone - spalancato, con cautela, solo dopo che l'area fu ritenuta sicura. Una volta dentro, furono parcheggiati perpendicolarmente al muro di sbarramento, nel cortile antistante il fortino.

Ne scesero le reclute fresche, ragazzi giovani, di massimo vent'anni - dacché erano entrati a Manhattan, niente più che carne da macello in quella lunga ed estenuante guerra contro gli infetti. Tra loro, persino qualche europeo: anche i Paesi d'oltreoceano cominciavano a capire quanto l'infezione di New York potesse rivelarsi pericolosa, alla lunga, per l'umanità intera.

Si disposero in due file ordinate, pronti per la rivista.

In fondo, a destra, se ne stava, piuttosto discosto dagli altri, stranamente basso ed esile, un ragazzo giovanissimo con due grandi occhi azzurri e la pelle leggermente scura. I capelli, disordinati - ed era strano per un soldato, visto che passavano dal barbiere d'ordinanza prima di ricevere la divisa - sfuggivano di sotto all'elmetto come ciuffi di paglia bionda. Tremava vistosamente.

Un ufficiale decorato uscì dalla base; dietro di lui, due Blackwatch che trasportavano una sorta di cubo di metallo, non più grande di uno scatolone, con strane aperture su tutti e quattro i lati.

Ad un cenno dell'ufficiale, i soldati in nero schiacciarono un bottone, e dalle aperture - valvole a pressione, in realtà - fuoriuscirono quattro getti perfettamente simmetrici di Bloodtox rossiccio, che si disperse in fretta nell'aria circostante e diffuse un odore penetrante di carne in decomposizione.

Era, quella, l'ultima misura di sicurezza escogitata dai Blackwatch per avere il completo controllo della situazione nelle basi militari: non pochi erano i soldati che, contagiati dall'Idra, continuavano a lavorare nonostante il malessere - per paura di essere giustiziati se avessero rivelato di essere malati - e finivano per diventare armi rivolte contro lo stesso esercito, e nuovi focolai di infezione.

Tuttavia, in quel primo giorno di prova, il nuovo Esame Bloodtox portò risultati insperatamente migliori dell'eliminazione di qualche recluta infetta.

Il soldato biondo, ultimo posto della seconda fila a destra, inspirò a fondo il Bloodtox e impallidì.

I suoi occhi si fecero grandi, sgranati, e cadde a terra reggendosi lo stomaco con entrambe le mani; emise un singulto aspro e stridulo, prima che il braccio sinistro esplodesse in una selva di viticci neri che si aggrovigliavano e ricompattavano fino a definire la forma di un'enorme lama curva.

Immediatamente fu circondato.

Gli puntarono addosso i fucili, disponendosi circolarmente attorno al suo corpo che, a terra, si contorceva debolmente. Quando cadde definitivamente, la pelle annerita e il viso a contatto con l'asfalto, il petto che si gonfiava debolmente a ritmo di un respiro sforzato, l'ufficiale, un sorriso estatico sul viso, diede l'ordine di chiamare il quartiere generale della Gentek.

«Abbiamo catturato Zeus». Annunciò.

La base si riempì di grida d'esultanza.



***



Il dottor Kabuto Yakushi stentò a credere alle proprie orecchie.

Ascoltò la telefonata del sergente Ross con la bocca spalancata, incapace di prestare fede a tanta, inaspettata fortuna. Quando riattaccò aveva le mani sudate, la gola secca, e una sensazione di eccitazione crescente che gli faceva formicolare tutto il corpo e stringeva lo stomaco come una morsa.

L'avevano preso.

Finalmente.

Finalmente, ciò che era suo di diritto era tornato a casa.

Se lo ricordava ancora, Zeus, un bambinetto di otto anni chiuso in una sala bianca dalle pareti imbottite, elettrodi conficcati nel corpo sottile, nudo, quando lui era appena entrato nella sezione top secret dei laboratori. Soprattutto, gli tornarono alla mente quei suoi occhi infantili, immensi e vuoti, di un blu delle sfumature più cupe delle profondità marine - così simili a quelli della Madre - fissarlo al di là dello spesso vetro di contenimento, pregni di una forza e di un furore che erano tutto, tranne che umani.

Quella piccola creatura dal corpo efebico che l'aveva stregato, ammaliato, legato a sé con l'incanto dei suoi occhi, ora era di nuovo sua. Quante volte aveva sognato Zeus, il suo potere, la sua perfezione divina, rigirandosi nel suo letto, incapace di dormire perché ossessionato dal viso del bambino che bambino non era anche nei sogni? Incapace di carpire quel segreto, incapace di cogliere quel frutto o scacciare il tarlo che gli rodeva il cervello, Kabuto Yakushi non aveva fatto altro, per quasi cinque anni, che desiderare il Prototype con ogni singola fibra del proprio essere, corpo e anima. Non per la carne - o, almeno, non principalmente per quella - ma per l'enigma profondissimo e insondabile che vedeva crescere giorno dopo giorno in quelle iridi cerulee, una domanda terribile e meravigliosa che, sentiva, avrebbe spalancato a lui, solo a lui, le porte della conoscenza eterna, delle nozioni più elementari che governavano l'Universo. La vita e la morte in quegli occhi, il paradosso più affascinante che la specie umana avesse mai scoperto.

L'esistenza stessa del Prototype e gli immensi poteri che celava non facevano che galvanizzarlo, trascinarlo inesorabilmente verso l'abisso della follia.

Eppure, era riuscito in qualche modo a resistere.

Col passare del tempo aveva capito che Zeus si trovava ad un livello troppo alto perché potesse averlo per sé e studiarlo come avrebbe voluto. Aveva cercato, prima con Sasuke Uchiha e poi con Sabaku No Gaara, di creare dei surrogati che potessero valere quanto l'essere originale.

Il fallimento era stato arduo da sopportare.

Più di tutto, però la fuga di Zeus lo aveva colpito.

Era stato uno choc tremendo sapere che era scappato - lui, che da anni si poneva nella sua vita come uno scopo da raggiungere, come l'unica ragione per migliorare sempre di più le proprie competenze - e che l'aveva abbandonato così, alla ricerca di una libertà che non avrebbe mai trovato. Perché, Kabuto ne era sicuro, il Prototype non sarebbe mai stato libero fino in fondo.

Era un'arma nata in laboratorio per il solo scopo di adempiere le volontà di qualcun altro.

Che poi si fosse ribellato, quello era un dettaglio ininfluente, tanto sciocco da farlo sorridere. Sapeva che prima o poi sarebbe tornato.

E infatti, quel giorno era finalmente giunto.

Indosso il camice di corsa, distrattamente, e percorse di volata i piani che lo separavano dal laboratorio in cui lui era stato portato. Finalmente aveva l'autorità bastante per esaminarlo, per investigare a fondo i segreti di quell'essere meraviglioso... e non si sarebbe fatto sfuggire quell'occasione per nulla al mondo.

Le procedure di decontaminazione lo tediarono più del solito mentre si allargava il colletto della camicia, accaldato. Indossò la mascherina chirurgica e, percorso un corridoio - sorprendentemente sgombro, non sorvegliato dai Blackwatch - passò una carta magnetica nella guida di acciaio accanto ad una porta ed entrò nel laboratorio.

La porta si richiuse alle sue spalle con un fruscio prima che potesse realizzare ciò che gli stava davanti.

La parete di fronte era stranamente nera.

Batté le palpebre un paio di volte, paralizzato, mentre l'immagine raccapricciante di un Blackwatch inchiodato al muro si materializzava davanti ai suoi occhi. Pareva crocifisso, a bloccargli le braccia e le gambe pezzi appuntiti di metallo nero che somigliavano terribilmente a canne di fucili; la testa, inerme, penzolava sul petto insanguinato. Ai suoi piedi, un cumulo di cadaveri ridotti nello stesso modo.

Alzò appena lo sguardo, Kabuto, e lesse, sopra la testa del soldato, una scritta tracciata con quello che pareva - e che doveva sicuramente essere - sangue umano.

"Sorpresa!"

Sentì un tuffo al cuore. Giusto il tempo di capire cosa poteva essere successo, che si sentì afferrare per la nuca da una mano forte e violenta e gettare avanti con una potenza inaudita. Sbatté contro la parete, mugolò, affondò le mani tra i corpi dei Blackwatch, il loro sangue ad insozzargli la pelle, a scorrergli sotto la pelle.

Girò appena la testa, terrorizzato.

E le profondità plumbee dei suoi sogni, stavolta chiazzate di rosso scarlatto, ad accoglierlo.

«Z-Zeus...» gli mancò il fiato. Sentì la gola stringersi per le lacrime, mentre vedeva il sogno di tutta una vita sfumare nel nulla. Eppure, fino a pochi secondi prima aveva creduto possibile il ritorno del Prototype... perché le sue aspirazioni erano destinate ad essere disilluse in un modo così crudele?

«Sei Kabuto Yakushi?»

Annuì, rimangiandosi un singhiozzo. Sembrava così bello, il Prototype, così cresciuto, inesorabile e forte di tutto il suo potere. Un Dio vendicatore nel pieno della sua potenza, non già il bambino acerbo che lo aveva ossessionato.

Eppure, nei suoi occhi vide qualcosa che lo confuse. Benché colmi di rabbia, erano straordinariamente limpidi e sicuri, vivi, diametralmente opposti rispetti ai baratri vorticosi che ricordava di aver osservato negli anni precedenti. Era come trovarsi davanti un'altra persona, eppure covava nel cuore la certezza che si trattasse proprio di Zeus.

«Sì...» Si appoggiò con la schiena al muro. Il bagliore delle lampade al neon sulla canna di un fucile, abbandonato accanto a lui, lo distrasse per un attimo.

«Immagino tu sappia chi sono». Il braccio sinistro di Zeus mutò, sfrigolando e accartocciandosi e poi ricomponendosi nella lama circondata da sottilissimi tentacoli che per tanto tempo Kabuto aveva osservato, nei dossier e dietro i vetri blindati dei laboratori. Era l'arma finale, la più potente.

Era lì per ucciderlo.

«Cosa vuoi da me?»

«Devo farti alcune domande».

«Riguardo ad Hope?»

Stranamente, quel nome non suscitò nel Prototype nessuna espressione dubbiosa. Si limitò ad annuire, facendo un passo nella sua direzione, e Kabuto poté vedere come il suo viso, nonostante gli occhi ormai completamente rossi, fosse disteso in un'espressione di ineluttabilità dolente, quasi compassionevole.

Provava pena per lui? Lo faceva sentire quasi fortunato.

«Voglio sapere perché fu fatto quell'esperimento. Voglio sapere chi sono io, e chi è Elizabeth Greene».

«Hope...» ridacchiò, trovando improvvisamente divertente la comparsa di quel fantasma dal suo passato. Aveva lavorato sul virus diffuso ad Hope, sul Redlight, benché ignaro dell'enorme potenziale nell'arma distruttiva che aveva creato.

Sapeva, oh se sapeva.

«Parla». Gli intimò, quasi ringhiando, avvicinando la lama al suo petto. Eppure, lui l'aveva visto nascere - sempre che così si potesse dire.

Una mancanza di rispetto indecorosa.

«Hope fu costruita solo ed unicamente per uno scopo... ovverosia, la creazione di un arma biologica particolare...» inspirò, ricordando, minuto dopo minuto, tutte le atrocità che l'esercito aveva commesso appena diciassette anni prima. Eppure, gli pareva quasi di averle dimenticate, quasi riemergessero da una nebbia fitta di secoli.

«Sarebbe?»

«Volevano... volevano che sviluppassimo un virus mortale solo...» si interruppe. Un singhiozzo strozzato, chissà perché, affiorò sulle sue labbra.

«... solo per determinati gruppi etnici».

Sentì che il Prototype era ammutolito, e alzò lo sguardo verso di lui. Lo fissava con un'espressione attonita, evidentemente troppo sorpreso per replicare.

Una frazione di secondo dopo, si sentì sbattere rudemente contro il muro, il corpo del Blackwatch sotto di lui.

Gli occhi di Zeus, rossi come braci, a pochi centimetri dal suo viso.

«Dimmi che è uno scherzo». Aveva il viso contratto, arrossato dalla furia «Non posso credere che al mondo esistano dei figli di puttana capaci di fare una cosa del genere».

«Non... noi...» mugolò, cercando di scostare la mano che gli si era stretta attorno al collo. Il Prototype allentò leggermente la presa, consentendogli di parlare.

«Non sono gli scienziati a scegliere quali progetti portare avanti, è l'esercito a ordinarcelo. Fu il Presidente ad accettare e a autorizzare il progetto Hope».

L'espressione di Zeus si vece quasi sofferente. Non riusciva forse a credere che ci fossero persone in grado di predisporre simili mostruosità?

«A chi era destinato questo virus Redlight?»

«Etnie orientali. A quanto pare l'America voleva assicurarsi di poter reggere il confronto con le grandi economie dell'Est, in futuro. E forse è proprio per quello che Kushina...»

«... è diventata l'ospite ideale del virus. Lo so».

«Oh, lei era perfetta. Non aveva nessun difetto: miopia, complicazioni genetiche latenti, predisposizioni a malattie di alcun tipo...» ridacchiò «... nemmeno un dannato ginocchio valgo o un po' di scoliosi. Perfetta».

«Era da sola?»

«No. Con lei c'era il suo fidanzatino, un certo Minato Namikaze. Si erano appena sposati, a quel che so, e tu... tu gli somigli molto. Era già incinta, quando arrivò».

«Sasuke? Sasuke come...»

«Sasuke era il figlio dei loro vicini di casa... nacque qualche mese prima del massacro. Con lui sopravvisse anche suo fratello Itachi... lo sapevi, questo?»

«Sì». La presa si fece più delicata, fino a sciogliersi del tutto. Kabuto scivolò nuovamente a terra.

«Dopo cosa accadde? Né io né lui ricordiamo nulla del periodo successivo... e poi, il bambino di Kushina morì, a quanto dicono i rapporti. Perché io sono vivo?»

«Dopo l'incendio di Hope vi portarono qui... siete stati al sicuro in questo posto per anni, al centro di una delle metropoli più popolate del mondo, senza mai fare nulla di pericoloso. Credo che Sasuke abbia dimenticato tutto grazie a qualche operazione di Madara... quell'uomo conosce bene la mente umana, e sa come far sì che le memorie più terribili vengano sepolte da qualche parte e non tornino mai più in superficie. Kushina, dopo che il cadavere del bambino fu estratto dal suo corpo, fu indotta da noi in uno stato comatoso per evitare che succedesse quello che è successo... il piccolo era indubbiamente morto, e l'Idra non riporta in vita i cadaveri».

«Allora com'è possibile che...»

«Oh, Zeus...» Kabuto ghignò «... io questo lo so, ma non crederai mica che abbia intenzione di dirtelo...»

Fulmineo, più di quanto si sarebbe aspettato di poter essere, il medico si gettò sul fucile che aveva già notato, e senza esitazione alcuna se lo puntò alla gola, la canna verso l'alto. Premé il grilletto, e tutto quello che Zeus vide fu un'esplosione rossiccia e una colonna di vapore e gocce scarlatte elevarsi al di sopra di quella che una volta era la testa del medico, in quel momento più simile ad un grosso fiore accartocciato.

Sul momento, Naruto si sentì quasi triste di fronte a quello scempio, insoddisfatto per non aver potuto uccidere Kabuto Yakushi con le proprie mani. Poi avvertì una sensazione familiare al centro del petto, e nella gola.

Infine, semplicemente, si appoggiò alla parete lorda di sangue e scoppiò a piangere.

Sentiva una pena incommensurabilmente grande per tutti coloro che, a causa della pazzia umana, avevano dovuto soffrire atrocemente e morire. Sua madre, Sasuke, Deidara e ora anche quello scienziato, non erano altro che strumenti di un destino troppo crudele, famelico.

Se le cose fossero andate diversamente, nessuno di loro sarebbe morto.

Inspirò nel tentativo di calmarsi. Asciugò le lacrime con il dorso della mano, poi si voltò verso la porta del laboratorio. Doveva sbrigarsi, andarsene prima che tutta la Gentek gli piombasse addosso - e non ci sarebbe voluto molto, prima che si accorgessero del disastro che aveva combinato.

"Gli altri avranno già fatto la loro parte." Pensò, sfondando con un pugno la porta del laboratorio.

Immediatamente il suono squillante di un allarme riempì l'aria.

«Ok, ora sono veramente nei casini».



***



Sasori osservò con una certa sfiducia la mole del Gentek Palace.

Nel cortile c'era un viavai continuo di autocarri e mezzi blindati di ogni tipo, elicotteri militari solcavano il cielo di Manhattan per poi posarsi con grazia singolare sul tetto dell'edificio.

La divisa da Blackwatch gli stava larga, era calda e asfissiante. La maschera antigas che gli copriva occhi e viso non faceva che limitare il suo campo visivo, ma era - purtroppo - necessaria: grazie a quella, tutti avrebbero preso per buona la tessera di riconoscimento che portava appesa al collo (sottratta ad un vero Blackwatch mezz'ora prima quando l'aveva ucciso). Usando quelle, né lui né i suoi compagni correvano alcun pericolo.

Oltre a quello che potevano procurarsi autonomamente, aggiunse, quando, voltato un attimo lo sguardo per controllare la situazione, vide Hidan e Kakuzu intenti a bisticciare su un non meglio definito dettaglio della missione. Li chetò con un gesto imperioso del braccio, trattenendosi dal motteggiarli per l'effetto vagamente inquietante che quelle due divise nere facevano su dei colossi come loro. Kisame, invece, ridacchiò apertamente, per quanto la sua voce risultasse attutita dalla barriera della maschera.

Pain e Konan erano rimasti alla base, a sorvegliare la new entry.

Zetsu, molto probabilmente, era già dentro. Per lui non doveva essere un problema.

«Andiamo».

Si mossero compatti verso l’entrata. Un custode, all’ingresso della barricata, controllava uno ad uno tutti i cartellini che venivano esibiti; accanto a lui, uno dei diffusori di Bloodtox, in funzione fino a pochi minuti prima, giaceva spento nella polvere: dopo quella che ritenevano la cattura di Zeus, i militari sentivano di non avere più nulla da cui guardarsi, né avevano voglia di restare troppo tempo con quell’orribile odore di carne marcia nelle narici.

Passarono i controlli senza nessun problema.

Una volta arrivati davanti all’entrata vera e propria dell’edificio, un’immensa schiera di porte girevoli da cui entrava e usciva una fiumana di militari, Sasori si bloccò. Guardò nuovamente i compagni, poi sospirò: ce l’avrebbe fatta, una simile accozzaglia di idioti, a completare una missione tanto delicata? Scommetteva che l’umano con i capelli castani stava già ridendo alle sue spalle.

«Avete con voi le planimetrie?»

Seguirono numerosi versi di assenso e colpetti strategici sulle tasche in cui i foglietti stampati erano stati messi.

«Le avete per caso studiate?»

Seguì un silenzio imbarazzato. Molto imbarazzato.

«Imbecilli. Non speravo in una risposta affermativa, comunque».

«Che vuoi che sia...» proruppe Hidan, con il suo solito tono da esaltato «... tutti sono capaci a leggere una cartina».

«Di leggere una cartina. E non sono sicuro che attribuirvi le normali competenze di un bambino umano di dodici anni sia una mossa poi così saggia. Comunque, avete mezz’ora di tempo per portare a termine la missione. Al termine, ognuno tornerà singolarmente alla base... a meno che non capiti di incontrarsi, è chiaro. Evitate di sollevare troppa agitazione».

«Non credo che reagiranno bene».

«Non ha importanza. A quest’ora Zeus dovrebbe aver finito, e Zetsu sarà pronto per l’attacco».

Varcarono le soglie del palazzo non senza un certo timore, dovuto principalmente alla gran quantità di umani armati che li circondavano.

Avevano fatto pochi passi nell’atrio, che un allarme risuonò per tutta la stanza. Probabilmente, considerò Sasori, per tutto il palazzo.

Immediatamente, i Blackwatch cominciarono a convergere verso una delle tante porte che immettevano nell’atrio, mentre una voce metallica, dagli altoparlanti, diceva: “Emergenza al livello quattordici, le unità BlackWatch devono recarsi immediatamente sul posto...”

«Zeus è sempre il solito. Combina solo cazzate».

«Per una volta, Hidan ha ragione».

Vedere Kakuzu che dava ragione ad Hidan era già di per sé un evento più unico che raro, ma lo fu ancora di più udire le grida spaventate dei perennemente impassibili Blackwatch quando, con un rombo ed un rumore fragoroso di vetri infranti, una pioggia di proiettili si abbatté sulle porte dell’atrio, mandandole in frantumi.

«Invece Zetsu è sempre al posto giusto al momento giusto, neh?»

L’infetto, in quel momento, sospeso una ventina di metri sopra la strada, era intento ad utilizzare – con sommo piacere e divertimento – tutto l’arsenale bellico di cui l’elicottero che aveva rubato poc’anzi disponeva, a scapito però della facciata del Gentek Palace. Inutile dire che se la rideva come pochi, aspettando che arrivasse il soccorso aereo per dimostrare anche ai piloti umani le sue superiori capacità da infetto.

«Il piano prosegue come stabilito. Abbiamo solo meno tempo, ma ci sarà più facile muoverci indisturbati se tutta l’attenzione è focalizzata su Zeus».

«E con lui come la mettiamo? Se dovessero fargli qualcosa?»

«Non ho mai incontrato un tipo più indistruttibile di lui. Ha superato situazioni peggiori. Ora separiamoci».

«Quanto tempo abbiamo?»

«Un quarto d’ora. Cercate di metterci di meno».



***



«Capo... le dico che secondo me sta dimagrendo troppo».

«Grazie, Rock Lee, ma sto bene».

«Vuole una mela?»

«No».

«Vuoi una mela?» Quella nuova offerta, coadiuvata dall’uso del “tu” e da un’espressione che chiunque avrebbe definito “inquietante” (i sorrisi di Rock Lee lo erano tutti, o quasi), fece capitolare Tenten. Accettò il frutto – già miracolosamente sbucciato – e gli diede un morso.

Nonostante il pessimo cibo dell’ospedale militare, che dava solo l’illusione di un apporto vitaminico e/o proteico, non aveva fame. Si sentiva bene, forte e pronta a rialzarsi; i medici imputavano quella strana condizione allo stesso fattore che aveva causato la cicatrizzazione precoce delle sue ferite, e la donna, al solo pensiero di quale altra mutazione poteva essersi prodotta all’interno dell’organismo, tremava.

Eppure, Zeus le aveva salvato la vita.

Quel pensiero aveva finito per toglierle il sonno.

Le occhiaie incavate nel viso roseo e sano, nota stonata in un quadro complessivo eccellente, lasciava che Rock Lee le rimanesse accanto, ma non aveva il coraggio di condividere con lui le domande che le affollavano la mente.

Forse, se al suo posto ci fosse stato Kiba...

Scosse la testa. Kiba era stato dato per morto già da tempo. Aveva pianto, quando glie l’avevano detto, più per lui che per lo schiaffo morale subito dall’esercito – dopotutto, era andata persa una delle squadre più temibili e importanti che i Marines avessero mai posseduto. Non le importava.

«Rock Lee... tu hai mai perso qualcuno di importante?»

L’infermeria vuota le metteva addosso un senso di tristezza; il compagno, seduto presso la finestra, guardava fuori con aria tranquilla.

«Io? Be’, sono stato sul punto di...»

Non riuscì a completare la frase: la sua voce, benché piuttosto alta, fu coperta dal suono squillante dell’allarme generale, quello che veniva azionato solo nel caso l’intero edificio fosse in serio pericolo. Tenten si tirò in piedi con uno scatto (da tempo, ormai, non usava più la flebo, e veniva tenuta a riposo soltanto per fare ulteriori accertamenti sulle sue strane capacità di guarigione), e si avvicinò alla finestra.

«Ma che succede?»

«Non ne ho idea, cap... ehi! Guarda quell’elicottero!»

Un mezzo corazzato e incredibilmente grosso, un Kamov da combattimento ultimo modello, comparve improvvisamente da dietro un angolo de Gentek Palace e si portò di fronte alla facciata.

Inclinatosi verso il suolo, azionò le mitragliatrici che svettavano ai lato della cabina di pilotaggio.

Tenten fece appena in tempo a coprirsi le orecchie che un frastuono assordante fece vibrare l’aria, mentre i proiettili, sparati da enormi tamburi rotanti che sputavano una cascata di bossoli, si infrangevano contro i piani inferiori dell’edificio e polverizzavano tutto ciò che colpivano.

Fortunatamente, l’infermeria in cui si trovavano – quella, cioè, destinata ai malati non gravi – era abbastanza in alto.

«Ho come la sensazione che faremmo meglio ad andarcene di qui, capo».

«Sai, Rock Lee, lo penso anche io. Fammi prendere le medicine...» Tenten si avvicinò al tavolo accanto al proprio letto, sul quale stavano vari flaconi di antidolorifici e dei sonniferi. Li usava per combattere il dolore delle ferite (che ancora, qualche volta, la facevano penare) e la sua fastidiosa insonnia. Rovesciò tutte le bottigliette in una bustina, poi si affaccendò ancora qualche minuto a recuperare i propri effetti personali di prima necessità (il telefono cellulare, la pistola d’ordinanza, il distintivo) ammucchiati in una sacca che Rock Lee aveva avuto la compiacenza di portarle sotto il letto.

Nel corridoio si sentirono delle urla, immediatamente soffocate.

Si bloccò.

«Che cos’era quello?»

«Non lo so capo. Sbrighiamoci».

Fece un passo verso la porta, il braccio proteso.

Quella si spalancò senza che ci fosse bisogno di spingere la maniglia, spinta da un calcio poderoso proveniente dall’esterno.

Sulla soglia comparve un uomo alto e imponente, con indosso una tuta da Blackwatch. Portava la maschera antigas slacciata, ciondolante sul petto; i particolari che Tenten riuscì a registrare della sua figura, prima che irrompesse nella stanza, furono due: il viso, bello e regolare, in cui brillavano degli occhi assurdamente viola, e il braccio destro, più simile ad una grottesca falce di osso bianco che spuntava direttamente dalla carne. Appesi alla lama insanguinata c’erano ancora dei frammenti di tessuto nero, proveniente dalla tuta, segno che quella cosa era uscita dall'interno.

Tenten rabbrividì.

«Salve,» esclamò lo sconosciuto, seguito da un compare ugualmente vestito «siamo quelli della pizza che avete ordinato. E adesso muovete il culo e seguiteci, da bravi».



Il virus poteva tutto, tranne che resuscitare i morti”.





















_Angolo del Fancazzismo_

Ok, parliamone. Parliamo del fatto che questo capitolo arriva con circa –ahem – cinque giorni di stacco dal precedente, dopo un intervallo di mesi. Parliamo del fatto che fa abbastanza schifìo e che Kabuto pare pedobear.

Parliamo del fatto che il Classico mi toglie ogni ispirazione, neh. Che non so spiegarmi questo boom letterario in nessun altro modo.

Tuttavia, poiché (adoro questa congiunzione) vi voglio bene, vi avviso che ho pronti atri due capitoli che dovrebbero essere entrambi pubblicati entro e non oltre l’8 gennaio. No, non infartate: sono seria.

Uno dei quali è anche abbastanza... estremo, per così dire.

Ma parliamo di quest’aggiornamento di fine anno!

Innanzitutto, Buon Anno!

Vi voglio ringraziare per il fatto che mi seguite da così tanto tempo nonostante la mia mancanza di serietà... siete il mio pane, davvero. Senza di voi non riuscirei a scrivere, e Prototype si sarebbe fermata parecchi capitoli fa. Mi rendete felice con i vostri commenti, non importa se lunghi o corti, e – anche se vi potrà sembrare strano, detto da una che nemmeno conoscete – io vi voglio bene J.

Auguro a tutti un 2011 pieno di soddisfazioni.

See you soon(issimamente),

Roby


   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Naruto / Vai alla pagina dell'autore: GreedFan