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Autore: Hi Ban    31/12/2011    1 recensioni
«Ehi, Itachi-chan! Certo che tu adori proprio complicarti la vita» esordì con un sorriso mesto, prima di spostare lo sguardo dal fiume che scorreva sotto di lui, per portarlo intorno a sé.
Quel ragazzo non sarebbe mai cambiato, quello era certo. Non ottenne risposta, ma chiaramente non se ne aspettava una da quando aveva iniziato a parlare e, sinceramente, non sapeva nemmeno lui quando aveva detto la prima parola.
Probabilmente la prima cosa che aveva fatto era stata ridere, poi era seguito il resto.
Era stato per un bel po’ a ricambiare lo sguardo del suo riflesso nell’acqua del Naka, ma non gli interessava quantificare il tempo.
Lì seduto, con le gambe penzoloni giù dal piccolo molo su cui si trovava, le mani sotto le ginocchia, lui parlava, rideva e probabilmente aveva anche pianto, ma non aveva atteso che nessun altro suono oltre ai suoi singhiozzi e alle sue risate riempisse la calma intorno a lui.

Gli altri personaggi indicati sono Fugaku e Mikoto.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Shisui Uchiha
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima dell'inizio
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«Ehi, Itachi-chan! Certo che tu adori proprio complicarti la vita» esordì con un mesto sorriso, prima di spostare lo sguardo dal fiume che scorreva sotto di lui, per portarlo intorno a sé.
Quel ragazzo non sarebbe mai cambiato, quello era certo. Non ottenne risposta, ma chiaramente non se ne aspettava una da quando aveva iniziato a parlare e, sinceramente, non sapeva nemmeno lui quando aveva detto la prima parola.
Probabilmente la prima cosa che aveva fatto era stata ridere, poi era seguito il resto.
Era stato per un bel po’ a ricambiare lo sguardo del suo riflesso nell’acqua del Naka, ma non gli interessava quantificare il tempo.
Lì seduto, con le gambe penzoloni giù dal piccolo molo su cui si trovava, le mani sotto le ginocchia, lui parlava, rideva e probabilmente aveva anche pianto, ma non aveva atteso che nessun altro suono oltre ai suoi singhiozzi e alle sue risate riempisse la calma intorno a lui.
Sentiva il vento scompigliargli i capelli mossi, una cosa gradevole a cui non aveva ancora fatto caso. Portava cambiamenti, quell’aria, portava qualcuno.
Si alzò in piedi, abbandonando infine anche il molo di legno; non aveva più bisogno di starsene lì, quel che stava cercando era quasi arrivato e lui doveva dargli il benvenuto.
Stava sorridendo, adesso.
«Ci vediamo Itachi-chan! Ma poi torno, eh» disse, lasciandolo lì.
Sapeva che lui non lo stava ascoltando.
Poi Shisui li vide, tutti al limitare del piccolo boschetto lì vicino, spaesati alcuni e sorridenti altri.
Su quel molo di legno che dava sul fiume Naka aveva atteso che qualcuno arrivasse, anche se era triste doverli vedere tutti lì con lui.
Per loro il tempo era stato troppo poco, indipendentemente da quello che aveva passato lui seduto.
Gli andò incontro, una mano alzata e sventolata con affetto e quel sorriso tipicamente suo.
Ora con lui c’era qualcuno. Ma lui lo sapeva, che sarebbero arrivati, lo aveva visto.
Okaasan, Otousan, Mikoto-san, Fugaku-san… tutti.
Era bastato guardare nelle acque del Naka per vedere che sarebbero arrivati.
«Konnichiwa!»
Era bastato guardare giù.



Basta guardare giù.





La memoria è l'unico paradiso dal quale non possiamo essere scacciati.
J.P. Friedrich Richter.

Nessuno arriva in paradiso con gli occhi asciutti.
Thomas Adams.





Le mura del quartiere Uchiha risuonavano di risate, parole e schiamazzi probabilmente come mai era stato da anni a quella parte.
La gente camminava per le strade con un proprio compito, un’intenzione ben precisa, forse solo mossa dalla voglia di passeggiare; qualunque fosse il motivo, quelle vie non erano mai state così animate.
C’era calma nell’aria, l’urgenza sembrava estranea a quelle case, a quei viali, a quelle persone che portavano sulla schiena quel ventaglio bianco e rosso. Ognuno faceva sempre quello che aveva fatto, senza esitazione né ripensamenti.
Il fruttivendolo sorrideva al bambino che addentava una delle sue mele, mentre la madre gli teneva la mano. I bambini si rincorrevano sui tetti, felici e spensierati.
Alcuni shinobi sorridevano, in attesa di comandi, di istruzioni per un nuovo incarico, perché sapevano di dover comunque proteggere qualcosa. Come ninja, erano nati per difendere ed aiutare e da Uchiha era quello che avrebbero sempre fatto.
Era tutto normale, tutto logico, tutto esattamente come lo volevano loro.
Shisui non se ne stava per le strade del quartiere e la motivazione era piuttosto strana ed inusuale, detta da uno come lui. Erano troppo rumorose, troppo affollate. In quel luogo lui non riusciva a pensare bene né a concentrarsi.
Perciò ora passava un sacco di tempo su quel pontile, le gambe sempre penzoloni o incrociate, con i gomiti sulle ginocchia e le guance poggiate sui palmi. Osservava sempre quelle acque chiare, limpide e tranquille e poi parlava, mentre colui a cui si rivolgeva non lo ascoltava.
Tipico, non lo ascoltava mai quel testone!
Faceva sempre di testa sua, quell’idiota; sorrise, Shisui, mentre allungava una gamba, contemporaneamente seguita dal riflesso.
Si stava davvero bene lì.
«Ohe, Itachi-chan! Ogni tanto potresti anche darmi ascolto, eh!» ci pensò su un attimo, come se quel che aveva detto necessitasse di una rivisitazione. Infatti si corresse: «Ok, no, forse è meglio di no, ascoltarmi vorrebbe dire troppe cose!»
E scoppiò a ridere, mentre capiva solo lui quel che aveva detto.
Shisui smise gradualmente di ridere, i lineamenti si fecero pian piano più tristi. Poggiò la pianta del piede sulla superficie dell’acqua, increspandola.
«Aaah, sei sempre così serio, dovresti sorridere! Ma se lo facessi non saresti tu, ne, Itachi-chan?»
Itachi aveva lo sguardo fisso dinnanzi a sé e guardava qualcosa che Shisui non riusciva a scorgere.
Non gli avrebbe risposto mai, non sarebbe stato da lui; era così che tentava di convincersi Shisui e così fece anche quel giorno prima di alzarsi e andarsene, rivolgendogli un cenno di saluto.
Non tornò a casa sua, quel mattino, ma andò da Mikoto-san e Fugaku-san; suo padre era in giro, sua madre al mercato, sarebbe stato da solo a casa, tanto valva andare a trovare i suoi zii.
Attraversò quelle strade con le mani affondate nelle tasche e il solito sorriso sulle labbra; salutava e veniva salutato, mentre si spostava prontamente per non venire investito dai soliti ragazzini che correvano all’impazzata senza guardare avanti.
In un attimo si trovò per quel viale fiorito di ciliegi e perciò a casa degli zii, silenziosa e imponente come sempre.
Sapeva che sia Fugaku che Mikoto erano a casa, perciò non si stupì quando la zia lo accolse calorosamente e lo zio se ne stette in silenzio in soggiorno a sorseggiare la sua tazza di tè.
«Ohayou, Mikoto-san!» la salutò allegro, prima di prendere posto in cucina, una tazza fumante prontamente posta dinnanzi a lui e il solito piatto di biscotti che finiva in un secondo. Quella donna lo viziava proprio!
«Come va, Shisui-kun?» chiese la donna, mente armeggiava con le stoviglie e si teneva occupata.
Non trovava strana la visita del nipote, Mikoto, era semplicemente qualcosa di gradito che non necessitava di spiegazioni. E chiaramente nessuno ne chiedeva.
Parlarono del più e del meno, risero, poi Shisui finì i biscotti e si alzò dalla sedia.
Fugaku non si era fatto vedere per tutto il tempo e l’Uchiha quando passò davanti al soggiorno lo trovò ancora seduto lì, la tazza di tè ormai fredda.
«Fugaku-san non ha ancora…» lasciò cadere la frase nel vuoto, sapendo che Mikoto, alle sue spalle, l’aveva compresa benissimo senza che fosse completa.
Sospirò, la donna, prima di dargli una leggera pacca sulla spalla.
«No, non ancora, Shisui-kun, ma… ce la farà. Prima o poi. O non sarebbe Fugaku!» terminò con una risata che si perse tra le mura di quella casa che a Shisui non era mai parsa tanto vuota.


Shisui non era tornato al solito molo quel giorno, ma era andato a sedersi su quello che si trovava dietro la casa di Fugaku e Mikoto; aveva visto più di una volta Itachi e Sasuke allenarsi con la palla di fuoco, mentre i bagliori rossi si riflettevano nelle acque del fiume Naka.
Andava bene anche lì, era calmo esattamente come dietro casa sua. Anzi, forse lì era anche meglio. Comunque, ci era andato convinto di trovare Itachi là, invece i capelli scuri quella volta appartenevano a Sasuke.
Ah, finalmente beccava anche lui!
Si sedette – si lasciò letteralmente cadere sul legno, in verità –, uno sguardo sorridente e i capelli ribelli mossi da quel bel venticello. E attese che dicesse qualcosa, che si muovesse o altro.
Ma non fece assolutamente nulla. Teneva solo lo sguardo distaccato dinnanzi a sé, esattamente come Itachi.
«Aaaah, marmocchio, sei esattamente come tuo fratello! Sempre gentilissimi, eh!» sorrideva, Shisui, mentre diceva quelle parole con intento giocoso. Poi il sorriso scomparve dalle sue labbra, che si strinsero tanto da divenire esangui.
«Nessuno che mi ascolta oggi.»
Il vento soffiava dolcemente e le acque sembravano quasi immobili; Sasuke stringeva i pugni con una serietà che non si addiceva al bambino che in realtà era. Gli era toccato crescere in fretta, però, lo sapevano tutti e lo sapeva pure lui. Shisui vedeva chiaramente nel piccolo cugino la voglia di abbattere quei pugni su qualsiasi cosa, ma sapeva di non doverlo fare. Non era qualcosa che si addiceva ad una persona matura, sfogare la propria rabbia, la propria frustrazione, il proprio dolore.
E Sasuke non era più un bambino.
«Sei cresciuto, Itoko-chan… Io dovevo essere girato dall’altro lato quando sei diventato un grande marmocchio!» Shisui tentò di mettere in quelle parole un’allegria che però non riusciva ad imprimere per davvero. Non rimaneva attaccata ad esse, scivolava via come fosse stata acqua.
Sasuke parve ignorarlo, troppo preso dalle sue riflessioni, troppo preso da pensieri che lui non poteva condividere.
«Dewa mata, Sas’ke» e così dicendo si alzò dal molo e tornò indietro.


Il tempo passava più in fretta di quanto Shisui se ne rendesse conto; un attimo prima era mattino, poi era sera. Un secondo prima parlava ad Itachi o a Sasuke, poi era già da Mikoto-san.
Le sue giornate non avevano più un vero ritmo da un po’, fu costretto ad ammettere, ma la cosa non lo impensieriva più di tanto.
Aveva altre cose per la testa, ecco perché quella sera era andato a trovare i suoi zii.
Mikoto lo accolse in casa sua sempre con dolcezza, benché fosse ormai qualcosa di abitudinario, la sua presenza in quella casa.
Fugaku era sempre lì, seduto.
«Vuoi fare qualcosa tu?» lo anticipò Mikoto stessa, in quel momento, sulla soglia del soggiorno, mentre osservavano entrambi Fugaku.
«Vorrei provare… non sarei io se non lo facessi!»
La donna annuì, mentre il ragazzo sorrideva ed entrarono entrambi in soggiorno, mentre una gradevole brezza proveniva dalla finestra aperta.
Portava cambiamenti, portava conoscenza, quell’aria.
«Fugaku-san» disse a mo’ di saluto e lo zio alzò la testa.
«Nipote.»
Si guardarono a lungo, zio e nipote, quasi stessero cercando qualcosa l’uno nell’altro.
Shisui cercava qualcosa a cui aggrapparsi in quell’uomo che non era voluto andare avanti, mentre Fugaku cercava qualcosa che smentisse quell’assurda realtà. Perché lui ancora non ci credeva, si trovava lì, nel quartiere Uchiha, ma non sapeva perché, non capiva cosa fare, non voleva accettare.
Eppure era qualcosa che dovevano fare tutti.
«Fugaku-san… zio… tu li vedi?»
Fugaku spalancò gli occhi, non capendo. Il suo sguardo dimostrava che davvero non aveva compreso quel che il nipote aveva detto, ma la verità era che non voleva capire.
Mikoto non lo aveva forzato, aveva atteso, ma Shisui sapeva che da solo non ce l’avrebbe fatta. Era un Uchiha, orgoglioso e testardo; in più era Fugaku Uchiha. Non accettava qualcosa a prescindere se non gli stava bene.
E a lui non stava bene trovarsi lì, in quel quartiere Uchiha tanto gremito di vite, in quella casa che risuonava del battito irreale di soli due cuori.
Non voleva quella vita perché qualcosa stonava terribilmente, la cosa lo infastidiva e perciò ignorava tutto quello che aveva intorno.
«Di cosa stai parlando» era un’affermazione che non lasciava spazio a tentennamenti.
Lui non capiva, non capiva, non capiva.
«Itachi, Sas’ke, gli altri, quelli–»
«No» tuonò prima che Shisui potesse continuare a frase. «Non c’è nessuno da vedere, nipote.»
Mikoto sospirò e volse lo sguardo fuori dalla finestra, mentre Shisui chinava il capo. Lo guardava di sottecchi, l’uomo seduto dinnanzi a lui, con quell’espressione dura e severa che celava tanti dubbi che da Uchiha non sapeva portare fuori.
E non lo avrebbe mai fatto, perché non voleva accettare.
«Fugaku-san, devi vederli anche tu, prima o poi. È giusto così!» tentò ancora, allargando le braccia, quasi quel gesto potesse aiutare tali parole a sortire il giusto effetto sullo zio.
«Non so di cosa tu stia parlando, nipote e forse è il caso che tu te ne vada a casa» ribatté semplicemente l’uomo, chiarendo ancora una volta che lui non voleva capire.
«Fugaku, Shisui-kun ha ragione, devi… vederli» gli suggerì Mikoto avvicinandosi al marito e poggiandogli una mano sulla spalla.
Una breve carezza, un gesto d’affetto che la donna sapeva elargire con tutto l’amore di una madre e di una moglie, che ebbe la capacità di far vacillare Fugaku. La rabbia per un secondo lasciò il posto al dubbio, all’incomprensione che necessita di risposte.
«Lui ci ha uccisi» lo disse in un rantolo roco e rabbioso, che però non lo portò a gesti stizziti. Solo gli occhi esprimevano quella grande ira che portava dentro.
Mikoto sorrise triste, Shisui voleva uscire dalla stanza.
Era questo quel che bloccava Fugaku, l’ammettere quel che era successo e il suo essere Uchiha non lo aiutava.
Però lo aveva detto, era un passo avanti verso tutto il resto.
«Fugaku, caro, è tuo figlio. Lo ami dal giorno in cui è nato, lo sai» gli fece presente con dolcezza la donna.
«Lui non–»
«È Itachi, è tuo figlio. Se guardassi lo sapresti» tentava di farlo ragionare con la stessa gentilezza con cu si convincono i bambini, ma non tentava di indorare la piccola con menzogne e falsità.
Era vero, Itachi li aveva uccisi tutti, ma ora erano lì. Contava davvero?
«Vado a preparare il tè» disse allora Mikoto, quando il marito strinse le labbra e fece leva sul suo orgoglio per proteggere se stesso dalla verità.
Ma Shisui voleva davvero che lo zio capisse, che accettasse e che andasse avanti. Se lo meritava così come tutti gli Uchiha in quel quartiere che avevano saputo accettare.
«Devi vederli, Fugaku-san, perché ci sono un sacco di cose che devi sapere!»
Non lo stava ascoltando, non lo guardava neanche. E quella non era una cosa da Fugaku.
«C’è Itachi che non parla quasi più. Se ne sta rigido e fermo e sai che fa? Guarda su! Nella pioggia! Piange, anche se fa finta siano gocce di pioggia, quell’idiota! E ha lo sguardo di chi sta soffrendo le pene dell’inferno quando è solo e sai perché? Perché è solo per davvero, noi non–»
Shisui non sapeva come continuare, perché tutto riconduceva a qualcosa di più grande che accettare era stato comunque difficile.
«È stato lui a fare tutto» ribatté con amarezza, senza tuttavia mostrare tutto quel che aveva dentro.
«Lui non ha–»
Infatti poi esplose, sempre per quanto sia possibile ad un Uchiha.
«Perché dovrei voler… vedere colui che mi ha... che ci ha… uccisi? Lui sapeva quel che faceva, mi ha guardato negli occhi» sibilò con rabbia e stringendo i pugni. Era in piedi adesso e nonostante tentasse di mantenere il suo portamento austero la rabbia rendeva quasi vano il suo tentativo.
«Se guardi le trovi, le spiegazioni… ci sono e poi... lui è tuo figlio, sai chi è, sai che non avrebbe fatto nulla se non avesse avuto una motivazione.»
Shisui credeva in quel che diceva perché una parte era la stessa motivazione che lo aveva portato a sorridere e ad andare avanti, ad accettare, a perdonare.
«Devi guardare giù, Fugaku-san, perché la ci sono i tuoi figli e perché non lo odi davvero. È Itachi, zio, va’ avanti e… qui non ha più importanza, quel che ha fatto, sai? Importa solo il fatto che gli vuoi bene.»
C’era silenzio, nel soggiorno, che venne rotto dal sospiro di Shisui quando si rese conto che Fugaku non avrebbe risposto.
Poi lo zio lo guardò negli occhi.
Il suo sguardo era fiero, austero come sempre, ma c’era anche rassegnazione nei suoi occhi e Shisui capì che poteva continuare a descrivere, a parlare, a farlo andare avanti.
«C’è anche Sas’ke, sai? Se ne sta sempre per i fatti suoi… non sorride più quel tappo! Nemmeno lui. È solo ora, ma noi da qui lo guardiamo… sarebbe meno solo se guardassi anche tu» aggiunse, nello steso momento in cui Fugaku chiuse gli occhi.
Per un attimo credette che era davvero intenzionato a non voler capire, ma poi lo sentì respirare più forte. E lo vide accettare la verità con i suoi stessi occhi.
Stava piangendo, Fugaku, silenziosamente e con il contegno di un Uchiha, ma delle lacrime stavano bagnando le sue guance e non stava neanche provando a frenarle.
«Come si fa, nipote? A… vederli» era incerto, forse a modo suo anche intimorito – e non lo avrebbe mai mostrato – ma si sforzo di non cedere nuovamente alla tentazione di chiudere gli occhi dinnanzi alla verità.
Forse aveva compreso che era più doloroso quello che accettare.
«Basta guardare giù» disse semplicemente e lo osservò mentre con la metodicità che lo contraddistingueva quale Uchiha che era, apriva gli occhi e li puntava sul pavimento.
E vedeva anche lui, lì vedeva.
Stupore per una frazione di secondo, poi incredulità, paura, sospetto, infine accettazione.
Non c’era più incomprensione né rabbia verso quanto accaduto. Vedeva tutto dalla giusta angolazione, secondo i giusti parametri. E vedeva loro, là in basso, nella vita che aveva lasciato per giungere lì, in quel quartiere Uchiha in cui erano giunti tutti coloro che erano morti quella notte. Per quelle strade c’era chi aveva accettato, compreso, perdonato e pianto, ma c’era ancora chi doveva ancora decidere e capire. Ne arrivava ancora qualcuno, di tanto in tanto e se ne andava direttamente a casa sua, in quel quartiere che era la riproduzione perfetta di quello che avevano lasciato la in basso.
Facevano quel passo che li portava oltre e poi anche loro guardavano giù.
Fugaku aveva seguito la moglie perché aveva accettato la sua morte, ma non aveva perdonato colui che l’aveva costretto ad abbandonare tutto. Il fatto che fosse suo figlio glielo aveva impedito più che mai, oltre al suo orgoglio che gli impediva di mettere in dubbio la sua persona.
Stava ancora fermo a guardare giù, incredulo, e a vedere qualcosa che poteva vedere solo lui, oltre al pavimento.
Shisui sorrideva di un’allegria che andava oltre il semplice sentimento terreno.
«Oh, ehm… forse… Mikoto-san, tocca a te… credo» era incerto, perché non sapeva come comportarsi ora.
Lui sapeva di dover far capire allo zio la verità effettiva, quel che doveva accadere dopo spettava alla moglie.
«Certo, Shisui-kun» rispose prontamente, sbucando alle sue spalle e poggiando il tè sul tavolo. Sorrise al marito che non la guardava e Shisui si sentì in dovere di uscire dalla stanza.
Rimase nel corridoio a chiedersi un sacco di cose.
Per la prima volta, ad esempio, si chiese come avesse fatto ad accettare tutto, lui. Si era ritrovato lì, aveva pensato ad Itachi, aveva sorriso. Ricordava di aver fatto quello, ma mancava qualcosa.
Il ricordo del momento in cui aveva compreso tutto e attorno a lui si erano delineati i paesaggi del quartiere del suo clan.
Quello era qualcosa che veniva fuori dai suoi ricordi, dalla sua memoria. Era il luogo in cui si era reso conto di voler essere ora che le porte della sua casa terrena si erano chiuse e lui era stato sbalzato lì. Semplicemente non gli era importato del perché ci fosse arrivato, era lì e voleva essere a casa, di nuovo.
Ed era quello che dovevano aver desiderato tutti gli altri Uchiha.
Vivevano lì, nei ricordi, certi che non sarebbe giunto nessuno a disturbarli dalla loro serenità.
«Grazie, Shisui-kun» disse Mikoto, uscendo dal soggiorno.
Sorrideva e recava in mano una tazza vuota. Scomparve in cucina e poi fu nuovamente nel corridoio con lui.
«Tu li vedi, Mikoto-san?» chiese ad un tratto, osservando la donna.
«Certo, caro» ribatté con dolcezza, con quel sorriso che sembrava voler cedere sotto il peso delle lacrime, ma che tuttavia non si arrendeva.
«E… cosa fai quando…»
Shisui non sapeva davvero trovare delle parole per chiedere una cosa come quella, non tanto perché era inusuale fare domande del genere – non lo era certo in quel luogo –, quanto più perché forse era qualcosa di troppo personale per poterlo chiedere e anche per descriverlo.
«Ci parlo, li sgrido quando fanno qualcosa di sbagliato, gli sorrido quando vorrei che loro potessero vedere quanto sono fiera di loro… faccio finta che siano ancora qui con me» disse semplicemente, prima di lasciare il corridoio per andare da Fugaku, che continuava a guardare giù.
Una donna forte che ha saputo andare avanti, ecco cos’era Mikoto.
E andare avanti per lei aveva significato continuare ad amare chi aveva lasciato, accettare la sua morte, perdonare e sorridere.
E piangere, perché nessuno arriva in paradiso senza aver pianto, senza aver lasciato che ogni tipi di sentimento sbocciasse nella sua forma più ampia, come un fiore di ciliegio a primavera.
Era quello che stava facendo a modo suo Fugaku-san, era quello che aveva fatto e stava facendo Shisui ora che si stava recando al pontile.
Sorrideva con quel sorriso malandrino e pieno di allegria tipicamente suo, ma che era appesantito dalle lacrime salate.
Non si sedette questa volta, stette in piede ad osserva l’acqua.
A guarda giù, come faceva sempre e sorrise.
C’era Sasuke. Stava ancora pensando quel marmocchio e lui non poteva sapere a cosa. Che tappo arrogante, prendersi il permesso di fare qualcosa che lui non poteva sapere!
«Ehi, tappo… riesci a creare casini anche quando tu sei laggiù e io quassù, eh? Diamine, che marmocchio noioso che sei!»
Tirò su col naso, ma rise subito dopo.
Spostò la sua attenzione dalle acque del Naka – da Sasuke – e fissò il cielo. C’era Itachi adesso?
Abbassò lo sguardo.
Sì, c’era Itachi.
E stava guardando su, verso il cielo, nella pioggia.
«Mi sa che stai per fare un sacco di cose sceme, ma… beh, tu sai quel che fai, no? Ah, Itachi-chan, la tua vita deve essere stata parecchio monotona se l’hai complicata così tanto!»
Shisui sospirò e sorrise, poi decise che poteva starsene un altro po’ lì con loro.
Si sedette sul molo.
Guardò giù e iniziò a parlare. Bastava davvero solo quello.



*ne: particella usata in Giappone, indica una richiesta di conferma nei confronti di chi ascolta.
*konnichiwa: salve, buongiorno.
*ohayou: buon mattino.
*itoko: cugino.
*dewa mata: a presto.



Eh, è deprimente, o almeno così mi dicono… beh, io non volevo proprio scrivere qualcosa di così triste, ma capisciatemi (?), si è praticamente scritta da sola…
Shisui è poco Shisuioso, ma la situazione è quella che è, perciò forse un’allegria eccesiva stonata un po’!XD
Fugaku piange, ma dettagli, pure per la lui la situazione è atipica, perciò chi può sapere come si comporterebbe effettivamente? Eh, beh, io l’ho visto così, testardo fino all’ultimo e poi completamente in balia di se stesso. Ma c’è Mikoto con lui!^^
È ambientata poco tempo dopo la morte di tutti, ma si capisce… perciò Itachi probabilmente è appena entrato all’Akatsuki e Sasuke è completamente solo nel quartiere.
Le citazioni sono sbucate dopo aver pensato la trama e devi dire che sono davvero davvero azzeccate!
Beh, non è proprio il massimo da postare per la fine dell’anno, ma dettagli pure questi!XDXD
Buon anno a tutti!^^

  
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