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Autore: Nidham    05/01/2012    1 recensioni
Quando il buio viene dimenticato, quando può trarre forza e nutrimento da ciò che dovrebbe essere la luce stessa, un'antica leggenda cessa di essere tale e si trasforma in storia.
In un regno dove antichi Nomi scelgono individui speciali per speciali destini, il Sentiero di tenebra è l'unica strada rimasta per coloro che siano più che umani e accettino di diventare mostri.
Le schiere oscure sono pronte e fameliche, guidate da un astuto burattinaio.
Mentre la luna veglia ancora, come ultimo monito di speranza, gli uomini stessi tradiscono la loro natura, mentre poche coraggiose creature della notte si ribellano alla morte dell'alba.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La stanza in penombra profumava di zucchero e rose, mentre le tende di damasco rosso, richiamando il colore del letto a baldacchino, davano all'ambiente un aspetto cupo, quasi sanguigno.

“Appropriato” pensò l'uomo, mentre si affrettava a spostare la mano sul seno della sua dama, esattamente nell'istante in cui ella lo aveva desiderato, massaggiandolo con rudezza, fino a farla gemere di piacere.

L'aveva spinta sul letto prima ancora di averle tolto i vestiti, afferrandola con forza, soddisfacendone le più intime fantasie, guidandola verso l'apice del piacere.

Adesso, mentre riposava tra le lenzuola di seta stropicciate, indifferente ed estraneo a quanto successo, osservò il volto arrossato della donna, ascoltandone i pensieri.

In tal modo, le domande spesso diventavano inutili.

Ma stavolta le considerazioni della dama erano alquanto noiose, incentrate su carezze e notti appassionate.

Si ritrasse infastidito. Questo era ciò che prometteva ogni sera, attimi di felicità, di trasgressione. Per questo aveva vestito i panni del libertino, a corte, insinuandosi nella vita delle dame più altolocate, scivolando furtivo nelle loro case, osservando le loro vite.

Negli occhi della compagna di quella sera si era visto come un giocattolo da letto, una fiera da domare e incatenare per il proprio piacere.

E, istintivamente, ne aveva provato disgusto.

Non per se stesso, quella era esattamente l'immagine che voleva dare, almeno con quella donna. Altre preferivano vederlo come un feroce dominatore, o magari un romantico damerino.

Per ognuna incarnava l'amante perfetto. E per ognuna avvertiva pena e repulsione allo stesso tempo.

Ingannare quei frivoli esponenti dell'aristocrazia era fin troppo facile.

Non occorreva nascondersi da chi riusciva a vedere solo se stesso.

Prendevano ciò che volevano e non si preoccupavano nemmeno di chiedersi cosa potessero dare, in cambio. Abituate a soddisfare ogni capriccio, rassegnate a non essere più che una pedina nei giochi di potere delle proprie famiglie, determinate a costruire un mondo privato di intrighi e pettegolezzi, che facesse da sfondo e influenzasse quello dei propri mariti, bramavano con gretta veemenza le braccia forti di quell'uomo tenebroso e bellissimo, la cui sola voce, bassa e sensuale, sapeva far sciogliere i loro corpi e ogni loro flebile determinazione.

La sua profonda cultura, la mente brillante, l'inimitabile maestria al pianoforte, la fama di letterato, tutto questo non interessava a nessuna di quelle damine incipriate, se non come sfondo per l'immagine che si costruivano di lui: un cortigiano con la mente da intellettuale era sicuramente più affascinante di un qualsiasi sciocco libertino. Ma non era niente più di questo: un cortigiano, uno straniero dai modi affascinanti.

Aveva condiviso il letto di molte dame, era penetrato nelle loro menti così come nei loro corpi, senza che nessuna avesse mai guardato nei suoi occhi se non per vedere riflessa la propria immagine in quegli specchi del colore improbabile del ghiaccio.

Non credeva di avere un'anima, poiché credeva di non possedere un cuore; il suo sguardo era quindi un semplice riflesso della maschera che indossava: perfetto in ogni sensazione che volesse comunicare, vuoto e freddo nell'assenza di emozioni.

Non prometteva amore, ma non esitava a sedurre chiunque potesse essergli utile, per quanto questo potesse apparire dissoluto persino in quel vortice di inganni e corruzione. Ma era davvero più immorale concedere una scelta onesta ad una vergine, piuttosto che venderla a qualche vecchio cicisbeo senza nemmeno darle la possibilità di rifiutare?

Scosse la testa, mentre accarezzava pigramente la schiena della baronessa Alphonsine.

“Forse adesso dovrei andarmene” le sussurrò all'orecchio, con fiato leggero, sfiorando con le labbra l'incavo del collo. “Non credo tuo marito approverebbe la mia presenza al tuo fianco, in un momento come questo.”

Girandosi pigramente verso di lui, la dama accarezzò il suo torace scolpito, affondando le unghie sulla pelle, con una luce inequivocabile negli occhi scuri.

“Mio marito non approva la vostra compagnia in nessuna circostanza. Ma non tornerà prima dell'alba, come sempre, da qualche tempo.”

Il suo broncio era perfettamente studiato per apparire sensuale.

Han pensò fosse quasi un peccato sprecare tanta arte con chi, come lui, non avrebbe potuto apprezzarla.

“Allora la mia fortuna è anche maggiore, perché la sua insensata indifferenza mi permetterà di godere a lungo della tua compagnia.”

Le baciò le labbra, portandosi di nuovo al suo fianco.

“Tuo marito è uno sciocco, se rinuncia a tutto questo” sussurrò.

“Mio marito ha trovato una nuova compagnia di amici, che lo impegna costantemente. Ma non me ne lamento, vi assicuro conte” un risolino leggero la scosse, mentre, con audacia, lasciava che le mani seguissero il contorno di quel corpo forte e vigoroso, così diverso da quello sfatto e pallido del consorte.

“Passa le sue notti con il figlio del duca De Faure, suppongo a sperperare tutto il nostro patrimonio.”

“Non credevo tuo marito avesse il vizio del gioco.”

“No, effettivamente. Forse parlano di politica, non lo so. E' incredibilmente schivo, a riguardo. Alcuni giorni fa lo sentii inveire contro un valletto che aveva spostato alcune carte dalla sua scrivania. Mentre lo schiaffeggiava, gli disse che non avrebbe mai più dovuto permettersi di mettere il naso in faccende riservate e quando gli chiesi cosa nascondesse di tanto importante, inveì anche contro di me, facendo riferimento a non so quale importante mistero tra lui e il Marchese, appunto.”

Han si affrettò a cancellare la sua indignazione carezzandole il ventre.

“Con loro, a corte, ho visto spesso anche il visconte Gaillard e suo cugino.”

“Sì” mugugnò lei, distrattamente. “A volte si trovano anche qui e si ritirano nella sala del biliardo. Non si fanno mai mancare vino e rinfreschi. Ma, almeno, in quelle occasioni non si accompagnano a nessuna femmina. Non permetterei un tale affronto sotto il mio tetto.”

Le sue parole suonavano curiosamente ironiche, mentre giaceva con un amante in quella stessa casa.

“Sono certa che, in qualsiasi nobile discussione siano impegnati, non disdegnino, comunque, la compagnia di qualche sgualdrina. Ho avvertito distintamente il profumo di un'altra donna su mio marito.”

“Ciò è riprovevole” convenne Han. “Soprattutto quando nessun'altra donna potrebbe essere incantevole come te.”

La prese con vuota passione. La baronessa era facile da soddisfare, niente vizi o desideri particolari, così la sua mente aveva il tempo di elaborare le informazioni ottenute.

I suoi oppositori si muovevano con scaltrezza e non poteva permettersi di ignorare anche il più piccolo intrigo o nuova alleanza politica.

Conoscere i segreti di un uomo dalla bocca della moglie era un modo sicuro e rapido per ottenere rivelazioni interessanti, senza mettersi al centro dell'attenzione.

Una piccola ricerca nella camera del barone avrebbe potuto far luce su questa nuova compagnia di amici.

Finché non aveva cominciato a frequentare il figlio secondogenito del duca, l'uomo non aveva suscitato alcun interesse in Han, ma adesso non poteva permettersi di ignorarlo, soprattutto se, come temeva, Alexandra era la donna di cui Alphonsine aveva sentito il profumo.

Chinò la bocca sul suo collo, affondando i canini dolcemente, prolungandole l'estasi, assaporando in quello un effimero piacere, ma senza abbandonarvisi.

La lasciò profondamente addormentata, due ore prima dell'alba.

La casa era silenziosa, ai piani superiori, ma presto i domestici si sarebbero alzati per compiere le pulizie, in modo da non essere visti dai loro padroni, quasi la loro stessa presenza potesse disturbarne la delicata sensibilità. Molto meglio fingere che non esistessero.

In fondo era questo l'atteggiamento che i nobili preferivano verso qualsiasi pensiero scomodo o doloroso, eccezion fatta per quella parte dell'aristocrazia che, invece, godeva nell'osservare la miseria e la sofferenza dei propri simili.

Han non si concedeva spesso queste considerazioni. Pensarle, per lui, era pericoloso come esprimerle ad alta voce. Nonostante la posizione di massimo prestigio di cui godeva, bastavano già i suoi gesti, per quanto accorti, a renderlo sospetto tra i Cinque, senza il bisogno che qualcuno leggesse le prove del suo intento direttamente nella sua testa.

Non c'erano lampade accese fuori dalla camera, ma ricordava perfettamente la disposizione di ogni oggetto in ogni stanza di quella villa, avendola visitata, senza invito, la notte precedente.

Sul corridoio si aprivano dodici camere, con porte di legno chiaro, decorate con motivi floreali, ispirati alla tappezzeria.

Gli stucchi dorati e le statue di marmo rosa negli angoli, così come i lampadari di cristallo, creavano un ambiente più sovraccarico che lussuoso. Sicuramente di pessimo gusto.

Almeno i pregiati tappeti orientali che coprivano il pavimento rendevano superflua ogni circospezione, per quanto in lui fosse innata la ferina grazia di una pantera e riuscisse a muoversi nelle ombre con la loro stessa leggerezza.

La camera del barone era l'ultima, vicino alle scale.

Si fermò solo un attimo, in ascolto. Niente escludeva che l'uomo fosse rientrato senza informarne la moglie. Ma la stanza era vuota, illuminata solo dalle braci morenti nel camino.

Un enorme letto di quercia, a baldacchino, dominava la stanza.

Dei bauli, un tavolinetto a tre piedi finemente intarsiato, con sedie di velluto, e una scrivania, vicino alla finestra, completavano l'arredamento.

Tutto sarebbe apparso piuttosto sobrio, nei colori del turchese e del verde, se non si fossero considerati i molteplici ninnoli sparsi un po' ovunque. Significativa gli parve la mancanza di libri o opere d'arte di un qualsiasi pregio.

Si diresse veloce verso il ripiano su cui erano impilate, in modo disordinato, varie lettere e pergamene.

Tra inviti, promemoria privi di importanza, risposte incomplete a precedente corrispondenza, trovò infine qualcosa che suscitò la sua attenzione. Erano due missive scritte su filigrana pregiata, da una mano squisitamente femminile. Ma fu principalmente il loro profumo ad attirarlo, l'avrebbe riconosciuto ovunque.

Cosa poteva volere Alexandra da quell'uomo? Sicuramente non provava i seppur flebili sentimenti ostentati in quelle lettere. Come e più di lui, Han non la riteneva capace di conoscere emozioni. E, come lui, sapeva che non agiva mai senza uno scopo. Il problema era capire quanto importante fosse il ruolo del barone nei suoi piani.

Era certo che avesse ormai intrappolato indissolubilmente nella sua rete il figlio del duca, il Marchese Vidal, un gentiluomo arrogante e violento, roso dall'invidia verso il fratello primogenito, erede del titolo e della maggior parte delle ricchezze avite.

Il Marchese era sicuramente un contatto prezioso a corte, vista la personale influenza e l'amicizia della sua famiglia con l'Imperatore. In confronto, il barone era solo un pesce piccolo. Doveva dunque considerarlo una pedina sacrificabile? Han non nutriva alcun dubbio che l'improvvisa amicizia tra i due uomini fosse stata orchestrata da lei. E il visconte Gaillard faceva ovviamente parte del piano, qualsiasi esso fosse. Forse il cugino di quest'ultimo, ancora troppo giovane per poter essere definito un uomo, si era solo trovato invischiato in qualcosa che non conosceva. Era un ragazzo allegro e dall'animo gentile. Non avrebbe avuto scampo, se avesse deciso di gettarsi nella fossa dei leoni che era la vita politica di corte. Probabilmente, ora che aveva conosciuto Alexandra, non avrebbe avuto scampo in nessun caso. Una donna come lei, se non avesse potuto sfruttarlo come contatto, l'avrebbe tenuto come animaletto da compagnia o, peggio, come cibo.

Ovviamente più pedine avesse manovrato, maggiore sarebbe stato il suo potere. Non era quindi insensato che sfruttasse il Marchese per allargare la sua stessa sfera d'influenza.

Era, in fondo, poco diverso da ciò che faceva egli stesso.

Ma il barone era blandamente disapprovato da Ignace e si supponeva che ella agisse per suo conto. Questo inaspettato coinvolgimento, quindi, poteva significare o che Alexandra stava preparandosi al distacco dal suo signore, più o meno autorizzata, o che i piani di Ignace erano improvvisamente mutati. E questo poteva essere pericoloso.

Perquisì velocemente la stanza, passando poi alla sala del biliardo, ma nessun particolare portò maggior luce alle sue congetture.

Una visita alla dimora del visconte si rivelava inevitabile. Troppo rischioso, invece, penetrare in quella del Marchese, non fosse stato altro che per la grave mancanza verso le tradizioni della Congrega, per cui veniva considerato di pessimo gusto e assolutamente scortese introdursi nella riserva di caccia di un fratello, qualsiasi ne fosse il motivo.

Una regola non scritta che certo non sarebbe stata ignorata, se avesse deciso di infrangerla proprio nei confronti del loro Reggente.

Se la politica di corte era un fossa di leoni, Han non avrebbe saputo trovare parole abbastanza efficaci per descrivere quei sottili e terribili giochi di potere nascosti nell'ombra. Giochi pericolosi, in cui niente poteva essere tralasciato, che fosse un gesto, una parola, o un modo di vestire.

In palio c'era il potere e il prestigio di una classe capace di plasmare la notte stessa e di rivendicare i governanti mortali come propri vassalli. Il prezzo era un'eternità passata a promettere e mentire, opprimere e sedurre, danzando sulla lama sottile di un coltello, che, in un solo attimo, avrebbe potuto trafiggerti il cuore.

Atterrò con disinvoltura sul vialetto di ghiaia dietro la casa, lanciandosi dal balcone del secondo piano.

Come un fantasma scivolò tra le siepi di calicanto rosso del giardino, fino al cancello di servizio, dove, poco distante, la sua carrozza era in attesa.

Gli splendidi cavalli sauri scalpitavano nervosi sul selciato, tenuti con mano ferma da Swain, vigile e pronto a cassetta.

“La notte volge al termine, mio signore. Vi prego di affrettarvi” la voce era poco più di un sussurro, mentre scendeva per aprire lo sportello, oscurando il finestrino con la tenda pesante di velluto nero.

“Abbiamo tempo per tornare a casa. Vorrei piuttosto averne altro da sfruttare in modo più utile.”

“Una notte interessante?”

“Forse qualche complicazione, o magari un improvviso colpo di fortuna. Finché non lo saprò, rimarrà solo un inutile enigma.”

Mentre la carrozza scivolava silenziosa per le vie semi addormentate, piani diversi e contrastanti affollarono la sua mente. Avrebbe voluto possedere una visione più chiara della nuova situazione, prima dell'incontro della prossima notte con gli altri fratelli. Non potendo sfruttare a proprio vantaggio informazioni frammentarie, avrebbe dovuto accontentarsi di osservare, mantenendo la prudenza che sarebbe stata necessaria nel caso in cui si fosse rivelata esatta la più preoccupante delle sue ipotesi.

Se Ignace aveva cambiato i suoi piani, ogni futuro sviluppo era, per adesso, insondabile e, quindi, pericoloso.

La carrozza si fermò davanti al cancello di ferro battuto.

La casa era una villa di modeste dimensioni, dalla linea austera, con le pareti in pietra coperte di edera, circondata dagli alberi di un ampio giardino, contornato da una folta siepe di alloro e rose multicolore.

Situata sul fianco di quella che veniva definita la Collina dell'amore, o degli artisti, dalle sue finestre si poteva dominare gran parte della capitale, con la Cattedrale di Giada al centro, i tre ponti, di legno, di marmo e di cristallo, sul fiume Adjantir, le strade ampie e lastricate nel quartiere nobiliare, le ville eleganti affacciate sull'oceano, le catapecchie di legno ammassate nel quartiere più a nord e, oltre le mura merlate, oltre i bivacchi dei mendicanti e degli stranieri, la via dorata che portava alla reggia.

“Per favore, Swain, assicurati che per domani, al mio risveglio, la giacca nera, coi bottoni in madreperla, sia rassettata. Inoltre avrò bisogno della spilla di granati, la sciarpa di seta con il ricamo cremisi e una rosa rossa. In boccio, mi raccomando.”

“Come desiderate, signore.”

“Ti ringrazio. Durante il mio sonno, appena ti sarà possibile, fai in modo che la duchessa Cleophee riceva, in modo discreto, una scatola di quei dolciumi che adora, con un mio biglietto. Passerò da lei non appena potrò lasciare l'Assemblea, domani.”

Salì in fretta le scale, fino alla porta della sua camera. Sentiva il sole affacciarsi sulla città. Era tornato appena in tempo.

Nonostante riuscisse, come pochi altri, a mantenere intatta fino all'ultimo istante la propria lucidità, temeva l'alba e la morte che portava con sé. A volte si era augurato di poter essere come quelle giovani e deboli creature che crollavano nel loro sonno inumano in un istante, senza pensare, senza capire. Era infinitamente più pericoloso, ma sicuramente preferibile a una tale quotidiana, lenta agonia.

Disteso sul materasso di piume, tra candide lenzuola di morbido lino, con ancora indosso camicia e pantaloni, provò a distendere le membra, aspettando la fine. Non provava sollievo, in quel gesto, non aveva muscoli da rilassare o stanchezza da lenire. Soltanto il lento arrestarsi del sangue, il battito sempre più irregolare del cuore, il torpore gelido che si diffondeva nelle membra. Mentre la luce calda e dorata strisciava sulle mura della casa, chiuse gli occhi, chiedendosi, come ogni giorno, se e quando avrebbe potuto riaprirli. Si preparò ad abbandonare il suo corpo, per consegnarsi agli incubi. E morì.

 

“Marito mio” la duchessa rivolse un leggero inchino all'uomo appena entrato nella stanza, abbandonando il ricamo sulla poltrona. “Siete rincasato molto tardi.”

“Vi chiedo scusa mia cara, se vi ho provocato disagio o preoccupazione. Sono stato trattenuto alla reggia.”

“E' successo qualcosa?” la sincera premura, nella sua voce, lo fece sorridere.

Non era uno sciocco e sapeva quanto potesse essere duro, per una donna ancora giovane e bella, essere legata a un vecchio, sebbene sano nel corpo e nella mente, e le era grato per il suo affetto e le sue attenzioni, così come per la sua discrezione, nel coltivare altre relazioni.

“Niente di serio, mia diletta. Solo una piccola discussione sui nuovi editti dell'Imperatore. Richard ed io temiamo possano essere troppo duri verso una parte della popolazione, una gran parte, in verità. Non di questa idea si è mostrato nostro figlio, invece, né i nobili che frequenta adesso.”

“Non capisco come possa legare con un uomo della risma del visconte Gaillard” confermò la donna. “Da quando è morta sua moglie, si comporta in modo scandaloso ed è un pessimo esempio per la sua prole. Per non parlare del suo progetto di far sposare la piccola Camille con quel Fante di Bastoni.”

“Il Fante è un uomo molto potente.”

“E' orribile e spaventoso, non solo nell'aspetto. Si narrano storie atroci su ciò che succede nei suoi alloggi.”

“Potrebbero essere voci, derivate dall'incredibile ferocia in battaglia. Sicuramente compie il suo dovere con un fervore religioso quasi ineguagliabile.”

Chiamò il servitore e ordinò del vino speziato.

La discussione di quella notte l'aveva preoccupato più di quanto volesse ammettere, come uomo, come padre e come consigliere del regno.

Un nuovo giro di vite, in un momento del genere, con una pace tanto decantata quanto fragile, avrebbe potuto far esplodere il malcontento che già serpeggiava tra il popolo. E non si capacitava di come uno dei suoi figli potesse mostrarsi arrogantemente cieco davanti a questa verità, arrivando quasi a mancargli di rispetto, senza contare il veleno che, per un attimo, aveva intravisto nei suoi occhi.

Guardando il volto della moglie, sorrise. Era inutile sobbarcarla di preoccupazioni, ma, senza volerlo, si trovò ad aggiungere: “Il visconte Gaillard, comunque, otterrà a sua volta notevole potere, da questo matrimonio. Legare la sua famiglia ad un illustre esponente della Chiesa, un uomo che ha raggiunto uno dei Nomi, placherà ogni scandalo, compreso quello riguardante il suo insensato tentativo di sedurre la dama di compagnia dell'Imperatrice.”

“La notizia dovrà rimanere segreta. Questo è il desiderio dell'Imperatrice. Soltanto la nostra famiglia e quella del conte sono a conoscenza delle accuse mosse dalla Papessa di Coppe, oltre, è ovvio, al diretto interessato, ma voglio sperare mantenga la bocca chiusa. E' stata una mossa sciocca, persino per lui. Non credo potrà mai riuscire a spiegarne il senso.”

“E non è ancora detto sia al sicuro da qualche forma di recriminazione. Non fosse che per questo, nostro figlio dovrebbe evitarlo. Ma, quando ho accennato alla cosa, si è rifiutato categoricamente di prenderla in considerazione. Ha anzi sostenuto la teoria del visconte, secondo la quale si sarebbe trattato unicamente di un increscioso malinteso.”

“Un malinteso? Per favore, mio caro, spero tu stia scherzando. La dama di cui parliamo ha un comportamento assolutamente irreprensibile, consono alla sua posizione. Non ha mai dato origine a pettegolezzi. E' e deve rimanere una vergine. Se così non fosse l'Imperatrice stessa sarebbe ritenuta responsabile.”

“Lo so bene, moglie mia. Lo so. Ma, effettivamente, il suo racconto è stato piuttosto strano. Pare che non si fosse neanche accorta della presenza del visconte nella sua stanza. Si è trovata nuda, con quell'uomo disteso nel suo letto, quando la cameriera è andata a svegliarla.”

“E dov'è adesso, la serva?”

L'uomo non rispose. Non poteva. Ma ero certo di non averne bisogno: sua moglie non era estranea ai metodi usati a palazzo per liberarsi di scomodi testimoni. L'importante era non parlarne apertamente, in nessuna circostanza, tanto meno con una donna.

“Sai, parlando di problemi familiari, anche il mio vecchio amico non se la sta cavando bene” buttò lì il primo argomento che gli fosse saltato alla mente, per sviare la conversazione.

“Sempre per colpa della figlia minore?”

“Non della piccola; per quanto ho capito è un vero tesoro. Il problema ha ancora lo stesso nome, Vivian.”

“Non avrebbe dovuto incoraggiarla, da bambina. Ha permesso che frequentasse l'Accademia; invece di correggere il suo atteggiamento, è come se le avesse concesso il suo benestare per perseverare nel suo errore.”

“Non credo, in realtà, lo consideri tale. E' orgoglioso di sua figlia, Cleophee. Lo si vede nel suo sguardo, quando ne parla. Piuttosto ha paura per lei. Sa di non essere eterno e teme non ci sia nessuno a proteggerla, quando non potrà più farlo egli stesso.”

“Non sarà facile trovarle un marito. Ormai la sua reputazione è rovinata. Con tutti quegli amanti...”

“Io credo siano solo chiacchiere maligne. Ho parlato con la ragazza, varie volte, da quando è tornata in città. L'ho trovata singolarmente deliziosa. Fresca e dolce, del tutto priva di malizia. Le sue guance non potrebbero tingersi di un rossore così spontaneo, se fosse la donna perduta che tutti ritengono. Ma è ostinata e imprudente, inconsapevole delle elementari regole da seguire in società.”

“Sua madre non riesce a farsene una ragione. Comunque, considerata la dote e la posizione della sua famiglia, ritengo che, alla fine, riusciranno a trovare qualcuno disposto a sposarla. Spero un uomo di polso, che sappia metterla al suo posto.”

Una punta di invidia colorò le sue parole, rendendole più aspre di quanto non volesse mostrare. Guardò il marito, di sottecchi, ma egli non commentò, limitandosi a fissare il fuoco.

“Con il tuo permesso, vorrei ritirarmi. Domani dovrò far visita all'Imperatrice, non posso presentarmi col volto tirato e stanco” si chinò sulla sua guancia, in un bacio casto. Si irrigidì appena, quando le dita del consorte salirono a sfiorarle la curva dei seni, con tocco delicato, fino ad esporne uno alla vista.

“Potrebbero entrare dei domestici” protestò sottovoce, ma questo non fermò le sue carezze.

Quando l'attirò in grembo, denudandole anche l'altro seno e iniziando a baciarlo e succhiarlo dolcemente, la sua mente aveva già cominciato a pensare all'abito da indossare il mattino successivo e il suo corpo rimase passivo e disponibile, mentre il marito godeva dei suo diritti coniugali.

 

“Matto, sei qui?”

“Sì, Vostra Maestà.”

La stanza era fredda e spoglia, illuminata solo dalla luce sottile di quattro candele, disposte agli angoli di un robusto tavolo di noce, nel centro esatto della sala, su un tappeto consunto, dai colori tetri e dal disegno ormai incomprensibile.

L'Imperatore odiava recarsi laggiù.

Dall'alto soffitto a volta cadevano, ritmiche, gocce sottili di umidità, nere come lacrime di sangue. Tra le ragnatele, insetti di ogni specie si dibattevano nell'ultimi spasmi della morte. Il silenzio era pesante e minaccioso, ma da tempo il monarca aveva imparato a non dar peso a certe futili sensazioni, in nome di un bene più grande: il suo.

“Esci dall'ombra, mio suddito.”

“Come Vostra Maestà mi comanda.”

La forma rattrappita e contorta di un uomo scivolò fuori dall'oscurità, con passo malfermo, ma felpato. Un pesante cappuccio celava i lineamenti deformi del volto, con la pelle gialla e marcescente, la bocca raggrinzita sulle gengive, il naso troppo grande, simile al becco di un rapace. L'Imperatore aveva da tempo ordinato che egli non osasse mai mostrare il volto in sua presenza, poiché bastava già quell'aspetto grottesco ad offenderne gli occhi.

Gonfio di tracotanza, non aveva pensato che, in questo modo, si era stupidamente privato anche della possibilità di osservare i suoi occhi e, quindi, la sua anima.

Mentre lo guardava arrancare lungo la stanza, non notò, infatti, il ghigno soddisfatto sulle sue labbra, né l'espressione di scherno con cui gli si parò davanti.

“Come può la mia inutile vita compiacere il mio padrone?” la voce era sibilante, del tutto sottomessa e grondante umiltà.

“Oggi non mi occorre la tua arte funesta. Devo soltanto far pervenire un messaggio al Mago, in modo rapido e discreto.”

“Ditemi il messaggio, in modo che possa umilmente servirvi.”

“Voglio che venga cancellata quella vecchia leggenda sulle notti senza luna. Sono solo sciocche superstizioni, ridicole. Il fatto stesso che in parte del mio dominio qualcuno possa ancora crogiolarsi in tali superstizioni è un'offesa al progresso e al buon senso.”

Il Matto si inchinò, per quanto il suo corpo deforme glielo permettesse, evitando di sottolineare l'insensatezza di tale affermazione, soprattutto se a pronunciarla era un uomo che ben conosceva l'esistenza delle arti oscure e che non si era fatto scrupoli a sfruttarle, attraverso di lui, per consolidare il suo potere.

Da anni abitava nelle segrete del castello e, per quanto bramasse di tornare agli oscuri splendori della sua Casa, accettava di continuare quella farsa, di mostrarsi debole e adulante, poiché quello era il compito affidatogli dall'Appeso e che avrebbe eseguito docilmente, per raggiungere i propri scopi.

“Deve pervenirgli stanotte. So che gli accademici si sono riuniti, così potrà dare l'annuncio una sola volta e saranno loro stessi, tornando alle loro dimore, a diffonderlo, coi fatti e con le parole.”

“Ma come potete essere certo che il Mago accetterà di eseguire il vostro ordine?”

“Nessuno trasgredisce un mio ordine, insignificante e indegno topo di fogna” ringhiò l'Imperatore, alzando una mano per colpirlo, mentre il servo si ritraeva, strillando, con aria terrorizzata e patetica.

“Non ti colpirò, non temere” solo un attimo e la voce era tornata distaccata e regale. “Hai davvero paura di me? Non devi. Non ti ho forse sempre protetto? Ti ho nascosto alla Chiesa, ti ho accolto nella mia casa come un figlio. Ti ho riconosciuto un Nome. Ma non devi interessarti di questioni che non ti riguardano, né fare domande. Né devi mai mettere in dubbio le mie parole o la mia autorità. E' chiaro, questo?”

Il Matto si affrettò ad annuire, le mani tremanti e la bocca contorta in un sorriso cattivo.

Ormai da qualche tempo l'Imperatore non cercava più di mantenere, coi servitori, quella maschera di gentile e paterna autorevolezza che sfoggiava coi nobili e col popolo. Probabilmente era convinto che non fosse più necessario sprecare tempo ed energie ad ingannare quelli che, ai suoi occhi, apparivano poco più di bestie, da sfruttare e dimenticare.

Il Matto, però, non era un semplice sguattero, uno schiavo da far saltare con uno schiocco di frusta, ma, evidentemente, l'illustre Imperatore l'aveva dimenticato. O forse preferiva ignorare il potere implicito nel Nome che aveva saputo scoprire in lui. Il potere che ricercava bramoso, nel momento del bisogno, e che preferiva soffocare, l'istante successivo.

Capricci degli uomini, tanto più grandi, quanto più forte era la loro posizione. Al Matto poco importava.

Si chiedeva solo quanto tempo sarebbe passato, ancora, prima che il popolo fosse costretto a guardare oltre l'inganno, svegliandosi da quel sonno stregato, e che cosa avrebbe fatto, allora, trovandosi improvvisamente in catene.

Ascoltò i passi pesanti allontanarsi, la porta del corridoio sbattere e si accasciò contro il tavolo solo quando fu sicuro che non avrebbe ricevuto ulteriori visite.

Il dolore era qualcosa con cui ormai aveva imparato a convivere. Non ricordava neanche l'ultimo istante in cui avesse potuto guardare il volto di qualcuno senza essere costretto ad una dolorosa ed umiliante torsione del busto, o avesse potuto sostenersi sulle gambe, senza provare un dolore sordo e straziante in tutto il corpo.

La sua esistenza adesso era fatta di ombre. E nel buio vagavano gli incubi.

Si avvicinò al foglio di pergamena, incidendosi una vena del polso con la punta affilata di una penna di vetro nero. Il messaggio avrebbe raggiunto il destinatario in un attimo, invadendo la sua mente, come un fiume in piena di parole impossibili da arginare.

Poi, con cura, scrisse un altro biglietto, alla maniera degli umani. Dai denti contorti uscì un sordo richiamo e, in pochi minuti, un gatto randagio scivolò sul suo braccio, tuffandosi attraverso il piccolo lucernario della stanza, aspettò paziente che il messaggio venisse legato con un nastro al suo collo, e sparì nella notte.

  
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