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Autore: Sylphs    06/01/2012    4 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Un salto nel passato

 


 
Sei mesi prima
L’oscurità lo avvolgeva in una cappa soffocante, che con lentezza maniacale si stringeva intorno al suo corpo immobile e gli toglieva aria ai polmoni e sangue al cuore debole e dolorante. Ma aveva forse un cuore, lui? Non aveva affermato, alcune settimane prima, d’essere fatto solo e interamente di morte, dalla testa ai piedi, e che dunque nelle sue vene non scorresse sangue, dalla sua specie di bocca non uscisse fiato e il suo cuore non battesse mai?
Eppure…eppure nel petto, proprio al centro, qualcosa percepiva. Un dolore sordo, costante, che anziché diminuire si moltiplicava, traendo forza dalle tenebre perpetue della sua Dimora sul Lago e dall’opprimente, terribile consapevolezza di essere ormai totalmente solo, fino alla fine dei tempi, solo, disprezzato, fallito in ogni suo intento, anche il più fuggevole.
Solo. Ma solo nel più profondo dei suoi significati. Non avrebbe più sentito la morbidezza di una carne estranea alla sua (non che in passato avesse vantato spesso un simile privilegio), non avrebbe più conversato con un altro essere umano (se poteva considerarsi lui stesso un essere umano) e nemmeno, probabilmente, ne avrebbe visti. Sarebbe rimasto per sempre nel suo covo sotterraneo, lì in mezzo al freddo degli antichi candelabri, alla polvere dell’organo e alla bara in cui s’era abituato a dormire (“perché nella vita ci si deve abituare a tutto, anche all’eternità”) e sarebbe appassito così com’era appassita la rosa rossa che aveva regalato alla sua piccola Christine dopo la sua prima esibizione da protagonista per dimostrarle la sua approvazione e, nascostamente, il suo amore. Lei l’aveva portata sul seno, questo lo rammentava chiaramente (poiché non aveva dimenticato neanche un particolare riguardante la fanciulla) ma quando era arrivato l’Altro, quando si era intromesso nei loro affari e aveva allungato quelle sue eleganti mani di damerino sulla cosa alla quale più teneva, l’aveva gettata con sprezzo nella neve e allorché lui, Erik, s’era chinato a raccoglierla, i petali delicati si erano disfatti proprio come il loro amore, volando lontani nel vento e lasciandogli in mano un pugno di ceneri appassite.
Ceneri. Ecco cosa gli era rimasto in mano, dopo tutti i suoi sforzi, dopo tutti i suoi folli discorsi, la sua genialità e il suo contegno da signore del male: nient’altro che ceneri. A cos’era servito, dunque, continuare a vivere malgrado la sua maledetta ed eterna deformità, malgrado nemmeno sua madre avesse mai osato guardarlo (era stata lei stessa a fargli dono, piangendo, della sua prima maschera), malgrado l’umanità l’avesse sempre scacciato nelle viscere della terra, come i vermi, nonostante sotto la sua putredine anche lui avesse avuto un cuore? A cos’erano serviti i delitti, maledizione, i delitti di cui si era macchiato per il solo gusto di dare alla gente quel che voleva, un mostro, e tutte le ingegnose e fantastiche opere di cui si era vantato d’essere l’artefice (non a caso lo chiamavano Signore delle Botole, oltre che Fantasma dell’Opera e Figlio del Diavolo)? Ma soprattutto a cos’era servito il suo lungo, articolato e disperato piano di conquistare l’amore che gli era stato negato, a cos’erano servite le lezioni che aveva impartito a Christine allo scopo di donarle la fama che desiderava (e portarla quindi a nutrire nei suoi confronti una fedeltà e una riconoscenza senza eguali) e il primo rapimento, durante il quale aveva cercato di incantarla con le sue composizioni e la potenza passionale della sua voce?
Per quanto avesse penato, per quanto avesse architettato la cosa con l’acume e la cautela che meritava (Christine era stata l’unica creatura che mai avesse amato, l’unico essere umano degno di condividere il suo genio) la giovane non aveva ceduto alla sua geniale bravura e le sue affusolate mani diafane, spinte dalla curiosità femminile, gli avevano strappato a tradimento la maschera dietro cui si nascondeva, svelando ai suoi begli occhi inorriditi lo sfacelo che era la sua faccia e distruggendo completamente l’opera a cui Erik aveva dedicato buona parte dell’ultimo periodo.
La ragazza era indietreggiata, lo ricordava bene, aveva cercato rifugio nella parete e s’era coperta il volto implorandolo di sottrarre quell’orrore alla sua vista. S’era infuriato allora, e come s’era infuriato! Era stato addirittura sul punto di farle del male, alla sua amata, al suo tesoro, al bene più prezioso che possedeva! Il suo orgoglio e la sua speranza però non avevano ceduto alla disperazione per il piano infranto e rapidamente aveva escogitato un altro modo di conquistare la giovane (poiché nonostante fosse un mostro, era anche vanesio e arrogante come un bambino, in numerose occasioni) e s’era convinto, irreparabilmente e senza porsi condizioni, che la causa del suo allontanamento non era certo dovuta al disgusto per la sua deformità, bensì all’arrivo indesiderato e nefasto dell’Altro, di quel bel giovane ricco che pretendeva di essere il suo fidanzato. In fondo, prima che lo incontrasse, Christine s’era data a lui corpo, cuore e anima, gli aveva giurato eterna fedeltà e più di una volta gli aveva dedicato un tenero sguardo che era andato a smuovere in lui recessi che non credeva di poter raggiungere, stimolando un’emozione che non aveva mai conosciuto, la tenerezza. Dunque, se adesso gli rifuggiva ed era atterrita da lui, era senz’altro a causa del giovanotto, che doveva averlo messo in cattiva luce agli occhi di lei facendole credere orribili calunnie sul suo conto.
Ma Erik non esita a sbarazzarsi dei suoi ostacoli, era sempre stato così. Per avere Christine era disposto a tutto, al supremo sacrificio e al più efferato omicidio, aveva già ucciso, in fondo (perché quegli idioti dell’Opera inizialmente si erano rifiutati di offrire alla fanciulla il ruolo che le spettava) e la cosa gli avrebbe dato ancora più piacere se la vittima fosse stata il maledetto giovane. Non gli avrebbe permesso di violare la sua dolce Christine con la sua libidine, soffocando la purezza della sua voce angelica e sporcando il suo corpo casto e irradiante verecondia.
Perché Erik era sicuro, assolutamente e senza dubbio, che quella che il giovane provava per Christine fosse comune e banale lascivia. Nessuno avrebbe mai potuto amarla come l’amava lui, Erik, incondizionatamente e follemente (“fino al delitto”), tantomeno quel bamboccio ricoperto di fronzoli che passava le sue mattinate acconciandosi la pettinatura e spruzzandosi fasulle boccette aromatiche sui guanti. Forse s’illudeva di provare amore per lei, o si convinceva di ciò per attribuirsi intenzioni onorevoli, ma certo se l’avesse avuta in suo totale potere (com’era stato per Erik quando l’aveva rapita) non avrebbe esitato un attimo a deflorarla.
Lui, al contrario, per quanto non le fosse indifferente (era pur sempre un uomo, malgrado le apparenze) non aveva mai neppure preso in considerazione l’idea di privarla della sua sacra purezza. Per lui Christine era un angelo, troppo buono e diafano per avere a che fare con le sozze cose degli uomini, ed era deciso a trattarla con il riguardo che merita un simile idolo almeno finché non fossero stati uniti nel sacro vincolo del matrimonio, che avrebbe cementato il loro amore e li avrebbe legati per sempre, cancellando la solitudine e il dolore dei suoi lunghi anni di mostro. Avrebbe reso felice la sua amata, donandole la sua musica e dedicandole il resto della sua vita in ogni suo infinitesimo secondo, e certamente a lungo andare le avrebbe fatto dimenticare il suo aspetto orrendo e si sarebbe fatto amare a sua volta. La soluzione non era vantaggiosa solo per lui, ma anche per lei. Aveva bisogno della protezione del suo “Angelo della Musica”, aveva bisogno di un rifugio ritirato e gotico che la tenesse al sicuro dalle insidie del mondo.
Cosa mai avrebbe potuto darle il giovane, invece? Certo apparteneva ad una famiglia aristocratica (anche Erik era di nobile nascita, sebbene i suoi genitori si fossero disfatti di lui in fretta e furia affinché lo scandalo non diventasse pubblico) e possedeva la sua tenuta, i suoi servitori e il cospicuo patrimonio dei Visconti DeChagny, ma niente di quelle ricchezze pacchiane e di quelle sontuosità scintillanti si sarebbe adattato al carattere semplice e modesto della fanciulla. Christine proveniva da una famiglia povera, era orfana di madre fin dall’infanzia e il padre in vita aveva rivestito il ruolo d’un violinista squattrinato, e non poteva mancarle quello che non aveva mai avuto. Lentamente, tra gli ori e le decorazioni di palazzo DeChagny, si sarebbe spenta come una rosa appassita, avvizzendo nella solitudine e nei doveri d’una moglie di un Visconte (che, preso ad amministrare i suoi possedimenti, non le avrebbe concesso la minima attenzione) e avrebbe terminato i suoi anni rimpiangendo i tempi in cui faceva impazzire l’Opéra di Parigi.
Con lui, invece, non si sarebbe mai annoiata e soprattutto non sarebbe stata trascurata. Erik non aveva tenute da amministrare, né balli da frequentare, né tantomeno doveri a cui riferirsi. Per quanto spinosa, vantava la libertà assoluta dei paria, priva di obblighi, aspirazioni sociali e compiti da svolgere (anche se spesso gli dava la sensazione d’essere invisibile, nient’altro che uno scarto che il mondo aveva espettorato) e avrebbe trascorso la futura vita matrimoniale escogitando sempre nuovi modi di divertirla e compiacerla, dandole tutto il suo immenso amore e donandole ogni cosa gli avesse chiesto (le ricchezze le avrebbe rubate, la fama l’avrebbe pretesa con le minacce, i nemici della giovane li avrebbe uccisi).
Insomma, per Christine sarebbe stato senz’altro migliore scegliere lui, Erik, anziché l’Altro, e questo era un motivo già di per sé sufficiente a toglierlo di mezzo e a costringerla ad accettarlo.
Aveva tentato, oh, se aveva tentato! Ora che era solo nel modo più irreversibile e soffocante, ora che la Dimora che gli aveva offerto protezione dai malevoli occhi della gente era divenuta la prigione della sua disperazione, una risata che grondava sofferenza, amarezza e macabro divertimento gli uscì dai polmoni insieme alle lacrime, rimbombando sulle pareti umide, sulle torbide acque del lago Averno e sui drappeggi che ornavano il letto su cui la fanciulla aveva dormito (e su cui lui si era rotolato per non perdere neppure una stilla del suo dolce profumo).
E ci era riuscito! Ci era riuscito! Non era forse un genio? Non possedeva un’abilità che rasentava il miracolo, non era dotato dell’eleganza e dell’imprevedibilità d’un fantasma? Li aveva avuti tutti e due nelle sue mani, sì, nelle sue orrende mani che spiravano un alito di morte, la sua amata Christine e l’altro (che stoltamente aveva cercato di sottrargliela) e la situazione si era volta del tutto a suo favore: lui era rimasto inchiodato alla parete irta di sbarre arrugginite, la gola vincolata da un cappio, e la fanciulla si era trovata oltre le scure acque del lago, impotente e terrorizzata per la sorte di quel bamboccio.
Erik sapeva che lei credeva di amare il giovanotto (credeva, attenzione, poiché in realtà lui l’aveva sedotta con la sua bellezza ordinaria e aveva fatto pressioni sulla sua povera e provata mente affinché accettasse la sua corte) e così le aveva promesso la di lui salvezza, in cambio d’un consenso alle loro prossime nozze. Sicuramente Christine avrebbe acconsentito, spinta dal dovere che avvertiva nei confronti dell’Altro (che le aveva rubato un bacio che aveva scatenato in Erik un lamento pieno di furia e di sofferenza allo stato puro) e, una volta sola con lui e con l’amore che le portava, avrebbe compreso d’essere stata soltanto salvata da una vita infelice e l’avrebbe amato andando oltre al suo aspetto. Avrebbe curato le ferite che il passato gli aveva aperto nell’animo, salvandolo dalla solitudine che lentamente l’aveva condotto alla follia, e lui avrebbe trovato finalmente una ragione per vivere e un essere da proteggere e da amare legalmente e liberamente, senza timori. Con Christine al suo fianco la Musica della Notte sarebbe cessata una volte per tutte e con essa le putride tenebre in cui era vissuto durante anni di abnegazione. Avrebbe avuto un’esistenza normale, ma era poca cosa se confrontata all’immensa gioia d’avere accanto l’essere che più amava al mondo. In fondo lo meritava. Aveva patito troppo, e aveva diritto ad un po’ di sollievo, tanto più che anche per lei sarebbe stata la soluzione migliore...no?
“Ma non avevo capito nulla dell’amore” la sua bocca sfregiata, in mezzo alla faccia stroncata a metà da un male che ne aveva contaminato solo la parte destra, si contrasse in un sorriso amaro, se si poteva chiamare sorriso: “Nulla, nulla, nulla! Io la idealizzavo perché mai, prima, ero stato preso d’interesse per una donna, mai avevo toccato le loro bianche carni…neanche mia madre…mi rifuggiva, pregandomi d’indossare la maschera…neanche…e lei era così bella e dolce e aveva una voce così sublime e perfetta che…io…credevo…sognavo…ma non l’amavo come l’amo ora. Io amavo…ciò che rappresentava…nient’altro… un ideale…l’idea di qualcuno che sarebbe appartenuto a me e a me soltanto, qualcuno che scacciasse la mia solitudine…che mi desse…un po’ di affetto…oh, non tanto! Ma un po’…una moglie tutta per me…con cui andare a passeggio la Domenica…che avrei potuto proteggere…che avrebbe cantato la sera per farmi addormentare e avrebbe ascoltato le mie composizioni…e lei…si fidava di me sopra ogni altra cosa…bramava il mio aiuto…mi considerava il suo angelo custode, il suo benefattore…e allora…
“Ma non avevo compreso nulla. Quando ha giurato sulla sua anima…quando…abbiamo pianto insieme e per la prima volta l’ho guardata negli occhi e l’ho veduta veramente…non la cantante, non l’angelo, ma soltanto lei, Christine Daaé…nient’altro che Christine Daaé…oh, allora ho capito, finalmente, che cos’era l’amore vero! E quando mi ha preso la mano…sì, la mia mano! Tra le sue, e ha detto…non sei più solo! e intanto piangevamo insieme…io…l’ho baciata. E lei si è lasciata baciare! Allora…finalmente…ho capito. Nessun fraintendimento …nessuna convinzione che potevo costruirmi…aveva senso. E lei…lei…poteva sposare quel giovane quando più le sarebbe aggradato, perché si era lasciata baciare, senza ritirare le labbra dalla mia bocca! E aveva detto non sei più solo! Non me n’è importato più niente…i miei progetti…i miei presunti diritti…le mie trame…solo lei…mi importava…solo la sua felicità…
“E se diceva di amare quel giovane…che sia vero o no…io l’ho accettato. E… li ho lasciati andare. A costo della mia solitudine, della mia sofferenza…ho rinunciato alla mia piccola Christine…ma non avevo alternative…perché lei mi aveva preso la mano, e aveva detto non sei più solo! E…adesso…mi rimangono ceneri. Solo ceneri. La mia Christine…non c’è più. Nemmeno il suo profumo…il suo splendido profumo…nemmeno…è tutto finito. Non c’è speranza ormai. Non c’è speranza”.
Erik abbassò la testa informe e malfatta e si rannicchiò sul pavimento umido dei sotterranei, come un verme che cerca conforto tra il fango per sfuggire alle fauci impietose dell’esterno. Era quello, in fondo, il suo posto. Le tenebre, il putridume, il marciume più schifoso…l’habitat più adatto ad un cadavere! E per la seconda volta nella sua vita, pianse…rimpiangendo di lordare la bellezza delle lacrime che sarebbero colate su un simile orrore…pianse senza rumore, stringendo al petto la veste bianca che Christine aveva indossato durante il suo primo soggiorno alla Dimora nel Lago e affondandovi il viso nel disperato tentativo di aggrapparsi a qualche traccia di lei. E intanto biascicava il suo nome tra i denti serrati, dondolando avanti e indietro, come un mantra…sapendo che non sarebbe venuta a placare il suo dolore…perché ora aveva il suo bel giovane e certo l’aveva dimenticato. Era facile dimenticarsi delle cose scomode e sgradevoli. Era facile dimenticarsi di un rifiuto che getti via, non curandoti se possa andare distrutto o se qualcun altro possa romperlo, per sostituirlo con qualcosa di più adatto allo scopo.
E tuttavia l’amava, e tutto il suo organismo martoriato, sofferente e deforme gridava la parola amore a squarciagola in un silenzio che l’avrebbe assorbita senza attribuirle un significato. Non l’amava più per la sua voce, per la sua bravura celestiale, per l’ideale della compagna perfetta che aveva rappresentato ai suoi occhi i primi tempi…l’amava solo perché era lei, Christine. La sua dolce Christine…il suo piccolo, ingenuo angelo…non era riuscito a farsi perdonare, al momento dell’addio, perché piangeva troppo e rischiava di soffocare se avesse tentato di articolare qualche parola comprensibile. Lei l’aveva baciato sulla bocca…sulla sua bocca di cadavere…e i suoi lunghi capelli castani gli avevano accarezzato la carne un attimo, prima di svanire insieme alla sua bianca figura, sottile come un fiammifero.
Conficcò le unghie rovinate sul pavimento irregolare e se le spezzò, incurante del sangue scuro e denso che sgorgava copioso lungo le sue braccia nude. Allora poteva…era in grado di sanguinare…dopotutto c’era vita, in quel suo corpo da morto vivente.
“E se sono vivo per davvero” concluse con la disperazione sollevata di chi non ha più speranza, di chi ha perso tutto e non ha più alcuna ragione per andare avanti: “Allora significa che posso anche morire”.
Uno scalpiccio di passi lievi, che si rifrangeva sulle pareti umide della Dimora sul Lago segnalandogli in anticipo la venuta d’un eventuale visitatore (un visitatore che doveva conoscere molto bene i suoi domini, visto che era riuscito ad oltrepassare le numerose trappole che aveva sistemato dappertutto e a giungere indenne oltre la Sirena) penetrò a fatica la cappa di dolore e di disillusione in cui s’era rinchiuso e lo spinse ad alzare gli occhi per un futile, meccanico riflesso condizionato. Soltanto il giorno prima si sarebbe munito immediatamente d’un arma, un laccio per strangolare, magari (poiché non aveva dimenticato le ore rosa di Mazenderan) e avrebbe provveduto senza esitazione a disfarsi dell’indesiderato seccatore. Nessuno, a parte Christine (che ora non sarebbe più tornata) aveva il diritto di immischiarsi negli affari di Erik, se non Erik.
Ma ormai che importanza aveva tutto ciò? Erano serviti a qualcosa, i suoi affari? Avevano cambiato forse il modo in cui era vissuto e l’avevano reso qualcosa di diverso da un mostro? E se dunque non avevano rilievo, perché mai avrebbe dovuto importargli se qualcuno li avesse scoperti? Che venissero pure, che lo linciassero e buttassero nel lago per cancellare l’orrore della sua esistenza, sarebbe stato unicamente un sollievo.
Christine gli aveva giurato che sarebbe tornata allorché si sarebbe sparsa la notizia della sua morte (poiché sentiva che era vicina) per dargli una degna sepoltura e tributargli quel poco di affetto che credeva di dovergli a causa delle fatiche che aveva speso per portarla a risplendere nel mondo dello spettacolo. Perciò, se l’avessero ucciso, lei sarebbe venuta! ….e l’avrebbe baciato di nuovo, così, sulla bocca…come una vera fidanzata…malgrado ormai fosse la moglie dell’Altro…
Si alzò in piedi sulle sue gambe di cadavere, oscillando a causa di un’improvvisa e fatale debolezza (le ferite morali erano in grado di distruggere un uomo molto più a fondo di quelle fisiche) e si strinse contro al viso la morbida veste di Christine, perché voleva morire con l’illusione di tenerla tra le braccia come aveva potuto fare solo quando era priva di sensi, immerso nel suo fatale profumo, con le dita appoggiate sulla sua carne soffice che gli accendeva il sangue di desiderio e le guance affondate tra le onde brune della sua lussureggiante capigliatura. Abbassò le palpebre bagnate di lacrime e gli parve d’averla dinnanzi come se ci fosse stata per davvero, in carne ed ossa, con l’abito di purissima seta bianca che le scivolava sul corpo esile mettendone in risalto la carnagione nivea, e la cascata di capelli castani che le cadeva pudicamente sul piccolo seno, inondando di riflessi di pallido mogano il chiarore della sua silhouette ed evidenziando la dolcezza dei grandi occhi marroni e tristi.
“Christine” invocò tra i singhiozzi con la sua voce baritonale, scoprendo il petto muscoloso come se si stesse offrendo all’esecuzione dell’intruso misterioso: “Christine, Christine!”
I passi azzerarono la distanza che separava la presenza dal mostro che piangeva senza ritegno, e una voce fragile ed esitante, arrochita dall’età avanzata, risuonò debolmente nel profondo e insondabile silenzio di quei domini sotterranei: “Erik?”
L’uomo cessò bruscamente di singhiozzare e spalancò gli occhi, girandoli nella direzione da cui era venuta la voce. Soltanto tre persone conoscevano il suo nome, e due di esse probabilmente ormai si trovavano molto lontano, felicemente coniugate. Di conseguenza…
Torse la bocca, per un misto di amarezza e di vergogna nel farsi sorprendere in quelle misere condizioni (era pur sempre il Fantasma dell’Opera!) e disse con tono secco: “Madame Giry. Benvenuta”.
L’anziana donna avanzò con timore, non dimentica del fatto che il suo ospite recentemente aveva scatenato in numerose occasioni tutta la sua furia e la sua sete di vendetta, e si tenne lontana dalle scure acque del lago, sollevando l’ampia gonna dell’abito di velluto marrone per salvarla dalla sozzura che ricopriva il pavimento. Il suo viso dai tratti gentili, un tempo molto bello, era segnato da poche rughe di espressione (il tempo era stato clemente con lei) ed era mascherato da un’abbondante dose di cipria che donava all’incarnato una compattezza e un biancore chiaramente fasulli. I capelli ingrigiti, con ancora qualche traccia di rosso qua e là, erano raccolti in una crocchia ordinata e lasciavano scoperta la linea aggraziata della mascella e la pesante collana di preziosi che le circondava il collo. Si sforzava di mostrare il contegno imposto ad una signora della sua età e del suo stato sociale, ma non riusciva a mascherare del tutto la paura e il rimorso e i suoi occhi chiari lanciavano occhiate nervose tutt’intorno, senza trovare nulla fuorché Erik, che tentava con ogni energia di non guardare.
D’impulso, egli fece scattare una mano e tastò freneticamente le lastre fredde e dure del suolo alla ricerca della sua maschera bianca, del rifugio dietro al quale aveva nascosto per anni la sua deformità, rifuggendo l’orrore della gente. Perfino adesso che non aveva più nulla da perdere e che era destinato a rimanere un mostro in ogni caso provava il bisogno incontrollato di celare il volto allo sguardo della donna che conosceva più di se stesso, e si sentiva scoperto e vulnerabile. Ma la maschera non c’era, probabilmente l’aveva lasciata nella camera Luigi Filippo al momento di accommiatarsi per sempre dalla sua Christine, e l’orrore della sua faccia di mostro era dolorosamente percepibile ad entrambi.
“Erik…” ripeté ansimando Louise Giry, con le mani che tormentavano il velluto della gonna e gli occhi puntati su uno dei candelabri per non incontrare il volto del mostro: “Erik…”
“Ripetere il mio nome vi servirà a ben poco, Madame Giry” Erik si stupì di non aver perduto il suo perpetuo e arrogante sarcasmo, che era rimasto radicato in lui malgrado le sventure subite e le umiliazioni che l’avevano straziato negli anni: “Perché siete venuta qui? Dovreste saperlo meglio di tutti che la Dimora sul Lago appartiene a me e a nessun altro”.
“No” si corresse subito mentalmente: “No, io l’avrei condivisa con Christine e con lei soltanto, se avessi potuto. Ma oramai è vuota e non è altro che una prigione di desolazione e di rimpianto…”
La donna fece una smorfia, osando fissarlo dritto negli occhi (era l’unica a mostrare un simile coraggio, a parte Christine, naturalmente) e gli parlò con un’intonazione aspra che si sforzava ammirevolmente di celare la paura che aveva sempre nutrito nei suoi confronti: “Che cosa ne hai fatto del Visconte Raoul DeChagny e della giovane Christine Daaé, Erik? Esigo immediate spiegazioni e saprò se mi stai mentendo! Come ti sei permesso di rapirla una seconda volta, e davanti a tutti? E cosa credevi di ottenere con un gesto tanto folle quanto plateale? La tua arroganza mi lascia senza fiato!”
Un rigurgito della suprema rabbia che un tempo avrebbe provato dinnanzi a quell’accusa temeraria nacque nel suo petto spezzato e lo spinse a serrare minacciosamente i denti. Nessuno, dal giorno in cui s’era appropriato del Teatro dell’Opera, aveva mai osato rivolgersi a lui in quel modo perentorio, e certo non ne aveva l’autorità quella donna vigliacca e tremebonda che aveva furbescamente atteso un ragionevole lasso di tempo prima di andare da lui, tanto per assicurarsi che il peggio fosse passato. Per quanto ne sapeva, il Visconte DeChagny e la bella Daaé potevano essere già morti da tempo a causa della sua inazione. E se credeva di avere qualche diritto su di lui per il semplice fatto d’essere stata sua complice nell’inganno operato a spese di Christine e per essersi assunta di sua spontanea volontà il ruolo di una specie di governante timorosa ma permissiva, non aveva capito assolutamente nulla di lui, nonostante la loro conoscenza fosse ormai datata. Nessuno dava ordini a Erik, e il fatto che ormai non avesse più alcuna ragione di vita non aveva cambiato le cose in tal senso. L’avevano privato di tutto, anche della possibilità di amare, ma non gli avrebbero tolto la dignità.
“Come mai vi interessa a tal punto la loro sorte, Madame Giry?” sibilò, assumendo un tono maligno apposta per aumentare il suo rimorso: “Mi pare di ricordare che in passato non vi siete fatta tanti scrupoli a cedere Christine a me, senza curarvi che avrei potuto farle del male o abusare della sua virtù”.
Un intenso rossore si diffuse sulle guance incipriate della donna e le sue labbra sottili si serrarono, sforzandosi di nascondere la mortificazione e la vergogna: “Mi fidavo di te!” un poco del suo contegno scomparve e una scintilla d’ira si insinuò nel suo portamento: “Pensavo che Christine fosse al sicuro in tua compagnia perché mi avevi assicurato che l’amavi e che avresti taciuto i tuoi sentimenti fintantoché lei non ti avesse permesso di dichiararti! Non erano forse state queste le tue esatte parole? E se ti ho concesso una possibilità con lei è stato anche perché credevo, scioccamente, che la meritassi, e che la vita fosse stata sufficientemente ingiusta con te senza che anche un mio rifiuto si aggiungesse alle tue sventure! Ma evidentemente avevo sopravvalutato le tue intenzioni, come sempre. Non intendo continuare a guardare impotente le tue malefatte. Cosa ne è stato di quei poveri giovani?”
Erik strinse gli occhi, irritato e divertito insieme dall’improvviso coraggio dimostrato dalla donna. Non l’aveva mai reputata un problema, e mai avrebbe creduto che si sarebbe ribellata ai suoi ordini, sapendo meglio di ogni altro che era una cosa assai poco raccomandabile. Per il bene di Christine e di parecchi membri della razza umana, le decisioni di Erik non andavano messe in discussione, Louise Giry non aveva mai avuto il minimo dubbio in proposito. Dunque, per quale motivo sceglieva proprio quel terribile momento per deporre la sua codardia ed espiare dai peccati commessi? E perché lui avrebbe dovuto soddisfare le sue domande, adesso che non gli era rimasto nulla fuorché un amore disperato e impossibile per un fragile e delicato ricordo? Era ancora il Fantasma dell’Opera, il Signore delle Botole, e tale sarebbe restato fin oltre la morte. Il suo era un titolo ben più importante di quello dell’acerbo Visconte DeChagny o di uno qualsiasi di quei nobili che spesso si recavano all’Opera per assistere ad un modesto capolavoro di Verdi o ad un’altra delle rappresentazioni in programma, e benché non si estendesse oltre il perimetro del teatro, lì, in quei corridoi sotterranei e in quelle sale sontuose era indiscutibile e insopprimibile, e tutti gli dovevano obbedienza, i direttori e le coriste, l’orchestra e le ballerine, gli insegnanti e la Prima Donna. Ciò che comandava era giusto e non era tenuto a dare motivi a nessuno, soprattutto ad una semplice maestra di ballo.
Quel potere non aveva alcun valore per lui se non c’era Christine con cui condividerlo, ma non per questo sarebbe morto come un miserabile verme che il mondo non aveva voluto.
“Non sono obbligato a rispondervi” ribatté con la stessa asprezza usata da lei: “Vi ricordo che vi trovate nei miei domini senza che io vi abbia invitata e che di conseguenza la mia autorità è sacra e non potete fare nulla per minarla. Potrei uccidervi semplicemente con uno schiocco di dita o cacciarvi a mio libero piacimento e non ci sarebbe nessuno ad impedirmi di farlo”.
Un leggero tremito attraversò il corpo di Madame Giry, ma la donna lo scacciò e prese un profondo e tremulo respiro: “Dunque non conta niente per te l’aiuto che ti ho dato in tutti questi anni?” sussurrò a voce bassa, come se sperasse di intenerirlo (ma come si poteva raddolcire un cuore spezzato?): “Saresti disposto a togliermi la vita senza alcun ripensamento come se fossi un qualsiasi visitatore incauto? Ti ricordo, Erik, che ti ho concesso di tentare con Christine malgrado qualsiasi buonsenso mi gridasse di non farlo, perché credevo nell’intensità dei tuoi sentimenti per lei. Questo non conta nulla?”
Il volto del mostro venne alterato da una lieve smorfia di fastidio ed egli si rimproverò rabbiosamente per il barlume di senso di colpa che le parole della donna avevano scatenato dentro di lui. Lei non meritava il suo rimorso né tantomeno la sua gratitudine, e dopo che aveva rinunciato a Christine non si sarebbe fatto rammollire a causa di un debito che sicuramente non aveva verso di lei!
In fin dei conti, se Madame Giry gli aveva offerto il suo appoggio e se era stata gentile con lui non si era trattato certo di bontà d’animo, né come lei affermava d’un desiderio di concedergli una possibilità. Erik rammentava alla perfezione l’accordo che avevano stipulato diversi anni prima, quando si era stabilito all’Opera, e che era stato l’unica ragione del loro rapporto (l’esperienza degli zingari aveva preferito rimuoverla ben presto, o almeno la parte che la riguardava): le aveva promesso che avrebbe aiutato la sua giovane figlia Meg ad ottenere un ruolo importante nella società e solo per questo la madre si era dichiarata disposta ad essere sua complice. Dunque non l’aveva sostenuto per affetto o pietà, ma solo per vedere ricoperta di celebrità la sua graziosa rampolla. Di conseguenza lui non le doveva né mai le avrebbe dovuto nulla, soprattutto adesso, e aveva ogni ragione di trattarla con durezza.
Rincuorato da un tale ragionamento, ricompose l’espressione minacciosa che amava sfoderare con chiunque non fosse Christine e non cedette d’un millimetro alla sua accorata supplica: “Non ho alcuna ragione di riferirvi i miei movimenti, Madame Giry, perché mi sembra di aver assolto da tempo ai miei doveri nei vostri riguardi. La giovane Meg è diventata corifea non appena voi l’avete chiesto e non vi ho promesso altro”.
La donna gonfiò le guance per l’indignazione e parve farsi più imponente: “Oh, certo, in quanto a questo non ho di che lamentarmi!” insorse con acredine: “Mi hai già raggirata abbastanza con la storia di Meg, usandomi per portare a termine i tuoi scopi e giurandomi sempre nuove promozioni per lei. Ma l’unica conseguenza di questa storia è che mia figlia ha perduto la sua più cara amica in una maniera terribile e scioccante e non riesce a credere che non la rivedrà mai più! Sai che sto parlando di Christine, non è così? Se non vuoi rispondere per me, spero lo farai per lei. Ha tutto il diritto di conoscere la sorte della sua migliore amica”.
Erik scoppiò a ridere. Era una risata disperata, che faceva paura, e che non conteneva la minima traccia di letizia: “E perché mai dovrei abbassarmi a soddisfare l’ansia di quella ragazzina? Vostra figlia è giovane e superficiale, come ho avuto modo di vedere, e dimenticherà presto la sua migliore amica, come la chiamate. Sfacciata com’è, ne troverà un’altra il più in fretta possibile”.
Se Madame Giry poteva sopportare gli insulti riferiti alla sua persona (e nel corso della sua relazione con Erik ne aveva ricevuti così tanti da aver perso il conto) l’idea che quell’essere spregevole, per quanto infelice, desse giudizi malevoli su sua figlia la fece ardere di un sincero sentimento di sdegno e, a suo rischio e pericolo, replicò sapendo di andarlo a colpire dritto al cuore: “Ora capisco perché Christine era così terrorizzata da te, perché non ti ha mai concesso una possibilità. Credevo che la tua deformità fosse solo apparente, ma la vera mostruosità ti sta incollata all’animo! Crudele e insensibile come sei, non c’è da stupirsi se tu non sia mai riuscito a conquistare l’amore di uno spirito puro come il suo. Per tutto questo tempo non hai fatto altro che pensare a te stesso, al tuo benessere e ai vantaggi che tu avresti potuto ottenere, attribuendoti scuse sinceramente patetiche! Hai costretto quella povera ragazza a condividere la tua solitudine e il tuo marciume, tenendola rinchiusa nelle viscere della terra contro la sua volontà, e quando finalmente ha trovato nel giovane Visconte una ragione di tranquillità e di dolcezza, anziché rispettare la sua decisione hai fatto di tutto per renderla infelice! È forse amore, questo? La verità è che sei soltanto un egoista, senza scrupoli e senza morale!”
Si interruppe, ansimando, e rimase sinceramente stupefatta d’essere riuscita a gridare in faccia al temibile Fantasma dell’Opera tutto quello che pensava di lui, esternando parole che custodiva dentro da quando era nato il suo amore per la bella cantante. Tuttavia comprendeva la propria avventatezza, e sapeva che lui l’avrebbe punita in un modo che non poteva nemmeno immaginare per vendicarsi di quelle accuse assolutamente fondate. Nessuno aveva la capacità di insultare Erik senza incappare in un terribile castigo, e la donna sapeva bene che la Dimora sul Lago era colma di trappole, camere di tortura e marchingegni che le avrebbero procurato molto dolore, se lui avesse deciso di usarli.
“Sia come vuole” concluse con ammirevole coraggio: “Ho difeso mia figlia, come era giusto”.
Erik la fissò con uno sguardo vuoto, senza dir nulla e senza accennare una mossa contro di lei. S’era fatto all’improvviso completamente immobile, con le braccia che gli ciondolavano inerti lungo i fianchi e gli occhi spalancati e fissi, scintillanti di un riflesso dorato nell’oscurità del rifugio sotterraneo, ed era come se le parole sentite della donna avessero spento il disprezzo, il fastidio e l’irritazione che aveva provato fino a pochi istanti prima. Se gli si fosse rivolta in quella maniera prima dell’abbandono di Christine, si sarebbe adirato, l’avrebbe rinchiusa nella Camera dei Supplizi e ascoltando le sue grida avrebbe convenuto con se stesso che nulla di quanto affermava era vero.
Ma ora non ne aveva la forza e, scoprì, nemmeno il desiderio. Per quanto assurda fosse la cosa, provava gratitudine per lei, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Era stata l’unica, in tutta la sua vita, a trattarlo con il riguardo che si usa con un altro essere umano e gli aveva mostrato gentilezza, una cosa che Erik non aveva mai conosciuto. Forse non l’aveva fatto in modo completamente disinteressato, ma gli aveva dato più di quanto avrebbe fatto una normale dipendente, e non poteva farle del male. A che sarebbe servito?
“Avete ragione” sussurrò con voce atona, e nessuno fu più stupito di lui da quell’inaspettata confessione di colpevolezza: “Non sono altro che un mostro”.
Madame Giry spalancò gli occhi, lo stupore che si imponeva prepotente sui suoi lineamenti irrigiditi dall’età, e aprì la bocca senza che alcun suono ne uscisse. Da lui ci si poteva aspettare qualsiasi cosa, l’atto più efferato e la crisi più profonda, ma mai, mai avrebbe immaginato che di fronte a quelle accuse avrebbe reagito con quella calma disperata, con quell’umiltà remissiva. Lo fissò, senza sapere come comportarsi, e la tensione che le attanagliava le membra andò attenuandosi, poiché nessuno in quel momento l’avrebbe reputato capace di fare del male a chicchessia.
Erik alzò lo sguardo su di lei ed era uno sguardo senza veli, come quello di un bambino, sperduto e addolorato e pronto per la prima volta ad accettare la verità così com’era, che fosse sgradevole o meno: “Quando mi sono accorto che Christine seguitava a desiderare il fievole amore del Visconte DeChagny, ho provato a convincermi che la causa fosse il mio aspetto e che la mia vista fosse troppo insopportabile per suscitare affetto. Ma non era così” scoppiò nuovamente nella sua terrificante risata, che fece scorrere un brivido lungo la schiena della donna: “Non era così! Se Christine non mi amava la colpa era unicamente della mia condotta nei suoi riguardi e di tutte le sofferenze che le avevo arrecato solo per vedere coronato il mio sogno di averla come moglie. Solo che io, capite, non avevo mai avuto un sogno. Era un lusso troppo grande per uno come me. E pensavo che fosse mio diritto realizzare almeno questo. Ma qui sta il punto. Christine non è un sogno. Christine è Christine. E io non avevo alcun pretesto di trattarla come l’ho trattata, costringendola ad accettarmi con le minacce e con false convinzioni. Mi sono negato da solo il privilegio di averla accanto, e adesso…”
Non poté continuare. Ammetterlo ad alta voce avrebbe reso l’addio ancor più reale e definitivo, e nelle sue condizioni un colpo simile avrebbe anche potuto ucciderlo. Distolse il volto, celandosi allo sguardo attonito e compassionevole della sua dipendente, e si sforzò con tutte le forze di non rammentare i dolci occhi marroni di Christine e la loro espressione riconoscente mentre le rendeva la libertà che le aveva tolto. Era stata l’unica volta, quella, in cui gli aveva dimostrato qualcosa che andasse al di là dell’orrore e della paura, e questo solo perché le aveva permesso di ricongiungersi al Visconte e andarsene con lui lontano dal buio in cui li aveva confinati.
Louise Giry si rese conto, con suprema meraviglia, che il mostro stava piangendo. Il contrasto di quelle lacrime perlacee che scorrevano sul volto deturpato era repellente e affascinante insieme e la sua figura emanava un’aura di dolore così potente che la donna se ne sentì sinceramente toccata e provò l’impulso, mai avvertito in precedenza, di stringerlo a sé e consolarlo, malgrado il suo aspetto demoniaco. Un poco dei suoi timori circa la sorte dei due giovani si rassicurarono e congetturò che se Erik aveva finalmente compreso i propri errori (cosa mai accaduta prima) probabilmente era successo qualcosa di benigno che l’aveva portato ad una simile consapevolezza.
“Mi dispiace, Erik” disse con sincerità: “Non volevo essere così dura”.
“Non dovete dispiacervi per aver detto la verità” proruppe lui con voce sorda. Si asciugò bruscamente le lacrime, orgoglioso come sempre, e cercò di riprendere il controllo della voce e dei gesti: “Non merito la vostra pietà e non la voglio nemmeno”.
Madame Giry abbassò gli occhi: “Perdonami se insisto, ma devo sapere che ne è stato del Visconte Raoul DeChagny e di Christine Daaé. Sono morti?”
“Morti!” ruggì lui in un improvviso impeto di energia che le strappò un sussulto. I suoi occhi infossati mandavano lampi: “Morti, dite! Se venissi a sapere che qualcuno ha torto anche un solo capello a Christine…no, non sono morti” fece una pausa e aggiunse, pianissimo: “Li ho lasciati andare”.
Se Madame Giry provò sollievo, fu molto abile a nasconderlo. Un evento che per l’intera razza umana era motivo di gioia, per Erik significava sicuramente una fonte di inesauribile dolore, e non intendeva accrescerlo mostrandosi eccessivamente lieta della notizia: “Hai compiuto un gesto molto altruista, Erik” disse dolcemente: “Sono orgogliosa di te”.
In un’eco minacciosa della sua antica crudeltà, lui le indirizzò un’occhiata glaciale e rabbiosa: “Credete che me ne importi qualcosa del vostro orgoglio? Ho perso tutto. Non mi rimane più nulla, neanche l’amore. Christine non tornerà più, e se mi rivedrà sarà soltanto dopo la mia morte, quando non potrò più godere della sua compagnia. Se ne sarebbe andata molto prima, se glielo avessi permesso, e certamente sarebbe stata ben felice di dimenticarsi di me”.
“Sei ingiusto, Erik!” protestò Madame Giry: “Sai che Christine ti si è affezionata ed ha sempre seguito i tuoi consigli prendendoli per oro colato. Nonostante quel che è successo, rimarrai sempre il suo Angelo della Musica”.
Un ghigno amaro si impresse sulla bocca deforme del mostro: “Lo ero prima che mi vedesse in volto. Da quel momento in poi ho rappresentato unicamente il Diavolo ai suoi occhi, e le sue reazioni in merito sono state molto eloquenti. Se non l’avessi tenuta con me con la forza, non avrebbe passato neppure un minuto del suo tempo in mia compagnia e si sarebbe recata immediatamente dal suo giovanotto per amoreggiare con lui”.
Madame Giry rimase in silenzio per un po’. Poi aggiunse: “Tuttavia tu l’ami”.
“Sì” mormorò lui: “Sì, l’amo, anche se sarebbe molto più semplice per tutti evitarlo. Ma non ho avuto voce in capitolo in questa faccenda, né alcuna possibilità di frenare le mie emozioni. L’amo senza una ragione e le sono riconoscente perché mi ha mostrato dolcezza, nonostante tutte le pene che le avevo inflitto. È una cara ragazza, Madame Giry. Voglio che sia felice con il suo Visconte…anche se io non lo sarò mai…”
“Eppure avevi affermato che sarebbe stato un errore per lei sposarlo”.
Erik contrasse il busto, come se un’ape fastidiosa l’avesse punto: “Devo ammettere che a suo modo, in una certa misura, quel giovane l’ama…” dire questo gli costava un’enorme fatica: “Ha attraversato le insidie dei miei domini per andarla a cercare e ha rischiato di morire per lei. Si prenderà cura di lei e la farà felice. Forse le offrirà una vita più monotona di quella che avrei potuto donarle io, ma credo che il carattere di Christine si accosti di più alla semplicità delle abitudini. D’altra parte, che alternative ho?”
La donna allungò una mano: “Erik…”
Con uno scatto fulmineo, egli respinse il suo tocco e le volse brutalmente la schiena, ponendo fine a quel momento di sfogo e di comunione: “Andatevene adesso, Madame Giry” proruppe cavernoso, stringendo i pugni tanto forte da conficcarsi le unghie nella carne: “Andatevene e non tornate mai più alla Dimora sul Lago”.
Louise Giry ebbe una leggera esitazione: “Che farai?”
Erik rise senza allegria: “Temete per la sorte del teatro? Di vostra figlia?”
“Temo per te, Erik”.
L’uomo avvertì una sensazione strana. Nessuno aveva mai avuto a cuore la sua sorte, anzi, si poteva affermare che i pochi a conoscenza della sua esistenza speravano fortemente che morisse il più in fretta possibile, liberando Parigi dalla sua nefasta presenza. Nel corso dei suoi anni aveva incontrato persone che gli avevano augurato ogni male, e persino la sua Christine, allorché le aveva fatto capire che la sua morte era prossima, non aveva mosso obiezioni né si era dispiaciuta. Dubitava che una volta perito le avrebbe strappato una delle sue dolci lacrime, e la giovane era l’essere umano che più aveva amato e quello che più era stato con lui (a parte Madame Giry, ma lei gli si era accostata per affari e non per piacere). Nessuno si era mai addolorato per lui, né aveva espresso preoccupazione nei suoi confronti.
Scorgendo sul volto benevolo di Madame Giry una traccia di apprensione e persino di affetto, provò l’impulso di seppellire la sua orrenda faccia di morto sul suo petto caldo e piangere tutte le lacrime che gli restavano, ma sarebbe stato un comportamento decisamente poco degno del Fantasma dell’Opera, e non avrebbe sopportato un eventuale rifiuto. Come poteva quella donna dimostrargli riguardo, quando l’aveva sempre e solo usata, quando le aveva fatto fare i lavori sporchi e l’aveva costretta a consegnargli la migliore amica di sua figlia? Certamente doveva avere un fine, che in quel momento gli sfuggiva, e che giustificava un simile comportamento! Certamente nel suo fosco cervello aveva escogitato un modo nascosto di ingannarlo e tradirlo e quella messinscena aveva lo scopo di fargli abbassare le difese e…
“Smettila” lo rimbeccò una voce interiore: “Chi vuoi prendere in giro? Se si comporta in questo modo, è perché le stai a cuore”.
“Non so cosa farò” confessò in uno slancio di sincerità: “Credo che troverò un luogo pacifico in cui trascorrere il tempo che mi resta, e sono certo che vi starò per un periodo molto breve”.
Madame Giry sbiancò: “Non devi pensare simili cose. Chiunque ha la possibilità di gettarsi il passato alle spalle e ricominciare a vivere”.
“La si può chiamare vita la mia?”
Si guardarono negli occhi per un lungo momento, ritti l’uno di fronte all’altra nell’oscurità della Dimora sul Lago, e nei loro sguardi c’era rispetto, una cosa che non si erano mai concessi durante gli anni della loro relazione d’affari. Erik si sentì d’improvviso molto più bendisposto nei confronti di lei e molto meno desideroso di conservare il suo contegno sarcastico, così si lasciò sfuggire una parola che mai aveva pronunciato: “Grazie, Louise” era la prima volta che abbandonava la forma di cortesia per rivolgersi alla donna con il nome proprio: “Grazie per l’aiuto che mi hai dato”.
Lei gli sorrise con sincera partecipazione: “Non perdere la speranza, Erik. Nella vita capitano cose inaspettate”.
“Non ad un cadavere. Un cadavere conduce un’esistenza molto monotona”.
“La dimenticherai”.
“E com’è possibile?” alzò la voce lui: “Era l’unica persona che amassi al mondo, l’unica per cui mi sono sacrificato e che ho considerato degna di trascorrere gli anni avvenire al mio fianco come consorte. L’unica che abbia mai baciato e che mi abbia baciato…mia madre, Louise, durante quel poco tempo che abbiamo passato insieme non ha mai voluto che la baciassi…fuggiva via, gettandomi la mia maschera e gridandomi di celare l’orrore…mentre Christine…Christine ha lasciato che la baciassi e ha capito cosa significava per me. Non la dimenticherò, Louise, né ora né mai, se avrò un futuro…e ne dubito assai”.
Madame Giry scosse la testa: “La dimenticherai”.
Erik la guardò con fastidio, ma non si prese il disturbo di ribattere oltre. Lasciò vagare lo sguardo per la desolazione della sua dimora (non desiderava incontrare lo sguardo pietoso e fiducioso della sua dipendente) e lo bloccò sulla sua immagine riflessa sulle torbide acque del lago Averno, tremolante nelle tenebre come quella di uno spettro. I suoi occhi di brace, che emanavano un bagliore dorato unicamente di notte, al buio completo, luccicavano fiocamente nella penombra e fiammeggiavano in mezzo al viso sfigurato, concentrando l’attenzione di chi lo guardava su di essi. Addosso portava ancora gli abiti rovinati che s’era messo per celebrare le sue nozze con Christine (e che s’erano orribilmente insozzati quando era dovuto entrare in acqua per attentare alla vita dell’Altro) e tra le dita della mano destra stringeva la veste candida della fanciulla, una macchia di luce su un corpo che promanava oscurità. Istintivamente se la portò al viso, ma scoprì che il profumo della ragazza era quasi totalmente svanito, e che la traccia restante non gliela riportava più alla mente.
S’accorse dello sguardo di Madame Giry e, imbarazzato, gettò a terra l’abito, incrociando risolutamente le braccia sul petto come per negare quel gesto, inammissibile indice di debolezza da parte sua.
“Ti prego, Louise” rantolò con voce soffocata: “Lasciami solo”.
Non era una minaccia, né un ordine. Era la supplica accorata di un miserabile, e Madame Giry la accettò come tale. Si avvicinò alla sua sagoma tremante senza mostrare paura né disgusto, gli occhi grigi che esaminavano il suo volto privi di qualsiasi forma di ribrezzo, e con le dita gli sfiorò una spalla. Il tocco ebbe su di lui l’effetto di una striscia di calore che gli scivolava nelle vene e rilassava un poco della sua tensione. Chiuse gli occhi e li strinse, per non mostrare a quella maestra di ballo quanto gli avesse fatto bene quella carezza. Per quanto lei fosse l’unica a non odiarlo, voleva che lo ricordasse come un uomo che non cede mai al dolore e che conserva in ogni situazione la sua dignità.
Erik prese un profondo respiro e si preparò all’ennesimo commiato. Concedendosi per un attimo di esternare le sue emozioni, sorrise alla donna di un sorriso profondamente triste e le tese la mano, aspettandosi che la respingesse disgustata o che la sfiorasse rapidamente e poi si pulisse sul vestito: “Posso salutarti, Louise, ora che nessuno ci vede? Sono contento di averti conosciuta, anche se abbiamo attraversato un periodo molto travagliato”.
“Ed io lo sono altrettanto” replicò Madame Giry con sua grande sorpresa. Gli strinse la mano senza segni apparenti di turbamento (Christine, al contrario, si era ritratta con un grido, trovandola di una freddezza innaturale) e la trattenne tra le sue per un lasso di tempo maggiore del dovuto, pelle calda contro pelle gelida: “Potrò rivederti un giorno?”
Turbato dalla naturalezza con cui aveva accettato il contatto, Erik cercò di darsi un contegno e guardò altrove: “Ne dubito molto. Se la mia esistenza dovesse protrarsi, credo che non tornerò più a Parigi. È stata teatro di ricordi troppo dolorosi e se rimanessi, i miei giorni sarebbero un supplizio e un inutile ricordo di Christine…ho bisogno di cambiare aria”.
Madame Giry annuì, capendolo, e gli lasciò andare la mano senza cercare di pulire la propria: “Addio, amico mio”.
Erik prese il coraggio a due mani, incitato dalla gentilezza con cui lei l’aveva toccato, e fece ciò che un qualunque gentiluomo dell’alta società avrebbe fatto, ma che lui non aveva mai osato fare: si chinò e le baciò la mano, velocemente, raddrizzandosi poi in fretta e furia nel caso il gesto fosse stato troppo sgradevole per lei: “Addio, Louise” balbettò: “Ora và”.
 
Sei mesi dopo, in una notte scura e gelida, sotto un cielo che lacrimava fiocchi di neve e dinnanzi al luminoso teatro dell’Opera Populaire, una lugubre ombra scrutava il paesaggio tanto conosciuto da dietro la protezione di un palazzo, avvolta in uno spesso mantello che la celava completamente agli sguardi degli indaffarati passanti.
Non aveva resistito. Non aveva tenuto fede alla parola data, non era riuscito a rimanere lontano da quel luogo che era l’unico ad aver rappresentato una casa per lui più di qualche mese di agonia. Alla fine, ignorando i ricordi dolorosi legati a esso, l’affetto che gli portava l’aveva spinto a ritornare alla dimora perduta. Perché aveva compreso che se non era stato amato come Erik, almeno sarebbe stato eternamente temuto come Fantasma dell’Opera. Quello era un titolo che nessuno gli avrebbe mai tolto, e che indiscutibilmente lo rendeva qualcuno. Svanire, consumarsi fino alla morte nel rimpianto e nel dolore non era servito ad allontanare l’ira bruciante e il senso di ingiustizia che sempre gli attanagliavano le viscere.
Perciò avrebbe ripreso a vagare per quei corridoi di cui solo lui conosceva la perfetta ubicazione, e avrebbe dato agli abitanti motivo di considerarlo. Ma non si sarebbe più arrischiato a palesarsi a loro, non avrebbe mai lasciato intravedere la propria umana identità, incappando nello stesso errore commesso con Christine. Erik era morto la notte del Don Juan, si era rammollito al tocco delle morbide labbra della cantante e aveva rinunciato al suo unico sogno, adesso rimaneva solo il Fantasma, il Signore delle Botole, il Figlio del Diavolo, e sarebbero stati questi gli unici nomi con cui il mondo l’avrebbe rammentato.
Era un nuovo inizio, o per meglio dire, un discorso ripreso dopo una pausa di dolore, e se lo sarebbe goduto fino all’ultima goccia.

  
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