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Autore: Perversion    07/01/2012    6 recensioni
La porta si chiuse con un tonfo sordo, sospettava una reazione simile e non si stupii, ma il dolore acuto alla bocca dello stomaco che avvertii quasi istantaneamente, invece, lo sorprese parecchio.
Un litigio. Un cadavere avvolto dalla neve. Un pensiero fisso che impedisce qualsiasi deduzione. Questo nuovo caso potrebbe rivelarsi più arduo del previsto per il nostro Sherlock Holmes.
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1. Omicidio sul Tamigi




La porta si chiuse con un tonfo sordo, sospettava una reazione simile e non si stupii, ma il dolore acuto alla bocca dello stomaco che avvertii quasi istantaneamente, invece, lo sorprese parecchio.
Sprofondò maggiormente nella poltrona e accese la sua pipa d'argilla, fissando le fiamme nel camino che danzavano freneticamente.
La lite era durata solo pochi minuti, ma a lui erano sembrate ore. Non riusciva ancora a credere di aver detto ciò che, di fatto, aveva detto. Espirò una nuvoletta di fumo che si disperse nell'aria e spostò il suo sguardo sulle macchie d'umidità sul soffitto. La sua era stata una reazione logica, si disse inspirando il tabacco, Watson lo aveva provocato e lui si era solo prontamente difeso. Chiuse gli occhi, espirò di nuovo. Allora perché si sentiva così tremendamente in colpa? Perché si pentiva di ciò che aveva detto? Si portò una mano sugli occhi, era in quei momenti che si rammaricava di aver smesso di assumere la sua soluzione al sette per cento. Registrò solo marginalmente che stavano suonando alla porta, così come registro le voci soffuse e i passi su per le scale. La porta si aprì, ma non era Watson, questo lo poteva capire anche senza voltarsi. Quello non era il suo modo di camminare, non poggiava così ì piedi, le sue scarpe non facevano quel rumore.
«Holmes».
La voce di Lestrade lo raggiunse nella fitta nebbia dei suoi pensieri, ma non bastò a riscuoterlo da essi, troppe domande senza risposta gli affollavano la mente.
«Holmes, mi serve il suo aiuto, è stato rinvenuto il cadavere di un uomo e... »
Ma lui non stava ascoltando, nella sua mente c'era spazio solo per Watson. Di norma, scoprire i pensieri dell'amico era sempre stato molto elementare, ma negli ultimi giorni c'era qualcosa, qualcosa di pesante e indefinito che se ne stava aggrappato al suo torace, impedendogli anche la più semplice delle deduzioni. Mentre riportava lo sguardo sul camino si chiese dove fosse andato Watson, aveva preso la giacca? Fuori nevicava. A che ora sarebbe tornato? Decise che lo avrebbe aspettato in piedi. Ma Tornerà?
Questa domanda lo risvegliò come una secchiata d'acqua gelata.
«Holmes? »
Finalmente Sherlock Holmes si voltò verso il suo ospite, si sentiva scombussolato e fuori posto, ma cercò di non darlo a vedere all'ispettore nascondendo il tutto con la sua solita maschera d'indifferenza.
Si fissarono per alcuni istanti, poi Lestrade tossicchiò e ripeté.
«E' stato trovato un cadavere sulla riva nord del Tamigi. Maschio, uno e ottantasei. La causa del decesso è un colpo di pistola dritto in mezzo alla fronte».
«Dove? » Chiese Holmes, senza entusiasmo. Non aveva voglia di quel caso, non aveva voglia di vedere nessuno, voleva solo riflettere sul suo sconvolgimento emotivo.
«Chelsea Embankment, all'incrocio con Swan Walk».
Holmes espirò l'ultimo sbuffo di fumo, spense la pipa e la pulì, appoggiandola delicatamente sul tavolino al suo fianco. Sollevandosi evitò con cura quasi maniacale di lasciare che il suo sguardo si soffermasse anche solo per un istante sulla poltrona vuota davanti a lui. Senza dire una sola parola superò Lestrade, si infilò la giacca e uscì dall'appartamento, discese le scale e spalancò la porta di casa. Fu investito dal freddo gelido di metà Dicembre, si strinse nella giacca e si guardò intorno nella speranze di intravedere una figura familiare, ma niente. Abbassò lo sguardo nella speranza di intravedere le impronte di Watson sulla neve, ne vide un paio vicino casa, sotto la tettoia riparata, poi più nulla, la neve aveva cancellato ogni traccia del suo passaggio. Il peso sul suo torace sembrava appesantirsi minuto dopo minuto. Nel suo cuore, in un angolo, iniziava ad aleggiare il sospetto che qualcosa di orribile stesse per succedere. Ma la sua mente razionale e deduttiva si rifiutava di crederci, così montò in carrozza con Lestrade e dirigendosi verso Chelsea Embankment.
 
Da un primo esame della vittima Sherlock Holmes era riuscito a dedurre ben poco, con i pensieri sempre rivolti al dottore, e la cosa lo irritava. Arrivati sulla scena del crimine Sherlock si era subito messo ad analizzare il terreno, che come sempre era stato ampiamente contaminato dagli agenti di Scotland Yard, vide diverse impronte interessanti, due paia di uomo e un paio di donna, ma l'unica cosa che riusciva a dedurre era che quelle non erano le impronte di Watson. Si inginocchiò accanto al cadavere e lo osservò.
Gli agenti non lo avevano toccato, sospettava sotto ordine di Lestrade, visto che era quasi completamente ricoperto di neve. L'uomo era riverso sul dorso e non indossava alcun tipo di soprabito. Chissà se Watson ha preso la giacca. Holmes gli sollevò le braccia, sul dito indice della mano sinistra portava due anelli, una fede e un altro anello, più fine rispetto alla fede ma ugualmente prezioso. Glieli sfilò entrambi e li esaminò più da vicino. Dentro entrambi erano state incise le iniziali J & S e due date diverse. J e S ... John e Sherlock. Quando si accorse di ciò che aveva appena pensato capì che non sarebbe mai stato in grado di concludere quel caso se prima non si chiariva con Watson. Senza farsi vedere da nessuno si infilò gli anelli in tasca e passò ad esaminare il volto, scostò la neve che vi si era depositata e vi si chinò sopra. Non puzzava di alcool, né di fumo. Gli occhi e la bocca erano spalancati e sul suo volto si leggeva ancora chiaramente sia lo stupore che il terrore. Il colpo era stato sparato a bruciapelo, da una pistola di piccolo calibro.
«La vittima si chiamava Jeremy Court, ventisette anni, residente al 13 di Redesdale Street».
Lestrade gli si affiancò, sperando di riuscire a scovare immediatamente il colpevole, ansioso di tornarsene a casa al caldo.
Sherlock Holmes si risollevò e guardò per l'ultima volta l'uomo, poi sollevò gli occhi al cielo e sospirò. Una nuvolina di vapore si innalzò nell'aria fino a disperdersi quasi immediatamente.
«Può dirmi nulla? »
Holmes si voltò e ripercorse i suoi passi, chiamò una carrozza.
«Holmes! »
Lo chiamò Lestrade raggiungendolo, ma lui era già entrato nella vettura e dato le indicazioni al cocchiere affinché lo riportasse a casa.
«Holmes, mi dica qualcosa! »
Lestrade affiancava la carrozza che ancora procedeva lenta, Sherlock si voltò a fissarlo per un breve istante, poi alla fine parlò.
«Non si è trattato di una rapina».
Lestrade lo guardò aggrottando le sopracciglia, visibilmente deluso dalla risposta dell'uomo, stava per dire qualcosa quando la carrozza, finalmente, accellerò e lui non riuscì più a starle dietro.
«Questo, mi da una chiara visione dell'ovvio! »
Lo schernì Lestrade, urlando a pieni polmoni in direzione della carrozza già lontana.
 
Arrivato a casa spalancò la porta e corse su per le scale, salendo i gradini due per volta. Watson doveva esserci, Watson c'era! Spalancò la porta con il cuore gonfio di aspettativa. La stanza era vuota. Tuttavia non si demoralizzò più di tanto, infondo, il suo buon amico poteva essere andato già a letto. Ma niente gli lasciava avanzare una simile ipotesi. La stanza era esattamente come l'aveva lasciata lui alcune ore prima, fatta eccezione per il camino che ormai era quasi del tutto spento. Non c'erano segni di nessun tipo. La morsa dolorosissima alla bocca dello stomaco tornò a farsi sentire, così come il peso aggrappato al suo torace. Con ancora il soprabito indosso percorse a grandi passi la stanza, diverse volte, cercando inutilmente, un modo per acquietare il suo animo tormentato. Alla fine, sfilandosi velocemente la giacca tornò a sedersi sulla sua poltrona, evitando ancora una volta, di guardare quella posta di fronte a lui. Una volta che ebbe ravvivato il fuoco afferrò il suo violino, che se ne stava appoggiato ad un lato della poltrona, e iniziò a pizzicarne le corde, in attesa del rientro del dottore. Le ore passavano lente, fuori la neve cadeva sempre più fitta, le ombre diventavano sempre più grandi e le persone in strada iniziavano velocemente a tornare alle proprie abitazioni. Solo il dottore sembrava volersi attardare fuori. Più il tempo passava, più il clima, e l'umore di Sherlock Holmes, peggioravano. Ormai nella sua mente deduttiva si erano dipanate le più assurde motivazioni per giustificare il ritardo di Watson, un incidente, un rapimento, un mancamento; tuttavia, si rifiutava categoricamente di uscire per cercarlo. Il suo orgoglio era ancora troppo risentito per la lite di diverse ore prima. Holmes, o meglio, la sua parte razionale e orgogliosa, era assolutamente convinta di essere nel giusto e che quindi, se Watson si era sentito offeso per le parole da lui pronunciate, doveva incolpare soltanto se stesso. Ma l'altra parte, quella più piccola, quella che viveva rilegata in un angolino del suo cuore, gli sussurrava che forse, per quanto logica la sua risposta fosse stata, la scelta del tono e della parole con cui si era espresso non erano state delle migliori, gli suggeriva, inoltre, che Watson era un uomo semplice ed ingenuo, poteva offendersi facilmente, ma che era una delle qualità che Holmes tanto adorava in lui. Alla fine, stravolto da tutti questi sentimenti e pensieri discordanti tra di loro Sherlock Holmes si addormentò, con il violino sulle gambe e la pipa in bocca.
 
Fu svegliato dal rumore della porta che si apriva.
Spalancò gli occhi e scattò in piedi, facendo rovinare a terra violino e pipa. Watson.
Mrs. Hudson entrò con in mano la sua colazione, appena lo vide gli elargì un sorriso di circostanza, che però non fu ricambiato.
«Buon dì, signor Holmes».
Lo salutò la donna andando a posare il vassoio sul tavolino e iniziando ad apparecchiare.
Sherlock Holmes attraversò in quattro falcate la stanza, salì i pochi gradini che lo separavano dalla stanza del dottore e spalancò la porta. Il letto era intatto. Non era tornato. Deluso, richiuse la porta, scese lentamente le scale, si riaccostò al camino risollevando pipa e violino.
«Mrs. Hudson, potrei approfittare della sua gentilezza e chiederle di farmi un favore? »
Disse mentre riadagiava il violino sulla poltrona e la pipa sul tavolino. La donna lo guardò sorpresa e sorrise di nuovo.
«Oh, Mr. Holmes, certamente».
Sherlock si sedette al tavolo per la colazione e afferrò il Times, poi guardò la Signora Hudson per un breve istante.
«Se oggi qualcuno verrà a chiedere di me, può essere così cortese da riferire che non sono in casa? »
Mrs. Hudson parve molto sorpresa per la richiesta del suo inquilino, tuttavia annuì.
«Certo, farò come desidera».
La donna si avviò verso la porta dell'appartamento, ma Sherlock Holmes riprese a parlare.
«Però, ripensandoci, prima di dire che non ci sono, si faccia dire da chi sono stati mandati o il motivo della visita, se il mandante è il dottor Watson allora li faccia passare».
La signora Hudson sembrava sul punto di chiedere qualcosa, ma Holmes aprì velocemente il Times e finse di immergersi nella lettura, senza lasciare speranze alla donna di soddisfare, almeno in parte, la sua curiosità sul perché quel mattino Mr. Holmes fosse così garbato e quieto.
Sherlock Holmes rimase in casa tutto il giorno, nell'arco del dì il campanello suonò ben otto volte, ma nessuno salì da lui. Stette seduto sulla poltrona tutto il tempo, perso nei suoi pensieri e nei suoi dubbi, con la speranza nel cuore di sentire i passi del dottore su per le scale, se lo immaginava mentre entrava tutto arruffato e si scusava per l'assenza prolungata e a quel punto lui si sarebbe alzato dalla poltrona, avrebbe sussurrato un «Bentornato», gli sarebbe corso incontro e lo avrebbe stretto tra le sue braccia, si sarebbe scusato per ciò che la sua bocca aveva osato pronunciare, offendendolo, e gli avrebbe sussurrato all'orecchio di non lasciarlo mai più solo per così tanto tempo. Sherlock andò avanti a sviluppare questa fantasia tutto il giorno. Alle volte l'immagine era così nitida nella sua mente da sembrare reale, riusciva persino a sentire la pelle liscia di Watson sotto il tocco delle sue mani, ne percepiva il profumo, ne assaporava il gusto. Ormai, conscio d'aver usato toni non adatti ad una conversazione con il suo fido Boswell era pronto a scusarsi e a farsi perdonare, utilizzando qualsiasi mezzo a sua disposizione e pregustando già la faccia sorpresa del suo dottore quando, rientrando, magari triste e sconsolato, lo avrebbe trovato sorridente e pronto a far pace.
 
La giornata volse al termine, lasciando nuovamente spazio alle ombre della notte, ma Watson non tornò.
 
 

Continua...




Ed eccomi di nuovo qui, la connessione che fa schifo non mi ha impedito di postare quest'ultima schifezza venuta fuori da chissà dove (un luogo l'avrei in mente, ma sono una signorina di buone maniere *ridacchia dietro il ventaglio* non dico certe parole). Vi prego di essere clementi con me, ho da poco iniziato a leggere il canone (vabbè diciamo pure che ho letto solo il primo romanzo e i racconti posti cronologicamente prima e durante) quindi questa storia sarà sicuramente piena di errori da quel punto di vista (e sono sicura ci saranno anche un sacco di orrori grammaticali...perdonatemi anche quelli, se me li indicate li correggerò immediatamente!). Inoltre mi scuso anche se i personaggi sono (e lo sono, io lo so) OOC.... questo credo sia uno dei miei più grandi difetti, cioè parto con il voler scrivere seguendo il più possibile i pensieri del personaggio poi alla fine mi ritrovo con le tipiche frasi che invece direi io =.= Infine dovrete scusarmi anche per la semplicità del caso. Insomma ho pensato che essendo un racconto di Sherlock Holmes non poteva mancare il delitto, ma la mia mente è semplice ho provato ad arroverlarla alla ricerca  di qualcosa che potesse essere almeno un pochino avvincente, ma credo di aver miseramente fallito. Una mia conoscenza, e non faccio nomi sennò mi arriva a casa con una mannaia in mano, *coffcoffHellycoffcoff* avrà sicuramente già scoperto vita morte e miracoli della vittima, del colpevole e del gatto della donna che abita sopra il fornaio da cui si serve la vicina del lattaio che portava il latte alla vittima. Però mi farebbe piacere, mano a mano che la storia continua, sapere chi è il vostro sospettato. I nomi dei luoghi sono tutti autentici (sono stata più di mezz'ora su google maps per cercare il luogo adatto) però non sono sicura che si chiamassero così anche nel 1800 ._.
 
   
 
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