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Autore: VirtualInsanity    07/01/2012    3 recensioni
Sudore.
Colava esaminando con straordinaria minuzia le scapole di quell'uomo troppo poco umano per essere talmente genio.
Glaciale.
Brividi che preannunciavano una fine pretenziosa e infame, un epilogo impossibile, inopinato, una drammaticità viscerale che svicolava nelle vene traghettando stille di inquietudine e tormento, come Caronte su rive umane.
Impalpabile.
L'ineccepibile fallimento: l'unica nozione di cui non era riuscito ad avvalersi.
Ne ignorava la fisionomia, appigliandosi con la sua innata capacità e caparbietà a semplici distillati di cui coglieva distratti particolari, inutili per una diagnosi perfetta a mai lasciata al caso com'era solito accingersi.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sono ancora più insicura della scorsa volta, per cui mi limiterò a poche parole fatue: buona lettura, (e non uccidetemi, se potete).

Malù.

 

168 ore, 10.080 minuti, 604.800 secondi.

 

Mi sono premurata di trovare una presentazione inadatta per quest’altro episodio di cui io, ora, sono totalmente all’oscuro, ma mi hanno detto che l’unico modo per far tornare la capacità creativa, anche quando non sai come, è quello di scrivere.

Che la notte sia passata o la ragione tramontata, che la scienza si sia liquefatta o la speranza strisciata, scrivi.

Che non ci sia sonnambulo o morto risvegliato, che viva sia rimasta la saggezza o risorta l’inadeguatezza, scrivi.

Che ci fosse una rima o una dissonanza, che la disperazione congiunga o differisca, continua a scrivere.

Perché è l’unico modo per perdersi recuperando.

 

Il tempo rimane sconfitta nell’eterno.

Sospira e fermami, fratello.

 

L’orologio da taschino ticchettava infausto sepolto sotto un cumulo di fogli ingialliti e spessi, su cui note e incastri di lettere soggiogavano la mente in conclusioni affrettate. I bicchieri sul vassoio ciondolavano tintinnando e producendo suoni esausti senza una causa precisa. Sui tappeti sudicia desolazione, tra le tende ovattata polvere, nei bauli vesti sparse, sulla scrivania cianfrusaglie varie tra cui spiccava una macchina da scrivere che strideva tra tutto quell’abbandono, urlando un’appartenenza cristallina e fluente.

Dov’è, Holmes?

Un richiamo che vorticava nel pulviscolo chiaro, impercettibile ma sonante, tale da provocare un dissipato senso di manchevolezza mai provato prima.

La pipa borbottava sprazzi di cenere, autoritaria, imperiosa, riflesso iridescente della presenza-assenza di Sherlock, coricato supino su un immenso tappeto che lo faceva sembrare un quadro astratto, etereo nella sua inquisitoria inesplicabilità, temerario nel suo abbandono sfrontato.

C’è davvero, re delle ambiguità?

Avrebbe risposto di no, se solo fosse riuscito a ritrovare la sua voce, scomparsa tra il cielo plumbeo e le memorie di passanti sconosciuti.

Mrs. Hudson, a quella taciturnità tutt’altro che improvvisa, aveva una risposta più che mai esaustiva: «È semplicemente uno dei suoi momenti discontinui di riflessione.»

Se avesse saputo…

Picchiettando le dita sul panciotto slacciato emise uno strano singulto che si perpetrò in una risata, insensata e folle, quasi isterica per la sua sfumatura stonata e discordante. Quello, l’unico modo per liberarsi dell’ansietà pretenziosa che si cibava del suo organismo: spietata, quasi assassina.

Lui, che degli assassini faceva un gioco. Lui, che dei loro abiti fiutava il peccato. Lui, che era nato per scovare il rimorso e la vendetta. Lui, che si lasciava andare per la cosa più immensa e persa mai esplorata.

Un’altra risata.

Ridicolo, come pesce amante d’aquila.

L’amore non era fatto per  gli investigatori,  poiché sporca la mente in consapevolezze rosate, rende fuoco qualsiasi ghiaccio, intacca le sinapsi promettendo sorrisi estatici, trasforma l’ardore della conoscenza in vitalità liquida, esplode in congiuntivi indecisi, lava via il masochismo, sfavilla di illogicità inaccettabile, distrae dal pensiero della morte.

L’amore non era semplicemente fatto per Sherlock Holmes.

Ruota il polso destro di 90°, piega la gamba sinistra e fissa a terra la destra.

Schiena debole, ma non c’è pericolo: la caduta non può far più male del (dis)incanto.

Un secondo ed era su, lo sguardo che tornava orizzontale e la voglia di continuare a guardare il buio in verticale. Un respiro profondo, le gambe dolevano assuefatte d’inerzia, un grido primitivo che aspettava il via libera. Ma tutto era costretto nel caos, non c’era ordine neppure nel turbamento.

Avanzò lento, vagando tra il disordine che gli metteva una strana calma trasognata, come l’istante prima del salto nel vuoto, sino a fermarsi di fronte alla scrivania, le mani poggiate su di essa quasi fosse barca tra le intemperie del mare.

Studiò, piegando il viso, la compostezza imponente della macchina da scrivere, annusandone il profumo metallico e quello ormai asciutto dell’inchiostro, che designava un utilizzo lontano dal presente.

Il presente.

Cos’era, se non un viaggio interuniversale nei gesti già scoccati nel passato?

Una dipendenza di congetture e catene, quella della dimensione temporale, da non lasciare tracce di semplicità.

Giunse le dita sul naso, strofinandosi poi gli occhi scuri in un gesto di fastidio, come non volesse più vedere, o osservare, e aggirò il legno, andandosi a posare sulla seduta in un tonfo trasandato: carta e parole.

Al suo cospetto, un’enciclopedia di lettere a cui il suo John aveva dedicato ore e pensieri, in un silenzio lugubre e rilassante.

Scettico, liberò un tasto che tintinnò riproducendosi sulla filigrana. Il bianco gli metteva agitazione, e in quel gesto si sentiva quasi libero, o almeno più libero di un geranio timido braccato in una mano, incapace di respirare.

Gettò un’occhiata all’orologio da taschino in bilico sulla libreria, e scrisse:

 

Centosessantotto ore, diecimilaottanta minuti, seicentoquattromilaottocento secondi.

 

«John, torna dentro, la pioggia sta entrando in casa!» fu l’urlo di Mary, nascosta dietro strati di pareti, a destarlo da quell’immobile torpore che lo aveva trascinato sull’uscio di casa senza un apparente motivo.

Guardò l’ora: le sei e quattro di sera, e la pioggia continuava a scrosciare.

Che fine avrebbero fatto i suoi vestiti fradici?

Avrebbe preso una febbre, come minimo, ma quello era l’ultimo dei suoi pensieri.

C’era sangue sulle mani, il sangue di un’intera umanità trucidata, colava tuffandosi nell’acqua grigia e lucente come perla sporcandogli le scarpe: una visione talmente cruda da bloccargli il respiro.

Che fine avrebbe fatto la sua vita?

Un mucchio di gemiti femminili e inappropriate appartenenze le cui grida d’aiuto venivano ignorate. Non c’era un senso da inseguire, non c’erano stranezze da condividere, solo normalità.

Gladstone trotterellò al fianco del padrone, innalzando lo sguardo verso di lui, che non si accorse minimamente del nuovo arrivato.

Fuori, lo spazio lo soffocava. Dentro, la verità lo derideva.

Il cane guaì, in una richiesta perentoria di attenzioni, ma John rimaneva fermo, ripetendosi come un mantra ‘Non muoverti’ ‘Non muoverti. O ti schiacceranno’.

Non capiva che l’unico modo per sopravvivere era muoversi verso le sue paure?

«Gladstone?» poi, una voce spaesata, come eremita nel deserto che fa l’amore con una donna per la prima volta, e l’animale scodinzolò finalmente degno di attenzione.

Watson si chinò piano, carezzandolo in un gesto calcolato: dalle orecchie alla coda, dalla coda alle orecchie. Ci metteva così tanta concentrazione da sembrare un esperimento, o un’operazione chirurgica in cui combattevano la luce e il buio.

Passarono interi minuti, sino a quando il cane, stanco, scivolò lontano senza sguardo.

John lo osservò, torvo, andare via.

Poi, l’idea.

«Mary!»

Bentornato, John Hamish Watson. Dove vuole che la portiamo?

Il dottore balzò in piedi, gli occhi incandescenti e le vene pulsanti di irriverente rinascita.

Bentornato, John Hamish Watson. Vuole davvero vivere?

La sua donna scese le scale, spaventata da quell’esclamazione che, per l’eccessiva gioia, era apparsa come una richiesta di soccorso. Si incontrarono sul primo gradino, John implacabile nella sua effervescenza e Mary dubbiosa di quell’improvvisa scintilla.

«Porto fuori il cane.» asserì incapace di rimanere fermo anche solo con la mente.

«M-m-a… ma piove, fa freddo e…»

«Piagnucolava sull’uscio, dovrà pur uscire, non credi?»

La giovane annuì inerme, domandandosi come fosse riuscito a tornare così attivo in quello che era stato un semplice attimo.

«Provo a passare a casa di un mio amico di studi, oggi è… il suo compleanno. Non aspettarmi per cena!»

Mary abbassò gli occhi, osservando quello che in realtà era l’ultimo gradino, per lei, e capì. Una lacrima le recise una guancia.

 

«221B, Baker Street» un sussulto nel pronunciare quelle parole si unì agli zoccoli dei due cavalli, mentre Gladstone dormicchiava con la testa poggiata contro un lembo del cappotto di John.

Aveva preso la carrozza dietro l’angolo di casa sua (loro) con una certa tristezza, quasi paura di star sbagliando tutto. Cosa sarebbe accaduto? Che ne sarebbe stato della loro ‘relazione atipica’? E Mary? E il mondo intero…

«Aaaah, cosa ti importa? Sii meno dottore e più uomo!» sussurrò a se stesso, battendosi una mano sul ginocchio della gamba lesionata.

Appena arrivarono, la pioggia era talmente fitta da fare della strada un’unica grande pozzanghera impossibile da scavalcare. Pagò il cocchiere e il cane scodinzolò fuori correndo al riparo sotto il tetto di casa Holmes, mentre lui stava ben attento a dove metteva i piedi (e il bastone).

Poggiò con forza quella terza gamba su un’escrescenza del terreno invisibile fino a quel momento, e cadde rovinosamente su un fianco gemendo per il dolore. La gravità lo aveva nuovamente messo alla prova.

Si rialzò con fatica, arrivando finalmente di fronte all’entrata: una porta e l’inquietudine, a dividerli.

Deja vu.

Ma chi era il cattivo, ora?

E di chi la morte apparente?

Forse, di entrambi.

Quando entrò, Mrs. Hudson fu più affettuosa del solito, quasi avesse sentito anch’ella la mancanza di quell’uomo così attraente e limpido.

«Avverto il signor Holmes?»

«No, non si preoccupi, faccio da solo» annuì poco convinto incamminandosi e lasciando Gladstone alle attenzioni della domestica.

La sicurezza di prima: svanita.

La voglia di vederlo: all’apice.

La paura di ciò che sarebbe accaduto: curiosa.

La possibilità di un ritorno a casa: inappropriata e ignorata.

Bussò due volte, di Holmes però nessuna traccia. Si decise, così, ad abbandonare le buone maniere e spalancare la porta.

Sul viso, un’espressione di disgusto causata dal cattivo odore e dal disordine disseminato ovunque.

«Si è fatto male?» un applauso, Holmes, è la sua voce quella che sentiamo?

John arrestò la leggera avanzata, direzionando il capo verso la causa dei suoi malori: i capelli gli ricadevano ai lati del viso in un corollario scuro e affascinante, la barba era più spessa del solito, la camicia sbottonata e ormai solo vagamente bianca, il resto del busto nascosto dal mobile.

Possibile fosse diventato più bello? Era così… animalesco.

«Ci sarà un livido domattina» e sarà lei a leccarmelo via?

Notò, allora, la macchina da scrivere sotto le sue mani, e sorrise beffardo leggermente provato da quel particolare.

«Da quando scrive?»

«Da quando lei ha deciso di non farlo più qui» atono, stanco, quasi un mendicante di parole che non trova se stesso, né ciò che era stato.

John rimase interdetto da quella frase così esplicita, scivolando piano dietro le spalle del suo compagno.

«Chi è, ora, ad aver perso lo spirito?»giocò posando le mani sulle spalle dell’investigatore che, prontamente, chiuse gli occhi appagato da quel tocco maschile e così suo.

Sapevano entrambi perché Watson fosse lì, quello era solo un ritardare il tutto, un godimento effimero a cui presto si sarebbero donati, dipendenti.

 

Sfruttare la precarietà della sedia affinché sia a mio vantaggio.

Portare la mano sinistra dietro lo schienale, poggiarsi con tutta la (poca) forza rimasta, alzarsi di scatto e lasciarla cadere.

Dilatare le gambe a bloccare le sue ginocchia, le dita (oh, sì) sul collo: oppone resistenza. Almeno, ha uno spirito di conservazione.

Bloccargli la testa contro il tendaggio, premere il bacino contro il suo e…

 

«Chi è ad aver perso la prontezza di riflessi?» ansimò sulla bocca di Watson, braccato sotto il peso dell’uomo che ghignò, canzonandolo.

«Oh, Holmes» sospirò John, quasi debole.

«Sua moglie?» domandò, cinico, per non appigliarsi a quel sospiro così piacevole…

« È davvero di lei che vuole sapere?»

Holmes rise, a pieni polmoni, incredibilmente e schifosamente… felice.

«No» deciso e imperturbabile, si avventò sull’ugola del dottore lappando lento e suadente il pomo d’Adamo che per anni gli aveva stuzzicato la fantasia.

«La sua solita perversione» constatò John, lasciandosi amare senza nessuna resistenza.

«Non è per questo che la eccito?» ironizzò sbottonandone il cappotto con una destrezza impertinente e lesta.

Giù, scivolarono stoffe su stoffe, facendo da culla ai loro due corpi incapaci di abbandonarsi al freddo della solitudine. Carne e passione, viscerale e istintiva, agitava le membra in amori gentili e inenarrabili miti nascosti tra le pieghe di tombe celesti.

Rotolavano ridendo come bambini che non possedevano nulla di infantile o ingenuo, collaborando con quella complicità sbocciata anni addietro senza spiegazioni: naturale, come conchiglia sulla battigia bagnata. Singolare, come lacrime nella morte.

Si unì ciò che non era mai riuscito ad unirsi con le semplici parole, crebbe simile a fuoco ogni occhiata celata perfino a se stessi, rinacque la voglia di imperversare sul mondo, toccò il cielo ogni urlo sospirato e languido, lasciò alla realtà ciò che l’immaginazione rendeva sogno incastrato tra il non potendo e il non dormendo, si disarmò ogni costrizione e dolore liberando semplice, semplicissima magia secolare.

Dov’è ora la sua tomba, Holmes? Nel ghiaccio, o nel fuoco?

Dov’è ora la sua paura, Watson? Nella ragione, o nel torto?

«Centosessantotto ore, diecimilaottanta minuti, seicentoquattromilaottocento secondi contro centoventi minuti e novemila secondi.» viaggiò Sherlock con la matematica, mentre sotto di lui il petto di John si alzava e abbassava irregolare sotto l’effetto di tutto quella partecipazione.

«Non è che una notte. La notte» sospirò il dottore, affondando il viso tra le clavicole del suo amante.

«Non è che un inizio. L’inizio» sorrise Holmes, pronto a piangere per quella sicurezza che nuotava impavida nelle vene.

Ormai c’è più spazio per voi che per il mondo, miei cari.

 

   
 
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