Sono ancora più insicura della scorsa volta, per cui mi
limiterò a poche parole fatue: buona lettura, (e non uccidetemi, se potete).
Malù.
168 ore, 10.080 minuti, 604.800 secondi.
Mi
sono premurata di trovare una presentazione inadatta per quest’altro episodio
di cui io, ora, sono totalmente all’oscuro, ma mi hanno detto che l’unico modo
per far tornare la capacità creativa, anche quando non sai come, è quello di
scrivere.
Che
la notte sia passata o la ragione tramontata, che la scienza si sia liquefatta
o la speranza strisciata, scrivi.
Che
non ci sia sonnambulo o morto risvegliato, che viva sia rimasta la saggezza o
risorta l’inadeguatezza, scrivi.
Che
ci fosse una rima o una dissonanza, che la disperazione congiunga o differisca,
continua a scrivere.
Perché
è l’unico modo per perdersi recuperando.
Il tempo rimane
sconfitta nell’eterno.
Sospira e
fermami, fratello.
L’orologio
da taschino ticchettava infausto sepolto sotto un cumulo di fogli ingialliti e
spessi, su cui note e incastri di lettere soggiogavano la mente in conclusioni
affrettate. I bicchieri sul vassoio ciondolavano tintinnando e producendo suoni
esausti senza una causa precisa. Sui tappeti sudicia desolazione, tra le tende
ovattata polvere, nei bauli vesti sparse, sulla scrivania cianfrusaglie varie
tra cui spiccava una macchina da scrivere che strideva tra tutto
quell’abbandono, urlando un’appartenenza cristallina e fluente.
Dov’è, Holmes?
Un
richiamo che vorticava nel pulviscolo chiaro, impercettibile ma sonante, tale
da provocare un dissipato senso di manchevolezza mai provato prima.
La
pipa borbottava sprazzi di cenere, autoritaria, imperiosa, riflesso iridescente
della presenza-assenza di Sherlock, coricato supino su un immenso tappeto che
lo faceva sembrare un quadro astratto, etereo nella sua inquisitoria
inesplicabilità, temerario nel suo abbandono sfrontato.
C’è davvero, re delle ambiguità?
Avrebbe
risposto di no, se solo fosse riuscito a ritrovare la sua voce, scomparsa tra
il cielo plumbeo e le memorie di passanti sconosciuti.
Mrs.
Hudson, a quella taciturnità tutt’altro che improvvisa, aveva una risposta più
che mai esaustiva: «È semplicemente uno dei suoi momenti discontinui di
riflessione.»
Se
avesse saputo…
Picchiettando
le dita sul panciotto slacciato emise uno strano singulto che si perpetrò in
una risata, insensata e folle, quasi isterica per la sua sfumatura stonata e
discordante. Quello, l’unico modo per liberarsi dell’ansietà pretenziosa che si
cibava del suo organismo: spietata, quasi assassina.
Lui,
che degli assassini faceva un gioco. Lui, che dei loro abiti fiutava il
peccato. Lui, che era nato per scovare il rimorso e la vendetta. Lui, che si
lasciava andare per la cosa più immensa e persa mai esplorata.
Un’altra
risata.
Ridicolo,
come pesce amante d’aquila.
L’amore
non era fatto per gli investigatori, poiché sporca la mente in consapevolezze
rosate, rende fuoco qualsiasi ghiaccio, intacca le sinapsi promettendo sorrisi
estatici, trasforma l’ardore della conoscenza in vitalità liquida, esplode in
congiuntivi indecisi, lava via il masochismo, sfavilla di illogicità
inaccettabile, distrae dal pensiero della
morte.
L’amore
non era semplicemente fatto per Sherlock Holmes.
Ruota il polso destro di 90°, piega la
gamba sinistra e fissa a terra la destra.
Schiena debole, ma non c’è pericolo: la
caduta non può far più male del (dis)incanto.
Un
secondo ed era su, lo sguardo che tornava orizzontale e la voglia di continuare
a guardare il buio in verticale. Un respiro profondo, le gambe dolevano
assuefatte d’inerzia, un grido primitivo che aspettava il via libera. Ma tutto
era costretto nel caos, non c’era ordine neppure nel turbamento.
Avanzò
lento, vagando tra il disordine che gli metteva una strana calma trasognata,
come l’istante prima del salto nel vuoto, sino a fermarsi di fronte alla
scrivania, le mani poggiate su di essa quasi fosse barca tra le intemperie del
mare.
Studiò,
piegando il viso, la compostezza imponente della macchina da scrivere,
annusandone il profumo metallico e quello ormai asciutto dell’inchiostro, che
designava un utilizzo lontano dal presente.
Il
presente.
Cos’era,
se non un viaggio interuniversale nei gesti già scoccati nel passato?
Una
dipendenza di congetture e catene, quella della dimensione temporale, da non
lasciare tracce di semplicità.
Giunse
le dita sul naso, strofinandosi poi gli occhi scuri in un gesto di fastidio,
come non volesse più vedere, o osservare, e aggirò il legno, andandosi a posare
sulla seduta in un tonfo trasandato: carta e parole.
Al
suo cospetto, un’enciclopedia di lettere a cui il suo John aveva dedicato ore e
pensieri, in un silenzio lugubre e rilassante.
Scettico,
liberò un tasto che tintinnò riproducendosi sulla filigrana. Il bianco gli
metteva agitazione, e in quel gesto si sentiva quasi libero, o almeno più
libero di un geranio timido braccato in una mano, incapace di respirare.
Gettò
un’occhiata all’orologio da taschino in bilico sulla libreria, e scrisse:
Centosessantotto
ore, diecimilaottanta minuti, seicentoquattromilaottocento secondi.
«John,
torna dentro, la pioggia sta entrando in casa!» fu l’urlo di Mary, nascosta
dietro strati di pareti, a destarlo da quell’immobile torpore che lo aveva
trascinato sull’uscio di casa senza un apparente motivo.
Guardò
l’ora: le sei e quattro di sera, e la pioggia continuava a scrosciare.
Che
fine avrebbero fatto i suoi vestiti fradici?
Avrebbe
preso una febbre, come minimo, ma quello era l’ultimo dei suoi pensieri.
C’era
sangue sulle mani, il sangue di un’intera umanità trucidata, colava tuffandosi
nell’acqua grigia e lucente come perla sporcandogli le scarpe: una visione
talmente cruda da bloccargli il respiro.
Che
fine avrebbe fatto la sua vita?
Un
mucchio di gemiti femminili e inappropriate appartenenze le cui grida d’aiuto
venivano ignorate. Non c’era un senso da inseguire, non c’erano stranezze da
condividere, solo normalità.
Gladstone trotterellò al fianco del padrone,
innalzando lo sguardo verso di lui, che non si accorse minimamente del nuovo
arrivato.
Fuori,
lo spazio lo soffocava. Dentro, la verità lo derideva.
Il
cane guaì, in una richiesta perentoria di attenzioni, ma John rimaneva fermo,
ripetendosi come un mantra ‘Non muoverti’ ‘Non
muoverti. O ti schiacceranno’.
Non
capiva che l’unico modo per sopravvivere era muoversi verso le sue paure?
«Gladstone?» poi, una voce spaesata, come eremita nel
deserto che fa l’amore con una donna per la prima volta, e l’animale scodinzolò
finalmente degno di attenzione.
Watson
si chinò piano, carezzandolo in un gesto calcolato: dalle orecchie alla coda,
dalla coda alle orecchie. Ci metteva così tanta concentrazione da sembrare un
esperimento, o un’operazione chirurgica in cui combattevano la luce e il buio.
Passarono
interi minuti, sino a quando il cane, stanco, scivolò lontano senza sguardo.
John
lo osservò, torvo, andare via.
Poi, l’idea.
«Mary!»
Bentornato, John Hamish Watson. Dove vuole che
la portiamo?
Il
dottore balzò in piedi, gli occhi incandescenti e le vene pulsanti di
irriverente rinascita.
Bentornato,
John Hamish Watson. Vuole davvero vivere?
La
sua donna scese le scale, spaventata da quell’esclamazione che, per l’eccessiva
gioia, era apparsa come una richiesta di soccorso. Si incontrarono sul primo
gradino, John implacabile nella sua effervescenza e Mary dubbiosa di
quell’improvvisa scintilla.
«Porto
fuori il cane.» asserì incapace di rimanere fermo anche solo con la mente.
«M-m-a… ma piove, fa freddo e…»
«Piagnucolava
sull’uscio, dovrà pur uscire, non credi?»
La
giovane annuì inerme, domandandosi come fosse riuscito a tornare così attivo in
quello che era stato un semplice attimo.
«Provo
a passare a casa di un mio amico di studi, oggi è… il
suo compleanno. Non aspettarmi per cena!»
Mary
abbassò gli occhi, osservando quello che in realtà era l’ultimo gradino, per
lei, e capì. Una lacrima le recise una guancia.
«221B,
Baker Street» un sussulto nel pronunciare quelle parole si unì agli zoccoli dei
due cavalli, mentre Gladstone dormicchiava con la
testa poggiata contro un lembo del cappotto di John.
Aveva
preso la carrozza dietro l’angolo di casa sua (loro) con una certa tristezza, quasi paura di star sbagliando
tutto. Cosa sarebbe accaduto? Che ne sarebbe stato della loro ‘relazione
atipica’? E Mary? E il mondo intero…
«Aaaah, cosa ti importa? Sii meno dottore e più uomo!»
sussurrò a se stesso, battendosi una mano sul ginocchio della gamba lesionata.
Appena
arrivarono, la pioggia era talmente fitta da fare della strada un’unica grande
pozzanghera impossibile da scavalcare. Pagò il cocchiere e il cane scodinzolò
fuori correndo al riparo sotto il tetto di casa Holmes, mentre lui stava ben
attento a dove metteva i piedi (e il bastone).
Poggiò
con forza quella terza gamba su un’escrescenza del terreno invisibile fino a
quel momento, e cadde rovinosamente su un fianco gemendo per il dolore. La
gravità lo aveva nuovamente messo alla prova.
Si
rialzò con fatica, arrivando finalmente di fronte all’entrata: una porta e
l’inquietudine, a dividerli.
Deja vu.
Ma
chi era il cattivo, ora?
E
di chi la morte apparente?
Forse, di entrambi.
Quando
entrò, Mrs. Hudson fu più affettuosa del solito, quasi avesse sentito anch’ella
la mancanza di quell’uomo così attraente e limpido.
«Avverto
il signor Holmes?»
«No,
non si preoccupi, faccio da solo» annuì poco convinto incamminandosi e
lasciando Gladstone alle attenzioni della domestica.
La
sicurezza di prima: svanita.
La
voglia di vederlo: all’apice.
La
paura di ciò che sarebbe accaduto: curiosa.
La
possibilità di un ritorno a casa: inappropriata e ignorata.
Bussò
due volte, di Holmes però nessuna traccia. Si decise, così, ad abbandonare le
buone maniere e spalancare la porta.
Sul
viso, un’espressione di disgusto causata dal cattivo odore e dal disordine
disseminato ovunque.
«Si
è fatto male?» un applauso, Holmes, è la sua voce quella che sentiamo?
John
arrestò la leggera avanzata, direzionando il capo verso la causa dei suoi
malori: i capelli gli ricadevano ai lati del viso in un corollario scuro e
affascinante, la barba era più spessa del solito, la camicia sbottonata e ormai
solo vagamente bianca, il resto del busto nascosto dal mobile.
Possibile
fosse diventato più bello? Era così… animalesco.
«Ci
sarà un livido domattina» e sarà lei a leccarmelo via?
Notò,
allora, la macchina da scrivere sotto le sue mani, e sorrise beffardo
leggermente provato da quel particolare.
«Da
quando scrive?»
«Da
quando lei ha deciso di non farlo più qui» atono, stanco, quasi un mendicante
di parole che non trova se stesso, né ciò che era stato.
John
rimase interdetto da quella frase così esplicita, scivolando piano dietro le
spalle del suo compagno.
«Chi
è, ora, ad aver perso lo spirito?»giocò posando le mani sulle spalle
dell’investigatore che, prontamente, chiuse gli occhi appagato da quel tocco
maschile e così suo.
Sapevano
entrambi perché Watson fosse lì, quello era solo un ritardare il tutto, un
godimento effimero a cui presto si sarebbero donati, dipendenti.
Sfruttare la precarietà della sedia
affinché sia a mio vantaggio.
Portare la mano sinistra dietro lo
schienale, poggiarsi con tutta la (poca) forza rimasta, alzarsi di scatto e lasciarla
cadere.
Dilatare le gambe a bloccare le sue
ginocchia, le dita (oh, sì) sul collo: oppone resistenza. Almeno, ha uno spirito
di conservazione.
Bloccargli la testa contro il
tendaggio, premere il bacino contro il suo e…
«Chi
è ad aver perso la prontezza di riflessi?» ansimò sulla bocca di Watson,
braccato sotto il peso dell’uomo che ghignò, canzonandolo.
«Oh,
Holmes» sospirò John, quasi debole.
«Sua
moglie?» domandò, cinico, per non appigliarsi a quel sospiro così piacevole…
«
È davvero di lei che vuole sapere?»
Holmes
rise, a pieni polmoni, incredibilmente e schifosamente…
felice.
«No»
deciso e imperturbabile, si avventò sull’ugola del dottore lappando lento e
suadente il pomo d’Adamo che per anni gli aveva stuzzicato la fantasia.
«La
sua solita perversione» constatò John, lasciandosi amare senza nessuna
resistenza.
«Non
è per questo che la eccito?» ironizzò sbottonandone il cappotto con una
destrezza impertinente e lesta.
Giù,
scivolarono stoffe su stoffe, facendo da culla ai loro due corpi incapaci di
abbandonarsi al freddo della solitudine. Carne e passione, viscerale e
istintiva, agitava le membra in amori gentili e inenarrabili miti nascosti tra
le pieghe di tombe celesti.
Rotolavano
ridendo come bambini che non possedevano nulla di infantile o ingenuo,
collaborando con quella complicità sbocciata anni addietro senza spiegazioni:
naturale, come conchiglia sulla battigia bagnata. Singolare, come lacrime nella
morte.
Si
unì ciò che non era mai riuscito ad unirsi con le semplici parole, crebbe
simile a fuoco ogni occhiata celata perfino a se stessi, rinacque la voglia di
imperversare sul mondo, toccò il cielo ogni urlo sospirato e languido, lasciò
alla realtà ciò che l’immaginazione rendeva sogno incastrato tra il non potendo
e il non dormendo, si disarmò ogni costrizione e dolore liberando semplice,
semplicissima magia secolare.
Dov’è
ora la sua tomba, Holmes? Nel ghiaccio, o nel fuoco?
Dov’è
ora la sua paura, Watson? Nella ragione, o nel torto?
«Centosessantotto
ore, diecimilaottanta minuti, seicentoquattromilaottocento secondi contro centoventi
minuti e novemila secondi.» viaggiò Sherlock con la matematica, mentre sotto di
lui il petto di John si alzava e abbassava irregolare sotto l’effetto di tutto
quella partecipazione.
«Non
è che una notte. La notte» sospirò il dottore, affondando il viso tra le
clavicole del suo amante.
«Non
è che un inizio. L’inizio» sorrise Holmes, pronto a piangere per quella
sicurezza che nuotava impavida nelle vene.
Ormai
c’è più spazio per voi che per il mondo, miei cari.