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Autore: Elos    08/01/2012    6 recensioni
"- Vorresti venire al ballo con me?
Angela Abygaile Glancenspark alzò gli occhi dal corposo mattone del
De inanibus et vanis incantamentis e fissò la forma sfocata che aveva di fronte con una dose equamente suddivisa di notevole perplessità e vago allarme. Aprì bocca, la richiuse, e alla fine se ne uscì fuori con un poco ponderato:
- Uh? [...]

A tredici giorni dal Ballo del Ceppo, i guai per trovare qualcuno con cui andare puoi averceli anche se non ti chiami Harry Potter.
Legato all'universo di Prima di King's Cross.
Genere: Commedia, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Prima di King's Cross'
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Capitolo 3
L'ultima grande avventura




Era in piedi sui gradoni dello stadio di Quidditch ed aspettava che il Campione del Tremaghi uscisse dal labirinto della Terza Prova.
Era una bellissima serata di inizio estate e tutti erano felici ed eccitati; le bandiere che sventolavano dagli spalti avevano i mille colori di una primavera fiorita, ed era come essere tornati nella Sala Grande la sera del Ballo del Ceppo, così, con un'ondata di stoffe a danzare nel vento. Quando in un lampo di luce Harry Potter e Cedric Diggory riapparvero proprio davanti alla tribuna dei giudici, tutto lo stadio esplose in un enorme applauso. Angie sentì Clare strillare il nome di Diggory, alla sua destra, e le fanfare della banda attaccare a suonare; si alzò in piedi e Amelia brontolò:
- Io avevo puntato venti Galeoni sulla Delacour...
Nel mezzo di quel caos festoso la consapevolezza che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato aveva raggiunto lei e tutti gli altri solo gradualmente: quando Cedric Diggory non si era alzato in piedi, quando Harry Potter era strisciato goffamente verso di lui, quando qualcuno era scoppiato in lacrime, giù nello stadio, qualcuno che era abbastanza vicino ai due Campioni da vederli bene...

Era nel soggiorno della sua casa nel Somerset.
Suo padre stava versando ricordi argentati nel Pensatoio di famiglia: l'oro e gli smalti della coppa intarsiata sembravano scintillare nel riflesso come una torcia accesa.
- Devi andare via. - le aveva detto.
Angie aveva paura di andare via. Angie non voleva lasciare la sua casa. Angie non voleva lasciare la sua piccola, ostinata madre, Angie non voleva lasciare suo padre. Angie non voleva rischiare di diventare tutto quel che sarebbe rimasto di Hyerolfus Glacenspark e di Ellen Baldwin.
Ma:
- Preferisco saperti al sicuro. - le aveva detto suo padre, ancora. - Ho bisogno di saperti al sicuro, Angela.
Hyerolfus ed Ellen desideravano essere certi che qualcosa di loro sarebbe rimasto, in un modo o nell'altro, in una forma o nell'altra. Che non tutto quello che erano stati sarebbe andato perduto.
Angie aveva paura di andare via. Angie aveva paura di lasciarli. Angie aveva ancor più paura di deluderli.
E così, per farli felici, li aveva abbandonati.

Era in una catapecchia nel mezzo del niente.
C'era il verde della primavera fragile e nebbiosa di Scozia, fuori dalla porta, la luce grigia dei primi giorni piovosi di aprile. C'erano le boccette allineate al piano di sopra e le nuvole in corsa sul cielo limpido.
C'erano i Ghermidori dentro la stanza, ed Angie aveva pensato che finiva lì e che finiva così, malgrado tutto quel che Hyerolfus aveva desiderato, malgrado tutto quel che lei aveva fatto per accontentarlo. Aveva stretto la bacchetta con le dita che le tremavano ed aveva cercato di ricordarsi almeno un incantesimo che potesse esserle utile, qualsiasi cosa che potesse rallentarli e fermarli e mandarli via: ma poi uno dei Ghermidori aveva riso, ed un altro aveva fatto una battuta oscena. Angie aveva avuto voglia di piangere. Aveva tremato e la bacchetta quasi le era sfuggita dalle mani.
Però c'era sempre suo padre, in un angolo della sua testa, che le diceva di andare via e di salvarsi. C'era il viso di sua madre, da qualche parte lì accanto, e né lei né lui respiravano più, adesso. Angela era tutto quel che c'era. Tutto quel che era rimasto.
- STUPEFICIUM! - aveva strillato. I Ghermidori non dovevano essersi aspettati resistenza: uno di loro era volato via, e gli altri avevano fatto un balzo indietro. Portavano tutti una maschera e un mantello, che non erano quelli dei Mangiamorte, ma ci assomigliavano. Era difficile distinguerli, così, era impossibile vedere le loro espressioni: ma era parso evidente che la reazione di Angie dovesse averli fatti arrabbiare tutti.
Angie aveva fatto per puntare di nuovo la bacchetta, quando un incantesimo lanciato nella sua direzione gliel'aveva fatta saltare via di mano. Si era tirata indietro, le braccia strette attorno al petto e brividi lunghi giù per la schiena, giù per le gambe, tanto forti che non credeva che le ginocchia avrebbero sorretto il suo peso ancora per molto.
Uno dei Ghermidori si era fatto avanti tra gli altri. Angie aveva alzato una mano per difendersi, per respingerlo. Aveva pensato a quel che suo padre e sua madre avrebbero detto, avrebbero pensato, a sapere che il loro sacrificio aveva portato solo a questo: ad una brutta morte in una catapecchia, ad una morte da sola in mezzo al niente. Avrebbe preferito mille volte andarsene con loro. Davanti alla bacchetta puntata si era aspettata che fosse la Cruciatus – l'aveva provata una volta sola proprio agli inizi della guerra, nel caos di una retata ad Hogsmeade, e l'esperienza le aveva sedimentato in profondità una stramaledetta paura – ma la luce sulla punta era stata verdissima.
Le parole erano arrivate come una benedizione – anche se portavano la morte.
- Avada Kedavra!

Era in una...
Era nella catapecchia nel mezzo del niente.
Aveva scoperto di non essersi mai mossa da lì.

Era nella catapecchia nel mezzo del niente, ancora.
I giorni passavano tutti uguali. L'oggi era come il ieri, e non sembrava esserci speranza che il domani sarebbe stato diverso. Il cielo era sempre grigio. L'erba verde era alta e il vento vi sollevava nel mezzo onde d'alta marea, ma i fiori erano solo quelli dell'erica selvatica: duravano a lungo, ma non c'era molto colore, nel mezzo. Aveva cercato di allontanarsi dalla catapecchia ed aveva scoperto di non poterlo fare. Specchiandosi nel lago Angie non vedeva alcun riflesso, solo lo scintillio pallido di quelle che parevano una manciata di lucciole argentate.
I giorni potevano essere molto lunghi, le notti erano lunghissime e tutto rimaneva uguale.
Fino al pomeriggio in cui era arrivato Harry Potter.

Era in una casa scura nel mezzo di Londra.
Non sapeva bene dove fosse e non si era premurata di chiederlo perché non era come se importasse. Non importava. Davvero, non importava. Poteva permettersi di non saperlo.
Aveva Harry Potter –Harry – davanti a sé e gli stava confessando di aver avuto paura, tanta paura, un attimo prima di morire. Aveva tremato e aveva pensato che avrebbe supplicato i Ghermidori di risparmiarla e di non ucciderla e, soprattutto, di non farle del male.
Angie conosceva il suo assassino. Angie ne conosceva il nome, e la faccia, perché la voce che gridato le due parole che avevano tagliato via tutta la sua vita, tutti i milioni di miliardi di possibilità che avrebbe potuto avere davanti negli anni a venire che per lei non sarebbero mai trascorsi, era stata una voce familiare che risvegliava ricordi dei tempi di scuola. Erano stati compagni di classe. Avevano diviso gli ingredienti durante l'ora di Pozioni. Lo ricordava chino con la testa su un banco, rosso in faccia davanti alla McGranitt. Era parte di Hogwarts: ed anche se non erano mai stati veramente amici, persi nel mezzo del caos della scuola, erano stati compagni. Vicini.
Per un po' la voce dell'altro – voce da compagno di scuola, voce d'assassino – era stata l'ossessione dei suoi giorni da spettro: li aveva saturati di rabbia, ed Angie era stata piena di rancore, piena di delusione, piena di tristezza e di rimpianto... Ma aveva avuto tempo per vedere le cose in prospettiva. Aveva avuto molto tempo per perdonare.
Ricordava solo, adesso, che quella voce e quelle due parole le avevano permesso di morire senza violenza e senza sangue, senza dover gridare e piangere e urlare. Era morta in una catapecchia ed era morta da sola – ma non era stata una brutta morte. Il suo trapasso interrotto era arrivato privo di dolore e non era stato come morire veramente, così, più come... più come passare dall'altra parte.
Angie voleva davvero, davvero, davvero riuscire a passare dall'altra parte. Del tutto. Interamente. Stare a questo mondo era bello, ma sapeva che ci doveva essere altro ad aspettarla, dopo – e il suo vero tempo, qui, era finito.
- Anche io ho avuto molta paura di morire... - le stava dicendo Harry - ... e che facesse male. -
Angie se n'era sentita rincuorata.

Era davanti al Memoriale di Hogwarts.
Stava piangendo. Stava piangendo da un po'. Ogni tanto cercava di smettere, di fermare le lacrime, si premeva le mani inconsistenti contro la bocca per tenere dentro i singhiozzi – e si stupiva di poter provare tanto dolore. Non si era aspettata che ce ne fosse, dall'altra parte. Non si era aspettata di poter soffrire anche da morta.
Sulla lapide bianca c'erano una fila di nomi che non conosceva e una fila di nomi che conosceva, e c'era quello del buon professor Lupin da qualche parte lì nel mezzo, quello del professor Piton, meno buono, sicuro, ma il professor Piton!, e poi Anthony Tipperary, nella lista, e Barry Miller e Amelia Hughes, più giù, Amelia Hughes...
Non era giusto che fosse andata così, aveva pensato colma di dolore, non era giusto, non era giusto, non era giusto...

Era sulla riva di un mare grigio, bellissimo e inquieto.
C'era un profluvio di papaveri, drappeggiati sulla scogliera come un manto sontuoso e fiammeggiante, e nel mezzo di tutto quel rosso l'oro dei fiori d'erba medica formavano come un cielo invertito, un cielo in terra, stelle di semi e di verde e di sabbia. Le onde riflettevano le nuvole e il vento e si orlavano di spuma nel punto in cui andavano a spezzarsi sul bagnasciuga.
- Spero che tu non ti offenda, perciò... -aveva detto Angie. - … se dico che vorrei rivederti il più tardi possibile.
Harry le aveva sorriso. Era strano pensare a lui come ad Harry, semplicemente Harry, niente di più che Harry, ma andava bene così. Gli ultimi mesi erano stati strani: era stato come vivere una seconda, mezza, vita. Era stato come avere una possibilità di vedere tutto sotto un'altra luce. In un altro modo.
Nessun rancore, si era detta Angie, aggrappandosi a quel pensiero come ad un'ancora di salvezza. Nessun rimpianto.
- Ci rivediamo a King's Cross, Angie.
A King's Cross, aveva detto lei, sul binario 9 e ¾. Il treno per Hogwarts passava fischiando proprio in quel momento.


Si svegliò nel cortile delle coppiette sotto all'aula di Incantesimi. Doveva essere inverno, perché c'era una nebbia lieve e bianca a coprire in un drappo evanescente tutte le cose, a smussare e ingentilire i contorni antichi delle mura di Hogwarts e a trasformare le colonne del porticato in tronchi scuri di pietra, stranamente alti e lunghi e contorti, che si perdevano verso il cielo grigio. Angie si tirò a sedere e si sistemò distrattamente gli occhiali sul naso.
Le sembrava di aver dormito a lungo: ma, quando cercò di mettersi in piedi, scoprì di non sentirsi né stanca, né indolenzita, né, malgrado la neve spessa, infreddolita. L'aria aveva un buon profumo, lievissimo, che ricordava vagamente cioccolata e vischio: con uno spasmo di nostalgia che parve agitarle le viscere, Angie lo riconobbe come il profumo del Ballo del Ceppo – la torta nei piatti e le decorazioni verdi e odorose appese al soffitto, le fate scintillanti nelle loro sfere di vetro e Kayle Boosworth chino su di lei mentre ballavano, ballavano, ballavano. Si spazzolò i vestiti, una volta in piedi, e si accorse con infinita sorpresa di avere indosso il vestito verde pallido della festa, che, con le sue falde ampie e la sottile filigrana scintillante intessuta nella stoffa, faceva un ben strano contrasto con il cortile spoglio. Alzando la mano per strofinarsi il viso si trovò gli occhiali sul naso, però, e le dita che si fece passare sulla testa incontrarono capelli troppo corti per poter essere intrecciati.
Era come un mosaico di ricordi. Si guardò intorno, e non vide nessuno. Come un mosaico di ricordi fuori posto, i capelli corti dei giorni di scuola e le vesti del Ballo del Ceppo e l'odore e il cortile e la neve bellissima della Hogwarts d'inverno. Non ricordava come fosse arrivata fin lì e si chiese, dubbiosa, se la McGranitt si sarebbe arrabbiata per il ritardo – era lunedì, non era lunedì? I Corvonero avevano due ore di Trasfigurazione al mattino – e se le avrebbero tolto punti per il vestito, perché non era in divisa. Non ricordava di essersi cambiata, ma forse Amelia... forse uno scherzo...
- Ciao.
Colta di sorpresa dalla voce inaspettata, Angie lanciò un gridolino e fece un balzo indietro, girandosi freneticamente per vedere chi aveva parlato: con le mani tese avanti a sé ed un'espressione di scuse sul viso, Barry il Grifondoro ricambiò il suo sguardo.
- Barry...? - bisbigliò lei. Qualcosa nella sua testa l'informò nervosamente che c'era qualcosa di sbagliato nella situazione, ma la maggior parte dei suoi neuroni erano già troppo impegnati a cercare di elaborare una scusa plausibile per la McGranitt.
Il ragazzo le sorrise e ripeté:
- Ciao. - E poi, scuotendo la testa: - Scusa. Non volevo spaventarti.
- Non... non è colpa tua. - Angie si strinse le braccia attorno al petto. Il cortile sembrava più deserto del solito: era una sensazione strana da spiegare, e che aveva a che fare con la nebbia e il silenzio e con la sensazione confusa che non ci fosse nessuno dietro le finestre della classe di Incantesimi, ma proprio nessuno. - Mi hai presa un po' di sorpresa, tutto qui. Sai, uh, sai che ore sono? Credo di essere in ritardo...
Barry la guardò in silenzio per un istante. Angie ebbe l'impressione di vedere qualcosa di incomprensibile passargli fugacemente nel fondo degli occhi – era stata pietà, quella? Pietà? – ma non ebbe il tempo di farsi domande in proposito, prima che Barry le chiedesse:
- Sai come sei arrivata qui, Angie?
Angie realizzò che Barry non l'aveva mai chiamata per nome, prima. Era un pensiero strano. Realizzò anche che c'era qualcosa di bizzarro nella domanda, nello sguardo, nella situazione, ma non riusciva proprio ad afferrare di cosa si trattasse:
- Amelia. - tentò, cautamente. - Uno scherzo...
Barry scosse la testa.
- No?
Barry la guardò.
E improvvisamente tornò tutto: la catapecchia e il Pensatoio e la luce verde, la guerra, fuggire, Harry Potter, ricordi in bottiglia, la ciminiera riflessa nel lago grigio, la voce di suo padre che la pregava di vivere e quelle due parole che l'avevano... l'avevano...
- Cribbio. - esalò. Le passò per la testa, nel mezzo della confusione che sembrava aver annichilito qualunque altro pensiero, che cribbio non era precisamente la parola più adatta a definire il concetto; ma non gliene vennero in mente altre e così lo ripeté: - Cribbio.
Barry le rivolse il più triste dei sorrisi.
- Mi dispiace. - Si passò una mano tra i capelli, goffamente. - Mi dispiace tanto, Angie.
- Questo vuol dire ha funzionato? Voglio dire, il ricordo... Harry... ha funzionato? Sono morta? Ma già mentre lo diceva si rese conto che era la domanda sbagliata. Era già stata morta. Aveva avuto solo bisogno di una spintarella per poter passare del tutto oltre. E poi Angie guardò Barry e si ricordò di aver visto il suo nome sulla pietra del Memoriale, perso nel mezzo di una lista che era sembrata non avere mai fine.
- Oddio... - bisbigliò, lo stomaco e il petto pieni d'un improvviso orrore che non era stato lì nemmeno nell'istante in cui aveva realizzato il proprio stesso trapasso. - Barry. Tu sei morto.
Il sorriso di Barry si fece un po' più ampio. Il ragazzo strisciò un piede per terra, a disagio, ed Angie si accorse per la prima volta che anche lui aveva le vesti con le quali l'aveva visto al Ballo del Ceppo. Il ricordo della serata, bellissimo e lontano come una memoria di un milione di anni prima, portava con sé un carico di nostalgia struggente.
- Già. - replicò lui, scrollando le spalle. - Sono morto da un po'. Ti stavo aspettando.
Gli occhi di Angie si sgranarono:
- Aspettavi me?
- Be', sì. - Barry le rivolse un'occhiata di sottecchi. - C'erano molte persone che volevano venirti... venirti a prendere, ma... ecco, io speravo tanto di rivederti. Di rivederti qui.
La nostalgia in Angie si fece dolore:
- Qui?
- Qui. Prima di andare avanti, capisci? - Barry si esibì in un gesto vago.
- E dove si va, avanti?
Lui le sorrise:
- Possiamo andare a vedere insieme, se vuoi. Quando sei pronta.
Angie si strinse le braccia attorno al petto. La neve nel cortile sembrava vera, e così la brezza, l'odore. I vestiti sotto le sue dita sembravano veri, il lievissimo riflesso color del bronzo nei capelli di Barry sembrava vero: ma non era vero il freddo – che non si sentiva – né la nebbia, troppo lieve, troppo eterea. Si rese conto, tutto ad un tratto, che quel posto era un mosaico di ricordi – tutti i ricordi che voleva avere, di tutti i momenti in cui avrebbe voluto vivere.
Il dolore di tutte le possibilità perdute e irrealizzabili si fece atroce, per un attimo, intollerabile. Non era così che aveva immaginato che sarebbe stata la morte, così piena di mancanze, di cose vuote che nessuno avrebbe mai riempito, posti che non avrebbe mai visto, cose che non avrebbe mai fatto, figli che non avrebbe mai tenuto in braccio. Non si era sposata. Non era stata al fianco di Amelia il giorno del suo matrimonio. Non aveva dato un nipote ad Ellen. Non sarebbe mai entrata alla Gringott, c'era un posto di Spezzaincantesimi che non avrebbe mai avuto il suo nome sopra. Non avrebbe mai visto il tramonto dalla cima di una montagna. Mai fatto un bagno sotto ad una cascata in un posto dove gli alberi erano alti come colonne e verdi come il primo mare dell'alba. Mai diviso odore e sudore, la notte, con qualcuno che avrebbe scelto per sé.
Il dolore di tutte le possibilità perdute e irrealizzabili si fece atroce, per un attimo, intollerabile: ma poi Barry si allungò e le prese la mano, ed anche il dolore parve stemperarsi in quella stretta.
- Mi dispiace. - le disse lui, e si vedeva che gli dispiaceva veramente.
Angie scosse la testa.
- Mi stavi davvero aspettando? - bisbigliò.
Sentiva qualcosa di umido bagnarle il viso: dovevano essere lacrime e – e si poteva piangere, dopo? Dall'altra parte della morte, si poteva provare ancora tutto questo dolore?
Barry le accarezzò le guance con cauta gentilezza, usando una manica per asciugarle, e rispose:
- Ti avevo detto che non mi dispiaceva essere la tua seconda scelta.
E le aveva detto che era bella. Che era felice se lei era felice. Che poteva aspettare. Angie si guardò intorno – fioccava la neve nel cortile, lievissima e impalpabile, eterea come una pioggia di minuscole scintille bianche – e gli strinse la mano tra le proprie. Sotto al porticato si addensavano ombre buie che non sembravano nascondere incubi e paure, nulla che fosse spaventoso: solo troppa malinconia, una lunga scala che saliva verso l'alto, verso le sale di Hogwarts, e l'incognita più grande che si potesse immaginare, lì, in cima agli scalini.
- Credi, uh... credi che potresti baciarmi? - chiese a Barry. - Mi piacerebbe se tu mi baciassi. Adesso. Qui.
Barry parve sorpreso, per un attimo; ma poi tutto il suo viso sembrò trasfigurarsi per la felicità, e quando si chinò su di lei, con le labbra fresche, il respiro tiepido, le guance calde e arrossate, goffo e impacciato ed era bellissimo così, i loro nasi sbatterono l'uno contro l'altro. Angie rise. Alzò la testa per andargli incontro e baciarlo, e gli tenne le mani, perché quello poteva essere il suo ultimo bacio – ed era il primo che dava a Barry, doveva essere una cosa speciale. Quel che restava del dolore sporco delle possibilità perdute si sciolse e scomparve.
Quando fu finita, Barry esitò per un attimo con la fronte contro quella di lei.
- Grazie. - bisbigliò ad occhi chiusi.
Lei scosse la testa:
- Non dirmi grazie.
Barry aprì gli occhi e la guardò. Così da vicino Angie scoprì che aveva degli occhi bellissimi, molto, molto, molto blu. Gli sorrise, e lui ricambiò.
- Vogliamo andare?
Angie annuì:
- Credo di essere pronta.
Si tennero per mano mentre attraversavano il cortile. Angie passò le dita tra le colonne sotto al porticato e non fu stupita quando queste parvero attraversare la pietra senza incontrare resistenza. Sorrise alla vista dell'espressione curiosa di Barry, ma non gli disse niente.
- Sai...? - iniziò lui dopo un attimo di silenzio, il tono incerto. - Boosworth è vivo. Non ha partecipato alla Battaglia. Sta bene.
Angie annuì. L'esitazione di Barry durò più a lungo, e la sua incertezza apparve più evidente, prima che parlasse ancora:
- Anche Singh-Powell è sopravvissuto. Non ha mai preso parte a nessuno dei veri scontri.
Angie ricordò la voce che aveva pronunciato le due parole che avevano posto fine a tutta la sua vita. Irvine Singh-Powell, Tassorosso, quello che nella sua memoria aveva la testa china su un calderone nell'aula di Pozioni o un mantello nero da Ghermidore, indistintamente, passando dall'una all'altra forma senza soluzione di continuità. Ricordò di aver provato rancore, e odio, e di avere desiderato che morisse e soffrisse per quel che le aveva tolto. Ricordò anche di aver provato gratitudine perché quel che le era stato tolto non era stato tutto: aveva potuto morire senza dolore. Morire senza il terrore di una orribile, orribile, ferocissima morte.
- Lo so. - replicò perciò, serenamente. - Neanche il suo nome c'era, sul Memoriale.
Barry esitò:
- Il Memoriale...?
Angie gli strinse la mano e ridacchiò:
- E' una lunga storia.
Le pieghe d'incertezza sulla fronte di Barry si rilassarono:
- Me la racconterai?
Angie aveva già un piede sul primo gradino. La scalinata che si stendeva di fronte a lei, salendo, sembrava non avere fine: ma lei sapeva che doveva essere solo un'impressione, quella, niente di cui avere veramente paura. Niente da temere.
Si girò e sorrise a Barry dagli Occhi Blu, Barry il Grifondoro. Niente da temere. Nessuna possibilità perduta. Tutto quel che aveva potuto fare, lo capì con la mano di lui nella propria, era già stato fatto.
- Suppongo di avere tutto il tempo che occorre per raccontartela bene.


“In fin dei conti, per una mente ben organizzata, la morte non è che una nuova, grande avventura.”







Note della storia: L'8 Gennaio 2011, un'ora prima di mezzanotte, si spegneva mia nonna, la madre di mia madre.
Dal 1929 ad oggi era passata attraverso una lunga guerra, una brutta malattia che nessuno dovrebbe avere mai ed ottant'anni abbondanti di una vita piena, non sempre facile, sempre estremamente attiva. Sperava di morire a pancia piena e di non pesare mai su nessuno in vecchiaia: non è stata accontentata né nell'una, né nell'altra cosa, ma ho la certezza che adesso non se ne sta troppo male, ovunque lei sia, con chiunque lei sia.
Personalmente, avrei voluto pesasse da queste parti un altro po'; ho cominciato a pensare da qualche tempo a questa parte, tuttavia, che la cosa migliore che si possa fare da vivi sia godere di quel che c'è finché ce n'è.

… ad ogni modo, per essere uno che parlava tanto bene dell'ultima, grande avventura, Silente il suo treno l'ha fatto aspettare parecchio a lungo, eh?

Come già accennato nelle Note nel primo capitolo, quest'ultima parte è probabilmente incomprensibile per chiunque non abbia letto Prima di King's Cross: desideravo regalare una conclusione, tuttavia, a tutti coloro che mi hanno lasciato il loro apprezzamento per quella storia, per ringraziarli delle loro meravigliose parole, del loro supporto, della gentilezza dimostrata.
Grazie a tutti voi.

Ne approfitto per segnalare che io e l'amabile dierrevi abbiamo iniziato a Pseudopolis Yard una piccola raccolta ispirata ad uno dei personaggi che più abbiamo amato nelle pagine di Terry Pratchett - e a tutti quelli che abbiamo rimpianto in quelle di J.K.Rowling. Giusto per fare un po' di Pubblicità Progresso!
  
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