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Autore: Guitarist_Inside    09/01/2012    3 recensioni
Eccomi.
Here I am.
Finalmente, potrei aggiungere.
Finalmente posso lasciarmi alle spalle un uragano di fottutissime bugie a cui non appartengo.
Finalmente posso prendere in mano la mia vita.
[...] E quindi, eccomi qui, che non ne posso più, e che cerco di lasciarmi alle spalle tutto ciò, questa terra di false credenze che non crede in me e in cui nemmeno io credo. Anzi, me ne frego altamente, o almeno così tento di fare.
Eccomi qui, dunque, che cerco di scappare da tutto questo, diventato fin troppo opprimente, per provare a trovare quello in cui IO credo.
...Direte che ho fatto una scelta fin troppo drastica, che ho esagerato, che sono pazza, o altre cazzate del genere. Ma voi non siete me. Voi non abitate nei contorti meandri della mia mente. Voi non avete vissuto quello che ho vissuto io. Voi non potete capire assolutamente niente di tutto ciò, quindi non fate i finti saccenti che si prodigano a dire le solite, ennesime, boiate. [...]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Hey!
Tutto bene?
Sono consapevole che anche questa volta ho deluso le aspettative (se ancora sono sopravvissute) di poter postare il capitolo in tempi decenti… Scuola, tempo, salute, PC e ispirazione non mi sono stati favorevoli neanche questa volta, sebbene gran parte del capitolo fosse già stata scritta tempo fa… Poi, aggiungiamoci anche il fatto che la mia ispirazione se ne va in vacanza troppo spesso e la motivazione, se non vede almeno una recensione, è troppo pigra per richiamarla…
Anyway, eccomi qui.
Come sempre ringrazio chi continua a seguire questo mio Sclero Mentale Formato Famiglia TM aka fanfic, ed in particolar modo ShopaHolic, per sostenermi sempre e per recensire puntualmente (?) (vabbè, dato che anch’io sono sempre ritardataria non ho molta voce in capitolo sotto questo punto di vista, mi sa xD) *__*
Okay, vi lascio all’atteso (?) capitolo ora.
Onestamente, ci sono alcuni punti che non mi convincevano troppo (che novità, eh?), ma dato che ero già in enooooorme ritardo alla fine ho deciso di portarlo comunque. Spero di non aver commesso un errore! xD
Fatemi sapere cosa ne pensate! (Se vi fa schifo -spero di no-, se vi piace, se avete consigli, se volete semplicemente dire la vostra, etc…).
See ya! :)






Soundtrack: Somewhere I Belong (Linkin Park)

“I wanna heal, I wanna feel what I thought was never real.
I wanna let go of the pain I've held so long.
(Erase all the pain ‘til it's gone.)
I wanna heal, I wanna feel like I'm close to something real.
I wanna find something I've wanted all along,
somewhere I belong.”
[ Somewhere I Belong– Linkin Park ]


CAPITOLO 4
I wanna find something I've wanted all along…
Somewhere I belong


Come una barca trascinata alla deriva da correnti impetuose, così io vagavo per le vie periferiche di Berkeley, in balìa di mille pensieri indefiniti che si intrecciavano tra loro, senza badare alla destinazione.
A dir la verità, neanche l’avevo, una meta.
Ero uscito da quell’edificio che dovrei chiamare casa, perché mi mancava l’aria: tutt’a un tratto, tra quelle quattro mura, mi ero sentito soffocare, senza un preciso motivo, e così avevo deciso di alzare le chiappe dal mio amato e sgangherato divano e di portarle fuori a fare un giro.
Il sole stava tramontando, ed una leggera brezza rendeva alquanto gradevole l’atmosfera… Perfetto.
Sovrappensiero, imboccai un vicolo, uno di quelli non molto frequentati, ma tuttavia molto utile per evitare un bel tratto di traffico stradale. Non avevo alcuna voglia di vedere gente, in quel momento. Volevo soltanto starmene solo con i miei pensieri, e magari cercare di capirci qualcosa.
Le mie gambe seguivano un tragitto tutto loro, imboccando uno dopo l’altro vie, vicoli e viali, mentre pensavo a tutto, o forse a niente, o forse al tutto e al nulla allo stesso tempo… chi può dirlo con esattezza?
Tuttavia, non lasciavo trasparire alcunché dei contorti discorsi che popolavano la mia mente o della confusione che regnava in me, e camminavo ostentando una sicurezza che, forse, anzi quasi sicuramente, nemmeno avevo.

Tornai, per così dire, sulla Terra, solo quando realizzai di essere giunto al termine di un vicolo cieco: davanti a me vi era soltanto un’anonima palazzina di periferia che si ergeva dubitante al termine di quella strada sconosciuta. Sbuffai e, tirando un calcio ad un sasso che si era casualmente ritrovato davanti alla punta del mio piede, feci dietrofront, seguendo distrattamente i rimbalzi di quella piccola pietra; questa finì la sua corsa con un rumore sordo e metallico, scontrandosi contro un bidone, dal quale corse via miagolando un gattino dall’aria spaurita, che riuscì a strapparmi un involontario, piccolo, sorriso.
– Hey, micio. – bisbigliai sovrappensiero.
Il piccolo felino tentennò qualche secondo, per poi voltarsi verso di me, tentando di nascondere le titubanze e mostrare uno sguardo fiero, scrutandomi.
Sorrisi di nuovo. Da un lato quel gatto mi provocava una sorta di sentimento di compassione, ma dall’altra si era guadagnato la mia attenzione e il mio rispetto. Già, perché pur essendo piccolo e spaesato, aveva fegato. Sapeva affrontare la vita, sapeva rialzarsi dopo essere caduto, combatteva con le difficoltà quotidiane, basandosi solamente sulle proprie forze. Mi fece venire in mente qualcuno, quel gatto. Forse me stesso…
Fissai quegli occhietti acuti ancora per qualche secondo, e per un attimo mi parve di vedere riflesso il verde delle mie iridi in quello delle sue.
Osservai quel riflesso come se volessi trovarvi una qualche risposta ai mille punti di domanda che albergavano in me, ma tutto ciò che ricevetti in risposta fu un miagolio altrettanto interrogativo.
Sembrava che mi stesse chiedendo cosa stessi cercando, perché lo stessi cercando, perché mi ostinavo in quella ricerca così difficile.
Distolsi lo sguardo, alzando impercettibilmente le spalle. La verità era che nemmeno io sapevo darmi delle risposte chiare.
Rimasi lì ancora qualche istante, prima di continuare per la mia strada.
Inoltre, riflettendo tra me e me, constatai che quel gatto, che dopo un altro miagolio posto a mo’ di saluto s’era voltato e si era diretto nuovamente, con passo sicuro, verso il bidone per procacciarsi la cena, meritava certamente più stima di molta fottutissima gente che, credendosi chissà chi, gironzolava stupidamente per le strade del mondo. Gente che magari pretendeva anche, per sentirsi importante o vattelappesca per cosa, di creare qualsivoglia difficoltà da poter porre nel bel mezzo del tuo già difficile percorso; e quindi, per poter superare tali impedimenti, ti trovavi obbligato ad affrontare il dolore, a dover sopportare innumerevoli ferite, che talvolta parevano non guarire mai completamente. Ferite che, però, per quanto dolorose, dovevi trovare la forza di affrontare, per non rimanerne vittima per sempre; e potevi esplodere, fuggire, lasciarti tutto alle spalle e poi rielaborarlo quando sapevi di averne la capacità, per poter ritrovare te stesso, per poter sentire ancora ciò che ti circondava, per poter trovare un posto a cui sentivi di appartenere.
Ecco, forse quella poteva avvicinarsi, almeno vagamente, alla risposta che stavo cercando una manciata di secondi prima.

Perso in tali riflessioni, dopo 100 o 200 metri, o forse anche 300 (non potrei dirlo con precisione in quanto non avevo certo intenzione di perder tempo a misurare la distanza che avevo percorso mentre pensavo ad altro), mi imbattei in una fermata dell’autobus. O forse sarebbe più corretto dire che questa si imbatté in me, in quanto ci andai praticamente a sbattere contro.
Imprecai, maledicendo chi avesse deciso di piazzare proprio lì quel palo, e al contempo anche me stesso ed il mio cervello che non era riuscito a interrompere per un attimo il corso travolgente dei miei pensieri per farmela notare in tempo.
Mentre stavo per riavviarmi, però, la mia attenzione fu attirata dallo stridore con cui, proprio a quella dannata fermata, si arrestò un bus, uno di quelli vecchi che relegano alle zone più periferiche. Lo squadrai un attimo, notando che era anche uno di quelli che portano alla Baia, vicino al mare, insomma. Feci un rapido calcolo, prima di decidere di salire anch’io: in fondo, non mi sarebbe affatto dispiaciuto andare da quelle parti…
Con un acuto cigolio le porte si chiusero e un altro stridio annunciò la partenza dell’autobus, che iniziò a barcamenarsi tra vicoli che non ricordavo di aver percorso.
Alla prima fermata, per la fortuna dei miei nervi, scese una donna trascinata dal proprio cane che aveva cominciato ad abbaiare insopportabilmente per tutto il tragitto mettendo a dura prova il mio self-control. Tuttavia, in cambio salirono quattro ragazzi appartenenti alla categoria di quei gradassi che ti fanno prudere le mani soltanto alla loro vista o dopo aver udito un paio di loro parole sputacchiate.
Tentai di far finta di nulla, concentrandomi su un punto imprecisato oltre l’orizzonte; poi presi le cuffie, le indossai e alzai il volume al massimo possibile, scegliendo un brano a caso.
Non avevo voglia di litigare, quel giorno avevo voglia di un po’ di quella tranquillità che da tempo non riuscivo più a trovare. Ma anche quel giorno, a confermare la consuetudine, qualcosa doveva riportarmi alla realtà caotica e burrascosa che mi circondava, mi assediava, in una morsa continua ed opprimente.
Quella volta, furono proprio quei teppistelli da quattro soldi a dare a quel qualcosa il pretesto.
Non so per quale sventurato motivo scelsero me come obiettivo delle loro stupide provocazioni, ma quello che so è che fu una scelta completamente sbagliata.
Non stuzzicare il drago che dorme.
Loro, però, decisero di stuzzicarlo.
Uno di loro, spintonando la folla, mi urtò, tutt’altro che senza farlo apposta. Contai mentalmente fino a 10, rimettendomi nella posizione iniziale e continuando a fissare fuori dal finestrino.
Nel frattempo, un altro compare pensò bene di mettere nuovamente a prova i miei nervi avvicinandosi a me, con un mozzicone ancora acceso, dicendo chissà quali insulti e porcherie (che la musica che usciva urlando dalle mie cuffie contrastò egregiamente), per fare il gradasso e credersi fottutamente figo, probabilmente. Ovviamente lo ignorai bellamente, ancora una volta.
Ad un certo punto, però, l’autobus si arrestò di colpo con una frenata a dir poco brusca, e questo gran pezzo di idiota mi precipitò letteralmente addosso, facendo cadere me e le mie cuffie, mentre quel suo maledettissimo mozzicone andò a finire proprio sulla mia dannatissima mano; intanto gli altri tre deficienti ridevano a crepapelle. Un’occhiataccia ben piazzata riuscì però a fargli congelare il sorriso sguaiato dalle labbra.

Dopo anni di esperienza, e dopo troppe ferite subìte dalla mia anima (alcune cicatrizzate, altre non ancora), avevo imparato come trattare con certa gente, come farmi valere, come paralizzare vari tipi di persone, senza cadere vittima delle loro trappole.
Inoltre, anche se guardandomi dall’apparenza nessuno l’avrebbe mai detto, all’occorrenza avevo imparato a padroneggiare e utilizzare abbastanza bene alcune arti marziali, e, soprattutto, i miei amati tonfa…
Benedetto il giorno in cui tre anni e mezzo prima, durante il mio periodo di vita in Giappone, mi ci imbattei quasi per caso, cercando di diventare più forte per sconfiggere il dolore che sanguinava dalla mia anima. E benedetto il giorno in cui mi ci appassionai e decisi di imparare tale disciplina. Non era stato affatto semplice, avevo dovuto affrontare grandi fatiche, e l’allenamento del mio Sensei, il mio Maestro, era alquanto rigido: non potevo permettermi distrazioni, né tentennamenti, né tantomeno di eseguire qualche mossa in modo approssimativo.
Inizialmente ero restio, ma poi compresi che se volevo veramente fare qualcosa, dovevo farla veramente bene, altrimenti potevo anche lasciar perdere direttamente, il Sensei aveva ragione. Nelle arti marziali come nella vita. Anzi, soprattutto nella vita.
E tutto questo aveva fatto sì che imparassi tante cose, più di quanto avessi potuto immaginare.
Avevo imparato ad essere meno dannatamente impulsivo.
Avevo imparato a non cedere e a non crollare così facilmente sotto il peso di mille cicatrici causatemi da vari fantasmi del passato.
Avevo imparato a sopportare il dolore e la rabbia.
Avevo imparato come concentrare la mia energia interna, come guidarla, localizzarla, usarla, combinarla con quella esterna.
Avevo imparato ad osservare, riflettere, valutare chi mi stava davanti, scoprirne i punti deboli ed pensare a come usarli a mio favore.
Avevo imparato a gestire le mie emozioni, o almeno provare a farlo.
Avevo imparato a non far trasparire i miei sentimenti ed i miei pensieri, qualora l’avessi voluto.
Avevo imparato cosa significasse avere il cosiddetto sangue freddo, e a tentare di mantenerlo.
Avevo imparato, in varie situazioni, a non farmi prendere dal panico.
Avevo imparato a concentrarmi davvero.
Avevo imparato il significato del termine risolutezza.
Avevo imparato a unire l’intelligenza teorica a quella pratica.
Avevo imparato a riflettere, concentrarmi e gestire ciò che avevo dentro.
Avevo imparato ottime tecniche di attacco e difesa.
E avevo anche imparato un ottimo modo per scaricare la tensione.
Già, perché oltre che risorsa di combattimento, per me era anche un valido sistema per sfogarmi, per liberarmi di tutte le millemila tensioni accumulate durante la giornata (se non durante la mia intera vita), per dare sfogo al rancore e alla sofferenza che tentavano in ogni modo di corrodermi, che altrimenti mi avrebbero portato ad esplodere, o far esplodere qualcuno, o ad entrambe le cose, chi può dirlo.
Dopo la musica e il mio adorato basso, infatti, i tonfa per me rappresentavano il mezzo per poter trovare qualche attimo di quella tranquillità così fottutamente agognata, trasformando le mie collere e ogni mio dannato sentimento in qualcosa che potevo considerare positivo.

Ad ogni modo, in quel momento la musica non bastava più a tenere a freno la mia irritazione.
Già facevo fatica ad imbrigliare la rabbia che derivava da certi miei pensieri e da certi miei ricordi. Quei ragazzi erano stati la cosiddetta goccia che fa traboccare il vaso.
Quei quattro idioti dovevano solo ringraziare che non mi fossi portato dietro anche i tonfa, se no avrebbero seriamente fatto una brutta fine. Tuttavia, non avevo intenzione di “picchiarli a morte”, per così dire. Non ne sarebbe certo valsa la pena, e poi non è che io fossi un fottuto violento, sadico, o che so io.
Ero soltanto un dannatissimo ragazzo incazzato, la cui incazzatura era stata ulteriormente provocata.
Comunque, non è che feci granché: bastò poco per far capire loro che non conveniva continuare oltre e farli battere in ritirata.
Una parte di me quasi se ne dispiacque: era da parecchio tempo che non facevo un scontro come si deve. Era da molto che non trovavo qualcuno abbastanza degno da mettermi in difficoltà, da farmi pensare a qualche mossa più complessa, più potente, più ragionata; non sapevo bene neanch’io come spiegarlo, ma sapevo riconoscerlo da quello che mi faceva sentire dentro di me… ed era passato molto tempo da quando qualcuno mi aveva spinto a fare qualcosa che mi facesse provare sensazioni simili.
Con questo non è che fossi una sottospecie di snob, quelli non li sopportavo neanch’io: come diceva saggiamente anche il Sensei, chi si atteggia troppo alla fine non vale un emerito nulla.
Soltanto mi disgustava tutta quella gente che si serviva solo della forza bruta, per infidi scopi per di più, senza usare ragionamento e tecnica.
Quei quattro gradassi facevano appunto parte di quella categoria, ed era stato relativamente facile avere la meglio su di loro. Inoltre erano anche della specie di quegli idioti che fanno gruppo credendosi fighi e forti, quando in realtà sono solo deboli, rozze e codarde pecore che mettono fuori uso il proprio cervello e che hanno bisogno di unirsi in branco per far valere la propria forza, a discapito soprattutto di gente che loro ritengono più debole.
Avevo sempre odiato quel tipo di stronzi.

Mentre quei quattro idioti scendevano dall’autobus la fermata seguente, mi risistemai le cuffie e, ostentando un’aria quanto più impassibile riuscissi a creare, scelsi una canzone dal ritmo incalzante e dalla voce graffiante, un brano che mi rispecchiava. Mi lasciai travolgere dal ritmo e dalle parole, ritrovandomi in esse e sentendomi finalmente compreso, guardando fuori dal finestrino mentre il mezzo riprendeva la sua dissestata corsa.
Una quindicina di minuti dopo scesi anch’io, dirigendomi verso quel punto della Baia dove ero solito recarmi in solitudine a pensare. Era come un mio rifugio dove isolarmi dal caos e riflettere, seduto su uno scoglio o qualcosa e fissando l’orizzonte, il cielo, il mare e le luci in lontananza, che rappresentavano il resto del mondo alla giusta distanza per sembrare incantevole. In poche parole, era uno dei pochi luoghi a cui sentivo di appartenere.

Percorsi una strada silenziosa illuminata appena da tiepidi raggi del sole, che di lì a poco sarebbe sparito dietro l’orizzonte. Un sorriso impercettibile si disegnò sulle mie labbra.
Sorriso che, però, ebbe una brave durata, in quanto svanì non appena notai, in lontananza, un piccolo fottuto mucchio di persone sedute proprio accanto al posto dove solevo andare io.
I miei passi si fecero più veloci e pesanti, mentre la mia espressione assumeva una sfumatura ostile.
Avvicinandomi, constatai che si trattava di due ragazzi e una ragazza, con addosso alcuni di quei vestiti alla moda firmati che costano ognuno un fottuto occhio della testa. Ai loro piedi avevano qualche bottiglia di qualche costoso vino che avevano preso in qualche fottutissimo e costosissimo posto. Il vento portò alle mie orecchie degli stralci dei loro discorsi e la loro voce dal tono presuntuoso.
Perfetto, ci mancavano soltanto delle pecore conformate al sistema che si atteggiavano credendosi chissà chi, dei fighetti figli di papà, che pensavano di fare i finti trasgressivi sparando boiate, facendo cazzate, fantasticando su qualche porcata da fare sbronzi (dato che da sobri probabilmente non ne avrebbero mai avuto il coraggio) e ubriacandosi con vini dai prezzi assurdi, imboscandosi e profanando un luogo isolato e quasi sconosciuto ai più, il mio luogo, che mi chiedevo come diavolo avessero trovato!
Indubbiamente, erano le persone sbagliate nel momento e nel posto sbagliato.
Mi avvicinai ulteriormente, e bastò un’occhiata gelida per far capire a quel piccolo gruppetto che forse sarebbe stato meglio per loro cercarsi un altro posto per continuare. Con un ghigno soddisfatto, li vidi alzarsi ed andarsene, fin quando non sparirono dietro alla prima curva; quindi, mi avviai verso la riva, sedendomi poi dove mi mettevo solitamente, ovvero su uno scoglio solitario che trovavo particolarmente comodo e ben posizionato rispetto al paesaggio e all’acqua.
Eccolo.
Il mio posto.
Il posto che rappresentava ciò che cercavo da una vita, un posto a cui sentivo di appartenere.
Il posto in cui mi sentivo in pace. Soltanto io, il crepuscolo, il mare, il mondo in lontananza.
Il posto in cui, tuttavia, mi sentivo meno solo, meno isolato, meno vuoto di quanto mi sentissi prima.
Il posto in cui riuscivo a estraniarmi, almeno per un momento, dall’incalzante, caotica e tempestosa realtà che mi assediava.
Il posto in cui riuscivo a concentrarmi, a pensare, a riflettere sulla mia vita (o almeno per quanto ne fossi in grado).
Il posto in cui potevo affrontare i demoni del mio passato e del mio presente.
Il posto in cui riuscivo a sfogarmi liberamente.
Il posto in cui avvertivo la speranza di poter guarire da quelle mille ferite che stentavano a cicatrizzare definitivamente.
Il posto dove sentivo di poter almeno tentare di scacciare tutto il dolore che avevo provato così a lungo.
Il posto in cui riuscivo a sentirmi vicino a qualcosa di reale, ma allo stesso tempo avvertivo un’atmosfera quasi irreale, azzarderei dire mistica.
Respirai profondamente e a lungo la brezza marina, chiudendo gli occhi, cercando un po’ di tranquillità. Poi li riaprii e fissai il Golden Gate, in lontananza sulla mia sinistra, perdendomi tra i miei ricordi.

   
 
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