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Autore: Smollo05    10/01/2012    7 recensioni
Gli ultimi bastioni di Dracma sono caduti, la città non è altro che una polveriera di odio e cenere. Una ragazza è in fuga, tra le braccia stringe un fagotto, un bambino di poche settimane. Una speranza per il futuro.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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And I don’t want the world to see me,
‘cause I don’t think they’d understand,
Where everything is made to be broken,
I just want you to know who I am
Iris
 

Scappare è più semplice se non si ci lascia nulla alle spalle. Gli ultimi bastioni di Dracma erano caduti e la città non era altro che una polveriera di odio e cenere. E di nulla. Potevano solo scappare, oltrepassare le mura di cinta e cercare riparo nei boschi. In altri tempi, in altri luoghi la fuga le sarebbe sembrato un atto vile, deplorevole, ma quella sera non c’era spazio per l’onore, se mai ce ne fosse stato. La giovane si tirò il cappuccio sulla testa e percorse il vicolo, nascondendosi nella penombra. Si fece strada tra le macerie, cercando di non attirare l’attenzione, ma nessuno fece caso a lei. Era solo uno dei mille volti carichi di sofferenza che popolavano una notte,forse l’ultima, di quella città. Strinse di più il fagotto tra le braccia, era caldo e morbido. “Ce la faremo, vedrai.”, sussurrò più a se stessa che al neonato. Le venne da pensare a come la vita di quella piccola creatura fosse stata distrutta, prima ancora di cominciare, così come era stata completamente distrutta la porta attraverso la quale stavano fuggendo.Aveva poco tempo prima che i soldati si accorgessero dell’omicidio, prima che scoprissero la loro fuga. E doveva bastarle per raggiungere un posto sicuro, almeno per quella notte. Così correva, concentrando l’attenzione sui battici aritmici del suo cuore. Doveva bastarle, doveva occupare la mente, doveva riuscire a dominare le sue paure, la sua rabbia. Eppure eccole lì, ad ogni battito di ciglia, davanti ai suoi occhi scorrono immagini di morte e distruzione : i soldati che bruciano la casa di suo padre, il sangue, i cadaveri. Una freccia le sibilò a pochi centimetri dall’orecchio, riscuotendola. Ora percepiva distintamente l’odore acre di morte emanato dagli inseguitori, era talmente intenso da irritale la gola. Senti l’adrenalina propagarsi nel sangue, mentre aumentava la falcata. “Manca poco”. Doveva farcela, non poteva fallire. Non poteva e non voleva. Altre frecce la mancarono per un soffio. “E’ tutto qui quello che sanno fare gli arcieri della Fratellanza?”li schernì, ma le parole le morirono in gola. Era sull’orlo di un precipizio, quello che la sua gente chiamava Lètophan in onore del dio del Sole, si augurò che per lei non rappresentasse un tramonto. Si voltò a fronteggiare i soldati, valutando l’ipotesi di combattere. Accarezzò la spada che le pendeva al fianco:forse era giunto il momento di usarla. Vide le torce, si stavano avvicinando. Prese a contarle freneticamente. Uno, due, tre, sei, dieci. Aveva davvero sperato di riuscire proteggere le loro vite? Deglutì. Non poteva salvarsi, non poteva salvarlo. Era finita. Sentì il dolore, prima ancora di vedere la freccia conficcarsi nella pelle. Le gambe cedettero e si ritrovò in ginocchio, inerme. Un bersaglio troppo facile. Poteva sentirli sghignazzare nel folto,scommettere sulla precisione del proprio tiro. Non l’avrebbero uccisa subito. Ricacciò indietro un conato di vomito. C’era un modo per evitare tutto questo? La ragazza pregò gli dei del cielo di proteggerla e gli dei degli inferi di accoglierla,nel caso i primi avessero fallito, poi fece probabilmente la cosa più stupida e coraggiosa di tutta la sua vita.
 
Tariq Shirvanshir attendeva da molto tempo un erede. Come per molto tempo avevano atteso suo padre e suo nonno prima di lui. E come loro, egli avrebbe dato a suo figlio il nome della Grande Montagna, perché le spalle possano crescere forti, e una volta diventare adulte, sopportare il peso del comando. Potete dunque immaginare il colpo che venne al vecchio quando, per giunta morendo di parto, la moglie mise alla luce una bambina. Il caso volle che l’uomo fosse lontano da casa al momento della nascita e che quindi la solerte nutrice avesse già provveduto al “battesimo”, facendola entrare a pieno titolo nella comunità:il padre non aveva più il diritto di lasciarla a morire. Così il diffidente Tariq, già piuttosto avanti negli anni, fu costretto a sobbarcarsi la responsabilità di un fardello che non desiderava affatto. Scelse per lei il nome “Aidha”, “colei che parte, ma non fa ritorno”, sperava fosse di buon auspicio, almeno per lui. La odiava, ne provava ribrezzo, ma era conscio che non poteva liberarsene perché anche nelle sue vene scorreva il sangue della sua gente, non poteva permettere che venisse sprecata anche una sola goccia di sangue puro. Così attese per anni il momento propizio. Al compimento del quinto anno di vita della bambina, decise di mettere in atto il proprio piano: l’avrebbe portata nelle Terre Imperiali, dove quelli come loro erano visti con diffidenza e disprezzo. Poteva sopravvivere o morire, da quel momento in poi la cosa non era più affar suo. Dracma Sembrò da subito alla piccola un città fredda e inospitale: la carnagione scura e gli occhi viola-azzurro la etichettavano irrimediabilmente come una straniera, delle terre al di là del fiume. Persona da evitare. La gente aveva il timore di posare lo sguardo per più di qualche secondo su di lei, e quelle occhiate erano miste di disgusto e paura. Avevano occhi in tutto e per tutto simili a i suoi, camminavano come lei, avevano bocche, nasi, orecchie, erano impauriti proprio come lo era lei. Eppure erano diversi, si consideravano diversi, lo percepiva nel disagio con cui la aggiravano, quasi fosse un  cane randagio. Nessuno le allungò neppure un tozzo di pane, quel giorno e fu lo stesso per quello a venire. La fame la costrinse a girare per i vicoli più sudici, per i sobborghi, ma ad ogni focolare acceso corrispondeva un porta chiusa. A doppia mandata. Spaventata, stanca e affamata, Aidha si strinse forte nel logoro mantello e decise di passare la notte in una grande piazza, cercando riparo sotto le fronde di una grande quercia. Dal suo giaciglio improvvisato pregò, come le aveva insegnato suo padre, il Dio Daren il Distruttore, il protettore della sua gente. Forse avrebbe protetto anche lei, forse avrebbe scacciato le nubi e lasciato le stelle a farle compagnia. Perché quello che Aidha teme più di ogni altra cosa è la solitudine.

La svegliarono i raggi del sole che filtravano tra le foglie, la luce era così forte da costringerla a proteggersi gli occhi con le mani. “Ti sei svegliata finalmente!”,non seppe riconoscere la voce. Istintivamente si tirò a sedere per fronteggiare lo sconosciuto, poggiando le spalle contro l’albero per farsi forza. Davanti a lei c’era un uomo che le sorrideva gioviale. Portava i lunghi capelli raccolti in una coda che gli ricadeva sulle spalle, la pelle era abbronzata e segnata dalle intemperie e faceva a pugni col tessuto broccato delle vesti che indossava. Un mantello, una leggera corazza e, seminascosta dalla stoffa, il fodero decorato di una spada. Era l’abbigliamento di un soldato, e non di uno qualunque. Aidha si chiese ci fosse e , cosa non meno importante, perché stesse rivolgendo la parola proprio a lei. L’uomo continuò imperterrito: “Come ti chiami?”. La bambina si morse la lingua, cosa voleva da lei? L’imbarazzante silenzio venne rotto dal brontolio dello stomaco. Aveva quasi dimenticato di essere affamata. Quasi. Il soldato sorrise davanti al suo imbarazzo e le porse un grosso pezzo di pane, estratto dalla bisaccia. “Su, mangia! Ti farà bene!”. Gli occhi di Aidha guizzavano dal suo volto al cibo che stringeva tra le mani, c’era della gratitudine mista al sospetto nel suo sguardo. “Non l’ho mica avvelenato!” la incoraggiò lui. Timidamente, quasi fosse un rito sacro, la piccola ne staccò un morso. Immediatamente sentì il calore invaderla e la fame placarsi. “Va meglio?”. La bambina fece segno di sì con la testa. “Ottimo!”esclamò. “Io sono Furio”. Furio.Era questo il nome del suo salvatore, non l’avrebbe dimenticato facilmente. “Allora, posso conoscere il tuo nome?”.Aidha si fermò mentre stava per addentare il pane per la quarta volta. Che importanza può avere un nome quando si viene abbandonati? E’ solo l’ennesimo modo di provare ancora e ancora dolore. Furio si rabbuiò, accorgendosi dell’errore. “Non fa nulla, posso chiamarti come preferisci!”. “Chiamami Aidha,allora. E’ il mio nome, e nonostante tutto . . . a me piace!”. “Anche a me, Aidha.”, sussurrò mentre le carezzava i capelli. “Anche a me”.

Prese con sé la ragazzina, proteggendola dagli sguardi dei curiosi e dai commenti delle malelingue. La guidò trai vicoli tortuosi che aveva percorso lei stessa la notte precedente. Osservò le stesse imposte, le stesse porte e le stesse facce, ma col sole splendente del mattino riusciva leggere anche quel paesaggio tetro, una muta promessa di speranza. 

   
 
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