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Autore: Smollo05    10/01/2012    0 recensioni
Siamo prigionieri di questo luogo. Prigionieri del tempo. Intrappolati nell’unico singolo instante di cui abbiamo memoria: quello che avrebbe potuto salvarci dall’oblio, quello di una decisione fondamentale. La scelta che ci avrebbe fatti ricordare in eterno.
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le vie erano piuttosto affollate per gli standard dell’Isola. L’aria era piena del profumo denso e croccante del pane appena sfornato.. Mi venne l’acquolina in bocca. Il sole pennellava delicato i profili delle cose e della case. Mettevo un piede davanti all’altro, come un equilibrista su una corda immaginaria, mentre giravo la testa da un lato e dall’altro per cogliere tutti i particolari. Immaginai di passeggiare mano nella mano con Lydie, immaginai la sua voce calda, mentre mi spiegava tutte le cose nuove che osservavo. Chiusi gli occhi e mi lascia guidare dagli altri sensi. Sulla lingua sentivo il delicato sapore della libertà, sentivo la ghiaia scricchiolare sotto i piedi. Poi, il rumore delle campane. Era lo stesso che sentivo da casa mia! Gli stessi rintocchi ritmati che si spandevano nelle strade quando il sole era nel punto più alto del cielo. Come un solerte muezzin chiamavano tutti a raccolta, ognuno abbandonava la propria attività pregustando già il pasto. Adesso correvo, inciampando ogni tre passi, pensai che non avevo mai corso in quel modo se mai l’avessi fatto. Mi piaceva l’aria sul viso, il vento che mi scompigliava i capelli, le figure schizzavano via più veloci di un cinematografo impazzito. Ero mai stata più felice? Guardai finalmente in su. Dritta davanti a me si ergeva la grande Torre dell’orologio. “La casa delle campane”- esclamai, piantandomi a gambe larghe in mezzo alla strada. Ero decisa a non lasciarmi sfuggire neppure un singolo insignificante particolare di quell’edificio. Ne avrei fatto un bellissimo disegno, così da farmi perdonare da Lydie per la mia fuga. Osservai la torre, soffermandomi sull’orologio meccanico. Rimasi a contemplarlo in estasi, pensai di non aver visto nulla di più bello.
Improvvisamente, la lancetta dei minuti si mosse, come se il meccanismo fosse inceppato, rimase a ticchettare sullo stesso numero, ignorando la mia attesa trepidante. Vibrò un po’ e infine compì un mezzo giro all’indietro. Spalancai la bocca meravigliata,davvero funzionava così un orologio? Mi sentii colpire sulla nuca. “Ahi!”. “Stai occupando il passaggio, ragazzina!”..L’uomo vestito di nero mi scansò stizzito, guardandomi dall’alto in basso. Pensai si fosse già allontanato di un centinaio di metri, quando mi sentii afferrare per il polso. La stretta era talmente forte che mi sembrò di sentire il flusso sanguigno fermarsi. “Lasciami andare!”, tentai di divincolarmi, ma il dolore mi impediva anche il più semplice dei movimenti. L’uomo mi guardò in volto e parve meditare per qualche secondo, poi si riscosse e si rivolse al capannello di curiosi che aveva assistito alla scena. “Qualcuno conosce questa bambina?”. Mi tirò davanti a sé,come a mettermi più in vista. Tutti gli sguardi si concentrarono sul mio volto.. Vidi parecchie teste scuotersi. “Forse è una nuova” , mormorò una donna che non conoscevo.

“Impossibile! Conosco ogni singola persona giunta qui, sin dall’alba dei tempi. Tu, come ti chiami?”. L’avesse chiesto più gentilmente, probabilmente sarei stata tentata di risponderle , ma riuscii solo a mormorare “Lasciami andare!”, mentre continuavo a combattere contro la sua presa. “Chi mai sentirà la mancanza di qualcuno senza neanche un nome?” sorrise. “Per favore, lasciami andare!”- chiusi gli occhi, impaurita.

“Si chiama Aneh. E’ stata registrata da te stesso sei cicli fa”.
“Lydie!” Non ero mai stata tanto felice di vederla. Lo sconosciuto mollò la presa, come se fossi un batterio o un insetto e disgustato si rivolse a lei.
“Sai cose può succedere a coloro che ne nascondono uno, laide garce?”
“Sì.”
“Oseresti quindi ripeterlo?”
“E’ la verità, lo giuro!”. Lydie cadde a terra,quasi implorando. Vederla così, faceva più male del braccio livido. Dovevo fare qualcosa. Non sapevo quale fosse la pena, forse la famosa Morte di cui tanto sentivo parlare? “Non ha fatto niente, lasciala stare!” 
“Sta tranquilla, non le succederà niente”. L’uomo mi strattonò per il polso, costringendomi a seguirlo. Rivolse un’ultima occhiata di fuoco alla donna accovacciata nella polvere e le sputò addosso. Mi voltai disperata. Qualcuno con un po’ di fegato in più la stava aiutando a rialzarsi. La stavano sostenendo, mentre si allontanava. La chiamai, urlai il suo nome e ogni lettera sembrava mandarmi a fuoco la gola. Poi scoppiai a piangere: erano le lacrime più amare che un bambino possa mai piangere, quelle dell’abbandono. Quando le voltai infine le spalle, mi parve di vederla girarsi, ma forse erano solo le mie stupide fantasie da ragazzina.
Volevo solo credere di aver contato almeno un po’ per quella donna.
Tutto qui.

   
 
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