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Autore: Jo Shepherd    13/01/2012    0 recensioni
In un certo mondo, il ruolo del "postino"... è di importanza fondamentale.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Mara Emmon

 

Un fumo bianco si levava più maestoso di tutti gli altri nel quartiere. Sbucava dal comignolo della famiglia Emmon. Un alto fuoco si consumava nel grande camino del salotto: era di marmo bianco, decorato con motivi floreali e ghirigori vari che gli davano movimento e sinuosità. La sua bocca era tanto alta e ampia che il padrone di casa, il Signor Marc F. Emmon, noto in città sia per la sua ricchezza da mercante d'arte che per la sua grande mole, poteva appagare l'infantile sfizio di farci quattro passi dentro (a fuoco spento ovviamente) e di alzare il muso verso i fori del comignolo con la vana speranza si vedesse il cielo. A fine cena lo rasserenava consumare un buon bicchiere di vino rosso davanti allo scoppiettio dei ceppi di faggio che lentamente si incenerivano, gettando occhiate e sorrisi alla moglie che si divertiva giocando con i due gemellini nati da pochi mesi sul tappeto morbido e minuziosamente lavorato da mani orientali.

Fuori dalla stanza, si stava allontanando nel corridoio la loro primogenita, Mara, che lamentando una leggera emicrania si congedò in camera sua. La giovane sfoggiava una certa beltà, e molti pretendenti, da lei ignorati, sognavano di convolare a nozze; “soprattutto per mettere mano al patrimonio di papà”, pensava spesso fra sé e sé stizzendosi un bel po’. Alcuni di loro non si sforzavano nemmeno di celare tale intenzione. “Almeno sono sinceri...”, aggiungeva.

Aprì la finestra-balcone e si sedette su una piccola sedia in ottone, stendendosi alla meglio e allungando le zampe posteriori fino a poggiarle sulla ringhiera; posa sulla quale la madre avrebbe avuto da ridire. Un urlo improvviso la fece sussultare: qualcuno dal palazzo adiacente aveva urlato: “ammoreee!”. Interdetta si chiese chi mai fosse un tale imbecille. Il cuore le andava ancora a mille per lo spavento.

S'assopì non volendo e lì e in quel modo stette per decine di minuti, sino a quando serene note le stuzzicarono l'udito, rianimandola. Già altre volte le capitò di sentirle, tanto che era quasi convinta di averne capito la provenienza: sul tetto del palazzo di fronte, appena un piano più in alto del suo appartamento. S'alzò e si sporse d’istinto il più possibile verso l'alto ma, ovviamente, non vide un bel nulla. Subito corse dentro casa, non sopportava più di non soddisfare la sua curiosità: voleva portarsi sul terrazzo che di ben tre piani sovrastava quello di fronte: avrebbe sicuramente visto in volto colui o colei che faceva bella musica.

Girò il pomello dorato e la serratura del grande ingresso scattò, quando la madre la riprese:

- Mara! 

- Sì, madre? – sbuffò.

- Dove credi di andare?

Esitò nel risponderle. Cosa era meglio fare? Correre sulle scale il più in fretta possibile? Dire di voler prendere un po' d'aria? No, poco importavano il dove, il come e il perché; la madre le avrebbe fatto chiudere la porta a prescindere. Quindi: - Sul tetto.

La Signora Emmon rimase sbigottita e si portò una mano alla gola, come se sua figlia le avesse detto di voler abbandonare baracca e burattini e di unirsi al circo straniero che già da un paio di giorni era fisso in città, intraprendendo così una carriera da domatrice di belve selvagge.

- E a fare cosa? No, lasciamo perdere... - s'avvicinò alla figlia alla svelta, con lo scalpitio dei  tacchi che a Mara dava una certa ansia. - Bambina mia... -, continuò, facendo mollare la presa a Mara e chiudendo subito la porta con forza. Il padre fece capolino dalla soglia del salotto.

- Tu non andrai da nessuna parte, a quest'ora! E con questa umidità! Il cielo non voglia, ma potresti cadere malata.

- Va bene madre, non importa. Basta che non attacchi con la tua solita tiritera!

Le due si guardarono negli occhi per qualche istante, solo il ticchettio dell'orologio a pendolo nel corridoio impediva al silenzio di regnare. Entrambe risero cercando di trattenersi; la madre più di Mara.

Vista la situazione sotto controllo, con un inarcamento di sopracciglio destro, il padre tornò al suo posto.

- Forza tesoro; domani, con un bel sole magari, ci andrai se è così importante. 
“Certo!” pensò Mara, “Peccato che chi suona lo faccia solo di notte e fin troppo di rado.”

- Ora, fila a letto che dobbiamo alzarci di buon mattino.

- Ah, ma devo proprio venirci?

La madre prese a spintonarla verso la sua stanza. - Tesoro, - bisbigliò, - se non fosse il figlio del sindaco ti direi anche di rimanere a casa ed evitarti questa tortura di matrimonio.

- E va bene, ma lo faccio solo per papà, ehm, cioè, mio padre. - Imitò il basso tono della madre, e questa rise, ma più per la sua correzione, e le diede un buffetto sulla guancia.

- Brava.

 

Corse lungo le scale cercando di raggiungere il prima possibile il terrazzo, mentre in lei albergava una certa sicurezza nata dal fatto che i suoi genitori non l'avrebbero né scoperta né rimproverata in quanto se ne stavano beati a ronfare fra le grandi, calde e pesanti lenzuola: si sentì in una botte di metallo insomma. Spalancò la porta in ferro che cigolò e s'affacciò sul lato nord-est, dove avrebbe potuto vedere il misterioso o la misteriosa musicista.

La melodia continuò ancora per qualche minuto, ma il problema fu che non vide proprio nessuno su quelle tegole. Che in realtà le note provenissero da dentro il palazzo?

Delusa e sconsolata ripiegò nel suo appartamento, cercando di fare ciò che la madre le consigliò caldamente: dormire. Domani l'avrebbe aspettata una giornata piena di buone maniere e falsi perbenismi, non poteva far sminuire la figura del padre. Avrebbe dovuto indossare la sua migliore maschera.

 

Le vie principali erano tutte addobbate a festa: enormi bandiere porpora con lo stemma di famiglia in bianco sventolavano maestose; anche la facciata slanciata e finemente decorata della chiesa era rivestita da panneggi di seta, di colore sempre porpora, che dalle guglie laterali scendevano dritte fino a rivestire la scalinata, ricoprendo buona parte della struttura fatta di: statue, colonnati e volte. A cerimonia conclusa, si diressero tutti verso Villa Ondina, per il rinfresco, percorrendo la banchina tutta adornata dai ripetitivi stendardi, che scendevano liberi fino a svanire dentro l'acqua verdastra del canale. Il pranzo si consumò nella veranda esterna della villa, posta sulla terrazza che affacciava sul canale, al limite dell’immenso giardino opulento. La veranda era una struttura in legno bianco e vetro. Anche qui, metri di stoffa porpora erano stati sfruttati sottoforma di tende, nastri e gigantesche coccarde filamentose, sia dentro che fuori la struttura. Il banchetto fu tremendamente abbondante; le portate erano tutte accompagnate da pompose coreografie da parte dei camerieri e i musicisti non smettevano un solo attimo di fare musica d'ogni genere, seguiti da bravi coristi.

 

Dopo aver assaporato un delizioso sorbetto al limone, che le sigillò definitivamente lo stomaco, Mara chiese gentilmente al padre il permesso di potersi alzare da tavola per fare quattro passi; quest'ultimo acconsentì senza troppa resistenza, con un sorriso benevolo; Mara gli mise una mano sulla spalla e si chinò a baciarlo sulla guancia.

Passò dinnanzi al tavolo degli sposi, dove sedevano sia l’intera famiglia del sindaco sia la famiglia della sposa, e salutò con garbo e grazia tutto il quadretto. Il neo-sposo le lanciò un'occhiata palesemente lasciva, un po' proibita per la parte che ora vestiva; Mara fece finta di nulla e sorrise maliziosamente anche alla sposa, come per dirle: - Povera te!

Lasciò la grande veranda bianca uscendo per un cancelletto esterno che dava proprio sulla banchina privata della villa. Era collegata a quella pubblica, ma una recinzione in ferro ricoperta di rampicanti e un alto cancello del medesimo metallo in fondo ne delimitavano i confini. Quasi ai confini con quel cancello, c’era un porticciolo in legno, che si diramava anche oltre il limite della proprietà, zeppo di piccole barche attraccate. Su alcune di esse qualche pescatore ancora sistemava le reti, mentre il compagno portava i barili pieni di pesce sulla terra ferma. Forse facevano parte dello staff.

 

Finalmente all'aria aperta e sola. Gioiva ad ogni passo di quella momentanea libertà, fingendo di gettare a mare la maschera scelta quel giorno. Mentre la musica s'affievoliva alle sue spalle, camminando quasi a passo di danza sulla banchina, sfiorava con le dita la stoffa degli stendardi che accennava appena dei movimenti. Molti curiosi si accalcarono con le barche a una ventina di metri dal porticciolo e tutt’intorno alla veranda sulla terrazza. A Mara parvero solo tanti sciocchi.

Scese i pochi scalini di marmo bianco che svanivano fra i flutti e, tirando appena la tela di uno stendardo sotto il sedere, vi si sedette su; immerse le zampe posteriori nell'acqua gelida e si rilassò. Si imbambolò sulle prue ondeggianti, perdendosi totalmente in quell'andare su e giù.

 

Improvvisamente, le sembrò di avere un’illuminazione, le venne un'idea, a cui più e più si meravigliò di non averci pensato prima. S'alzò e diresse sul piccolo pontile. Sottopose a rassegna ogni imbarcazione legata ai corrispettivi pali; ad ogni passo era sempre più convinta dell'illuminazione ricevuta: possedere una barca tutta per sé le avrebbe dato un senso di libertà, in più le avrebbe donato una pacifica solitudine laddove ne avesse avuto bisogno, e poi, poteva godere in silenzio dello sconfinata linea azzurra dell'orizzonte e colmare così la sua voglia di perdersi in grandi spazi aperti; tutta da sola… o magari con un buon libro. Ma il padre avrebbe mai accettato? Sperava ardentemente di sì.

 

Uno scricchiolio la destò dal suo fantasticare; capendo subito di cosa si trattava indietreggiò con cautela, ma una crepa si estese sulle assi sotto le sue zampe fino a squarciarsi del tutto facendo precipitare la giovane fra le onde. Scomparve fra esse.

La ragazza, del tutto impaurita per via della sua incapacità di nuotare, rimase per qualche secondo sul fondo, intrappolata in una soffocante quanto opprimente gabbia d'acqua, che mai come allora parve densa e malvagia. Ma con una spinta involontaria e provvidenziale riuscì a salire a galla e a tentare di tenersi in superficie annaspando con forza. Per quel po’ che vide, era riemersa lontano dal porticciolo, e troppo dagli scalini. Lanciò un grido disperato. Sentiva le energie consumarsi alla svelta. Era ormai stanca e senza forze. I polmoni erano esausti e sempre più acqua minacciava di invaderli

Un tonfo le gettò acqua sul viso che bevve inevitabilmente bruciandole la gola. Presa dal terrore e dai tremendi colpi di tosse che le facevano mancare quel po' di respiro involontariamente recuperato, finì ancora una volta sotto e li rimase fino a che una salda presa la cinse alla vita e spintonò verso l'alto.

- Ah! s-smettila di... ah-agitarti o affogheremo tu.. tutti e due!

Lottando contro il suo istinto fece, nel migliore dei modi, come suggerito da una voce rauca. Sentì la schiena avvolta dal corpo di qualcuno, e una presa salda mantenerla a galla; cosa che le diede un minimo di conforto. Avvertendosi ben sostenuta si rilassò e, fra gli ansimi e gli sforzi muscolari del suo salvatore, in men che non si dica si ritrovò ai piedi della banchina, dove si aggrappò al primo degli scalini boccheggiando.

- Respira, respira... - La rassicurò il suo eroe con piccoli massaggi sulla schiena.

Saziatasi d'aria, guardò in volto all'estraneo. La sua razza era fra le più famose e note per la loro spiccata eleganza ed intelligenza: il colore nero, del muso affusolato, sfumava fino a cingere i piccoli occhi dorati; il pelo ocra su fronte e guance gli donava più rotondità, seppur zuppo d'acqua; le orecchie lunghe e appuntite si tenevano ritte, a sottolineare l'attenzione per la giovane. Mara distolse lo sguardo da quella faccia appena s'accorse che una certa folla, fatta di apprensivi e normali curiosi al sicuro sulle loro imbarcazioni, si era creata attorno a loro. Anche dietro di loro c’era della gente. Fu allora che Mara s’accorse di ritrovarsi sulla banchina pubblica: alla sua sinistra c’era il cancello della banchina privata a un paio di metri da lei. Facevano tutti delle domande a raffica, molte rese indistinte dal forte chiacchiericcio. Nessuno dei due prestò orecchio a qualcuno.

- Ce la fai ad alzarti?

Mara ancora si perse in quel timbro adulto e grave, seppure fisicamente le sembrava non più vecchio di trent'anni. Scrollò le spalle e finalmente si rimise in piedi, tremolante, ma non proferì parola.

- Anche se non sai parlare... -, le sorrise, - l'importante è che tu stia bene, e sembra di sì. Anche se stai tremando. Tieni! - E si girò per afferrare il mantello aggrovigliato sullo scalino più in alto, gettato dal salvatore poco prima di correre sul pontile e tuffarsi in mare. Lo avvolse sulle spalle di Mara.

- E' pesante ma anche bello asciutto. – Disse l’estraneo.  Non c'era bisogno del mantello, perché la ragazza già divampava per l'imbarazzo procurato dalle attenzioni dello sconosciuto. In quel momento i rintocchi di un campanile vicino riverberarono. Il salvatore di Mara, come se si fosse appena ricordato di un importante impegno, sì fece cupo e si voltò fulmineo, allontanandosi dalla banchina come nulla fosse accaduto, svanendo fra il piccolo capannello di gente che si aprì per lasciarlo passare. Solo quando anche la folla si dissolse, ignorandola completamente, Mara si riprese del tutto. Solo un’anziana signora le si avvicinò, e le chiese come si sentisse. Fu per le gentili parole della signora che si ricordò di aver appena sfiorato la morte per annegamento.

 

- No, no, e ancora no! - Fece perentorio il padre, andando avanti e indietro di fronte l'imponente bocca del camino proiettante una calda luce per tutto il salotto e allungando le ombre danzanti di mobili e presenti. Mara abbassò la testa, con un certo sconforto; la madre, che assistette in silenzio al battibecco fra i due, limitandosi a guardare prima una poi l'altro e viceversa, si decise a parlare:

- Cari miei... - iniziò la Signora di casa, contendendosi il posto del marito per essere bene in vista - credo abbiate ragione entrambi. Tu... - indicò la figlia - hai tutto il diritto di realizzare un piccolo progetto, ma concordo anche con tuo padre. Nello scoprire, per bocca di sconosciuti per giunta, che oggi stavamo per perderti proprio per annegamento... oh... - gli occhi le divennero lucidi - … è, è difficile accettare questo tuo voler possedere una barca. Non ci farebbe stare tranquilli.

- Oh, finalmente qualcuno che ragiona.- incalzò il marito - Ben detto Giorgia!  

Mara s'illuminò improvvisamente in volto e s'alzò dalla poltrona, proponendo: - E se prendessi lezioni di nuoto?

- Cosa? - sbottò il padre.

- Era esattamente qui che volevo arrivare.- Disse la madre. - Magari se imparassi a nuotare, tuo padre, - si guardarono in viso - ti lascerà prendere la licenza, ed entrambi saremmo più tranquilli.

Dopo qualche momento di silenzio, Mara richiamò il padre: - Papà, che dici?  
Quest'ultimo sbuffò un paio di volte e non staccò gli occhi dalla punta delle scarpe.

- Chi tace acconsente! - Esclamarono madre e figlia all'unisono.

- Tu prendi lezioni di nuoto. Poi vedremo se è il caso o meno.- Disse la sua il padre, mentre si diresse fuori dalla stanza. - E comunque... - si bloccò sulla porta - è Padre! - E così il Signor Emmon uscì di scena a grandi falcate. Mara rise di quell'ultima affermazione. - Va bene! - Era un po' burbero in certi momenti, ma in realtà le signore di casa sapevano perfettamente che in lui si celava un gran tenerone.

- E vediamo di rintracciare colui che con tanta generosità ti ha dato il suo mantello, e con tanto coraggio ti ha salvato la vita! - Suggerì la madre raccogliendo l'indumento, che analizzò. - Oh, molto pregiata come stoffa. Sentì com'è morbida! E guarda com'è accuratamente ricamata. Un magnifico lavoro di sartoria. –

Mara annuì, serena.

 

Una settimana dopo, la giovane diede inizio alle sue lezioni, lottando contro la paura. Due mesi dopo, una volta aver dato dimostrazione pratica al padre che davvero riusciva a galleggiare perfettamente sull'acqua, ce la fece, non senza qualche ulteriore sforzo, a convincerlo a farle prendere la licenza per poter tenere una piccola imbarcazione.

Studiò per un mese e mezzo, dopo il quale, nonostante sventolò dinnanzi la faccia del padre la carta che attestava le dovute conoscenze nautiche, perfettamente riconosciuta dalla legge, questo titubò ancora nel volerle realizzar il desiderio. La madre, intercedendo, riuscì a convincerlo e, tempo un paio di settimane, si ritrovò una piccola imbarcazione sullo striminzito pontile alle spalle del proprio palazzo.

Con grande gioia diede i primi colpi di remi davanti lo sguardo vigile del padre e della madre che dal pontile la vedevano prendere il largo. Il Signor Emmon non comprò una barca troppo sfarzosa, si tenne sul semplice per non dare nell'occhio dei mal intenzionati; fece solo aggiungere a poppa una semplice poltroncina sulla quale era possibile aprire un piccolo ombrellone arancio; perfetto per le letture in mare aperto della figlia.

 

Da due settimane possedeva il suo mezzo per la libertà e la solitudine, e per ben cinque volte ne fece già uso quando un pomeriggio, uscendo di nascosto ad insaputa del padre che acconsentiva a far andare in barca la figlia solo entro le quattro del pomeriggio, dirigendosi verso il pontile, sentì delle note familiari provenire da esso. Si fermò, sorpresa per il suo riuscire a riconoscerle e soprattutto lo stare lì a sentirle ancora una volta: era da tanto che non succedeva. Con una strana ma allegra agitazione che le cresceva in petto, si diresse in tutta fretta verso la propria barca.

Svoltato l'angolo, vide un giovane, di tre quarti, concentrato a pizzicare le corde della propria chitarra; un giovane dal pelo rossiccio e bianco. Si avvicinò cautamente, rapita dalla musica e dall'aspetto dello sconosciuto. Quando fu abbastanza vicina, l'udì fare dei sottili vocalizzi a bocca semichiusa. Quando il non più misterioso musicista si fermò a guardarla, a Mara si bloccò il respiro; non aveva mai visto qualcuno dagli occhi di colore differente.

- Ehm, è la tua barca questa? - Disse il giovane alzandosi impacciato.

- Un momento... - Mara finalmente se ne accorse - tu sei nella mia barca!

- Ecco. Lo sapevo!. - Subito ne uscì, guardandosi intorno con un certo imbarazzo. - Be', ti chiedo scusa. - Liberò la barca salendo sul pontile che scricchiolò, - Sono stato catturato da quell'ombrellone con la poltrona, perfetto per suonare. - Standole molto vicino le sorrise. Mara s'imbambolò per l'imbarazzo.

- V-va bene; ma che non capiti più!

- Promesso, la eviterò come la peste. - E la sorpassò in tutta velocità.

Provò uno strano e inatteso dispiacere nel vederlo allontanarsi. Era combattuta se fermarlo e scusarsi per i suoi modi e finirla lì o se chiedergli se avesse voglia di andare in barca con lei. Immagino il padre andare su tutte le furie.  Si rassicurò promettendosi che la prossima volta glielo avrebbe chiesto. Ma, lo avrebbe rivisto?

Per il momento s'accontentò di poter dare finalmente un volto a quella musica.

  
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