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Autore: baby80    16/01/2012    22 recensioni
Cosa sarebbe successo se ad Oscar fosse stato imposto di vivere come una donna dopo l'incidente a cavallo della principessa Maria Antonietta? Come sarebbe stata la sua esistenza da quel momento in poi? Si possono cancellare diciotto anni di vita un individuo, il proprio carattere, semplicemente indossando un abito differente?
Genere: Avventura, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Una volta lasciatami i Giardini del Lussemburgo alle spalle proseguii senza badare a dove stessi andando, il sole era quasi scomparso oltre la linea dell'orizzonte colorando il cielo, ed ogni cosa, di una tonalità di rosso che neppure il più sublime dei pittori sarebbe stato in grado di riprodurre.
Camminai dritto davanti a me con quel che rimaneva della mia esistenza, gettato alla rinfusa all'interno del sacco che tenevo svogliatamente stretto tra le dita, priva di qualsiasi prospettiva che riguardasse l'immediato futuro, avrei semplicemente messo un piede dinnanzi all'altro fin quando le gambe mi avrebbero retto, e così feci, finché il buio non inghiottì tutto ciò che mi stava attorno.
Sbattei le palpebre un paio di volte, stringendo gli occhi come quando d'improvviso si è colpiti da una luce accecante, ma in quel caso furono le tenebre a farmi dolere le iridi, trascinandomi con prepotenza al presente, dentro ad una realtà che ero riuscita a sfuggire da che avevo voltato le spalle ad André, a Lucien e a quella che era stata la mia vita fino a qualche ora addietro.
Mi guardai attorno con una sensazione di smarrimento, non avevo la benché minima idea di dove fossi finita, ma di certo avrei dovuto scoprirlo e trovare un posto dove passare la notte.
Alzai il viso e cercai un dettaglio che mi facesse tornare alla mente un ricordo di quel luogo, sempre che vi fossi mai stata, ma la via nella quale mi trovavo non aveva nulla di caratteristico se non una giovane donna all'angolo della strada, con una carnagione così chiara da spiccare perfino in mezzo a tutta quell'oscurità.
La osservai per qualche minuto, avvolta in un abito verde che le metteva in bella mostra, dalla scollatura generosa, le forme floride, sporcate soltanto da qualche ciocca di capelli, ramati, sfuggita all'acconciatura sistemata alla bene e meglio.
D'istinto mi ritrovai a muovermi verso la ragazza, richiamata dalla curiosità di quella figura bizzarra e senza ombra di dubbio fuori luogo, così in netto contrasto con l'ambiente nel quale ci trovavamo: tenebroso, grigio, apparentemente emarginato dalla vita di Parigi.
Scrutai il suo volto e la giovane dai capelli rossi finalmente si accorse della mia presenza, e non appena i suoi occhi grigi mi si posarono addosso, un solo angolo delle sue labbra scarlatte si sollevò in un sorriso malizioso.

“Avete bisogno d'aiuto Monsieur? Mi sembrate smarrito.”
disse improvvisamente, sussurrando le parole con calma e dolcezza.
Aprii la bocca per prendere fiato e ancor prima che potessi pronunziar verbo mi accorsi della sua mano che con un gesto deciso strinse l'orlo della sottana e la sollevò fin oltre il ginocchio, mostrando la lunga gamba velata da una sottilissima calza nera fermata a metà coscia da un nastrino bianco.
Non mi stupì la sua sfrontatezza, ero cresciuta a Versailles e nell'ultimo anno avevo avuto a che fare con le lavandaie di Saint-Antoine e con il bordello di Madame Lucréce, per cui ero immune a certe crudezze del genere umano, ma certamente non lo ero alla visione che gli altri avevano di me, mai come allora.
Chi ero? Uomo, donna, Oscar, Justine.
Non mi ero mai crucciata del giudizio altrui perché ero certa di ciò che ero, ma in quel momento anche la mia anima aveva difficoltà a riconoscersi.
Nemmeno il mio cuore era più una certezza.
Mi ero persa.

“Monsieur, dico a voi? Vi sentite bene?”
la ragazza dagli occhi di ghiaccio mi venne incontro e con studiata cortesia mi posò la mano su di un braccio, come sicuramente aveva fatto innumerevoli volte con gli uomini di cui voleva attirare i favori, ma fu qualche secondo dopo aver compiuto quel gesto che abbandonai ogni scudo e le lacrime mi riempirono gli occhi, varcando le ciglia e precipitando lungo le guance.
Alzai il mento ed incrociai lo sguardo con quello della sconosciuta che mi era di fronte, e il sorriso le morì sulle labbra turgide, ritrasse la mano come scottata da una brace incandescente e vidi in lei tutta la mia fragilità.

“So riconoscere un'anima disperata, andatevene di qui, non è posto per voi. Andate!”
disse tra i denti, con un tale furore da portare un insolito rossore sulle sue gote pallide.
Mi parlò come se mi conoscesse ed io finsi a mia volta, prendendo quel consiglio come se provenisse da una persona cara.
Scappai letteralmente da quel vicolo scuro e non mi fermai fino a quando non ritrovai il tipico trambusto di Parigi, le luci delle sue umili case, delle locande, e fu ridosso di una di queste che sentii le lacrime freddarmisi sulla pelle.
Riconobbi quel luogo, immediatamente, quando vidi la targa di legno oscillare sulla mia testa; Locanda Accueil des muses. (1)
Ero a Montparnasse, non c'erano dubbi, in quel quartiere vi ero stata anni prima e più recentemente con Lucien, e li decisi di passarvi la notte.
Poggiai i palmi delle mani sulla porta di legno scuro e la spinsi, spalancandola con un sol colpo.
Usai gli ultimi risparmi per una stanza, avendo cura di parlare al locandiere tenendo la testa bassa ed il viso lievemente nascosto dai capelli, non era il tempo per un'altra discussione e quando mi venne domandato, nemmeno troppo velatamente, se era mio piacere avere un po' di compagnia rifiutai senza troppi convenevoli.
Mi feci portare del cibo in camera e dopo essermi rinfrescata dalla pesante giornata, cancellando dalle gote le lacrime ormai secche, mi sedetti per cenare, a quella che mi parve una scrivania.
Col mento poggiato pesantemente sul palmo della mano, in una postura che avrebbe fatto imbestialire Nanny, e inorridire Madame De Roux, giocai con le pietanze spargendo fino ai margini del piatto, e di nuovo al centro, i pezzi di carne e di patate che erano diventati ormai un tutt'uno, finché decisi di abbandonare il campo, proclamandomi sconfitta dalla mancanza di appetito.
Mi alzai dalla sedia e mi trascinai verso il letto sul quale mi gettai a peso morto, lasciandomi cadere sul materasso, abbandonando le braccia ai lati del corpo, in cerca di requie.
Tranquillità che non arrivò mai, e nonostante bandii con tutta me stessa i cattivi pensieri che sentivo annidarsi nella mente, il sonno non giunse, anzi, passai quasi l'intera notte ad osservare il soffitto e l'enorme crepa che si era formata tra una macchia di umidità e l'altra.
Provai perfino a richiamare il buio assoluto, serrando gli occhi e premendovi sopra i palmi delle mani, ma anche quel tentativo fu vano, così vi rinunziai, concedendo al mio corpo il solo sollievo del riposo, evitando di muovere anche il minimo muscolo, eppure quando sentii cantare il gallo, prima ancora che il sole fosse sorto, balzai seduta sul letto e detti fine alla tortura che era stata quella notte.
Mi vestii, presi il mio sacco e lasciai la stanza.
Non sapevo dove sarei andata ma ero certa di non voler restare a Parigi.
La mia intenzione era di spostarmi verso nord, nelle zone collinari e montuose della Francia, là dove il clamore delle città era decisamente ovattato, ragion per cui la mia presenza non avrebbe destato problemi, e dove forse avrei potuto iniziare una nuova esistenza.
Camminai molto quel giorno, attraversando quartiere dopo quartiere, decisa ad arrivare ai confini di Parigi prima che facesse buio e le mie aspettative furono pienamente mantenute poiché riuscii a giungere a Montmartre molte ore prima del tramonto.
Cercai un po' di riposo davanti ad una chiesa, che riconobbi da alcune reminiscenze di studio, come la Chiesa di Saint-Pierre de Montmartre, fondata da San Dionigi, che morì martire, per decapitazione, e che secondo la leggenda avrebbe poi preso la proprio testa mozzata e avrebbe fatto alcune miglia portandola fra le mani.
Mi estraniai per qualche momento, persa nei ricordi del mio vecchio istitutore, che era solito raccontare con enfasi le storie dei martiri e quasi non mi resi conto di aver ripreso il cammino, senza però fare attenzione a dove stessi puntando i piedi, così mi accorsi solo all'ultimo istante del cavallo che mi si parò dinnanzi.
Feci appena in tempo ad indietreggiare di un passo, e chiaramente persi l'equilibrio precipitando a terra con un gran tonfo.
Sentii appena il rumore del carro che arrestava la propria andatura ed il nitrito dell'animale, ma udii chiaramente la voce poderosa di quello che immaginai fosse il proprietario del mezzo.

“Porco mondo! State bene?”
mi chiese l'uomo, di cui potevo scorgere solo i piedi, poiché ero intenta a togliermi i sassolini dai palmi delle mani sanguinanti.

“Si. Non è nulla.”
risposi distrattamente, poggiando le mani a terra per alzarmi, ma non ne ebbi il tempo perché prima che potessi fare alcunché mi sentii afferrare per un braccio e sollevare verso l'alto.
In un attimo fui in piedi e quando mi sentii ben stabile sulle gambe sollevai il mento, pronta a parlare.

“Non era necessario, ma vi ringrazio ugualmente Monsieur.”
dissi guardando l'uomo in volto, e da subito mi parve di riconoscere in lui dei tratti già visti, ed anche lui sembrò colto dal mio stesso dubbio perché seguitò ad osservarmi con insistenza, trattenendo la propria mano attorno al mio braccio.

“Potete lasciarmi.”
parlai con vigore, allontanando il braccio con un gesto deciso.

“Che mi prenda un colpo! Può anche darsi che io abbia esagerato col vino ieri sera ma... mi gioco la paga di un mese se non sei la ragazzina che se ne andava in giro di notte sul Pont Neuf!”
sentenziò con sicurezza abbassandosi alla mia altezza per potermi guardare meglio, ed io non mi mossi, non volsi la faccia, rimasi li, immobile.

“Voi siete il soldato che...”
tentai di dire, sibilando parole.

“Che ti ha salvato il bel culetto, ragazzina! E a cui hai raccontato un sacco di balle a quanto pare!”
continuò la mia frase, con una nota di irritazione nella voce.
Il giovane che mi aveva quasi travolto col proprio carro altro non era che il soldato che venne in mio aiuto sul Pont Neuf, la notte in cui un paio di damerini senza scrupoli avevano tentato di usarmi violenza.
Il suo nome mi tornò alla mente come un lampo: Alain, Alain De Soisson.

“Avete ragione, vi ho raccontato delle menzogne, ma voi Monsieur avete voluto crederci.”
risposi con altezzosità, più per difesa che per reale maleducazione.

“Io cosa...? E smettila di chiamarmi Monsieur, mi sembra di avertelo già detto quel giorno, non ho nulla a che spartire con i Signori! Io sono Alain, semplicemente Alain. Ed immagino che il tuo nome non sia quello che mi hai rifilato quella notte, giusto?”
disse corrucciando la fronte.

“Si.”
ribattei semplicemente.

“E quale sarebbe, di grazia, il tuo vero nome?”
mi chiese fissandomi dritto negli occhi.

“Oscar.”
risposi senza esitazioni, pronunciandolo in pubblico per la prima volta dopo tanto tempo.

“Oh porca... mi stai prendendo in giro? No, non mi stai prendendo in giro. Porco mondo, tutte a me devono capitare... non voglio sapere nient'altro. Cosa ci fai in questo paesino dimenticato da Dio? Dove stai andando?”
mi domandò guardando il sacco che giaceva ai miei piedi, tra un'imprecazione e una risata incredula.

“Ovunque, purché lontano da Parigi.”
dissi sollevando il sacco da terra.

“Stammi a sentire, io sto andando verso nord, se vuoi posso darti un passaggio, si sta facendo buio. Quando vorrai scendere me lo dirai.”
parlò con calma Alain, e senza aspettare una mia risposta mi prese il sacco e se lo issò sulla spalla, certo di una mia risposta affermativa.
A ragione, perché non me lo feci ripetere una seconda volta.
Salii sul carro con Alain e non scesi fin quando non scese anche lui, a Reims, dove con i risparmi guadagnati con il suo lavoro di soldato era stato in grado di comprare un piccolo appezzamento di terra per la madre e la sorellina piccola, portandole via da una Parigi che non sentiva più sua e che seppur lentamente stava precipitando in un oblio di povertà e miseria.
La madre di Alain e sua sorella, Diane, mi accolsero nella propria casa senza domandarmi nulla, fui io, in seguito, a raccontare piccoli lembi di una vita passata, giusto l'indispensabile, quel tanto da rendere chiara la storia del mio nome e l'insolita abitudine di indossare abiti maschili.
Mangiai il loro cibo, accudii i loro animali e coltivai la loro terra; una piccola distesa di viti, una cosa del tutto normale in quella zona della Francia, infatti Reims era conosciuta ovunque per la produzione di vino.
Alain non smise di lavorare nei soldati della Guardia, nonostante detestasse quello che erano costretti a fare, ma i debiti erano ancora troppi per rinunciare ad una paga sicura, anche se contava di riuscirci in meno di tre anni, e poi, parole sue, avrebbe abbandonato tutto per fare il contadino.
La vita con la famiglia De Soisson era semplice, la condizione ideale per chi come me doveva ritrovare il capo della propria esistenza, le giornate erano scandite dai lavori quotidiani, dalle chiacchiere con la dolce Diane e gli insegnamenti di sua madre, Madame Constance, che cercò con una caparbietà paragonabile solo a quella di Nanny di insegnarmi l'arte culinaria, con pessimi risultati, le sole pietanze che mi riuscivano senza troppi disastri erano le torte.
In quel luogo trovai una sorta di equilibrio, dosando le varie parti di me stessa, a piccole dosi, imparando ad accettarle poco per volta.
Durante i primi mesi capitò spesso di dovermi recare in paese per le provviste, assieme ad Alain, e fu proprio durante uno di quei giorni che in una locanda incontrai quello che un tempo non troppo lontano scambiai per André; Bernard Chatelet.
Fui io ad avvicinarmi a lui, memore di ciò che mi aveva accennato quando ci incontrammo per le vie di Saint-Antoine, lo trovai seduto ad un tavolo con un altro giovane avvocato, originario di Arras, un certo Maximilien De Robespierre.
La mia nuova condizione di donna vestita con abiti maschili non lo turbò affatto, al contrario, ne rimase particolarmente affascinato, e in effetti quello fu il solo modo che mi consentì di partecipare agli incontri di cui mi aveva parlato a Parigi, cosa che, mi fece giustamente notare, mi sarebbe stata impossibile se il mio vestiario fosse stato femminile.
Le riunioni con Bernard e gli altri giovani intellettuali, artisti, politici, avvocati, aumentarono col passare del tempo, anche se il loro numero era sempre meno rispetto a quelli che si svolgevano a Parigi, ma non ero ancora pronta a tornare, per cui ci si incontrava a Reims o in qualche paesino vicino.
Si discuteva principalmente di arte, in ogni sua forma, ma ben presto ci ritrovammo a disquisire sulla condizione della Francia e del popolo francese, in qualunque caso, comunque, quello fu un ulteriore stimolo per la mia mente, e per il percorso che stavo compiendo dentro di me.
Negli ultimi tempi della mia permanenza a Reims anche Alain cominciò a frequentare Bernard e le sue riunioni, in fondo, nonostante la condizione nobile di molti giovani che ne facevano parte, le idee erano comuni a tutti.
Alain divenne ben presto un caro amico, uno di quelli che sono disposti a darti il mondo senza pretendere in cambio alcunché, e con il quale potevo essere me stessa, o quanto meno quell'essere indefinito che ancora mi sentivo.
Restai a Reims per due anni, fino al giorno in cui mi sentii abbastanza forte per tornare là dove ero caduta, nella Parigi che non avevo mai smesso di amare.
Madame De Soisson mi salutò come una madre saluterebbe una figlia che sta per lasciare la propria casa per la prima volta, raccomandandomi di tornare di tanto in tanto a trovarla, mentre Diane mi chiese di rimanere, tra le lacrime, mentre Michel, quello che noi sospettavamo essere più di un caro amico, tentò con ogni mezzo di farle tornare il sorriso, sotto lo sguardo sospettoso di Alain.
Non riuscii a trattenere una risata osservando quella scena, e con sincero dispiacere lasciai la casa, trattenendo a stento la commozione.
Tornai a Parigi con Alain, che si premurò di riempirmi di mille consigli, come se quello fosse stato il mio primo giorno in città e poi, sorprendendomi, mi prese tra le braccia e mi abbracciò, come non era mai successo negli anni trascorsi insieme.
Mi strinse così forte contro il proprio petto da farmi quasi mancare il fiato e mi diede poi un lungo bacio tra i capelli, infine, come suo solito, mi allontanò da lui in malo modo.

“E adesso fila via... e vedi di mostrare il tuo faccino aristocratico almeno una volta al mese, intesi?”
mi disse più burbero che mai, nascondendo lo sguardo sotto la visiera del proprio berretto militare.
Gli rivolsi un sorriso e proseguii per la mia strada, calpestando tutti quei luoghi che avevo amato e che scoprii essermi mancati terribilmente.
Era una mattina di settembre, lo stesso mese che due anni addietro mi aveva vista allontanarmi, ma a differenza del passato il clima era decisamente più pungente, l'estate era passata quasi inosservata accompagnata da un pallido sole, e quel giorno in particolare il cielo era coperto da delle nuvole che non promettevano nulla di buono.
Passeggiai per i quartieri, per le vie, finalmente a testa alta, fiera di ciò che ero ed incurante del pericolo che avrei potuto correre, anche se in realtà giunsi alla conclusione che sicuramente vi erano cose più importanti in Francia, che la scomparsa di Oscar Francois De Jarjayes, e che di certo mio padre si fosse ormai rassegnato.
Percorsi i luoghi che avevo attraversato come nobile, come soldato, e ancora quelli che avevo calpestato come persona priva di identità, apparentemente una popolana come tante altre, e per ogni posto vi fu un ricordo, felice o malinconico che fosse.
Guardai ogni cosa con occhi differenti, con la purezza e lo stupore di un infante, in qualche modo era come se fossi venuta al mondo una seconda volta, con la consapevolezza di me stessa.
Mi ero ritrovata a fatica, ma dopo due anni potei affermare di essere realmente me stessa, ero io, semplicemente, priva delle maschere che negli anni mi erano state imposte, finalmente libera dall'idea altrui, che fosse quella di mio Padre, di Nanny o dell'intera Versailles.
Non ero più Oscar Francois De Jarjayes, non ero più un soldato, una nobile o una lavandaia, ero molto di più, da quel momento in avanti avrei potuto essere tutto e non essere niente, ma ai miei occhi, per mio volere, e non per quello degli altri.
Con quella consapevolezza ogni timore era scivolato via, rivelando una forza inaspettata e una fragilità che avevo smesso di temere da quando avevo scoperto di poter essere forte e debole in egual misura, senza sentire in me la colpa per uno o per l'altro.
Respirai a pieni polmoni l'aria di una Parigi che avevo nel cuore e col viso puntato verso l'alto serrai gli occhi, godendo del vento che sembrava accarezzarmi le gote, e fu in quell'attimo di pace che percepii qualcosa di umido colpirmi una gota, aprii le palpebre ed osservai la finissima pioggia precipitare dal cielo ormai grigio.
Abbassai la testa e ripresi il cammino, lentamente, verso un futuro che avrebbe potuto condurmi alla felicità o ferirmi a morte, ma in qualunque caso decisi di rischiare, consapevole che come sarebbe potuto andar male, allo stesso modo sarebbe potuto andare bene.
Ricordo chiaramente la tensione che provai quando giunsi davanti alla porta e la sensazione del legno ruvido contro il palmo della mano, così come il rumore della pioggia che era mutata in un feroce acquazzone e del mio cuore, impazzito.
Bussai una, due, tre volte, ed abbassai il pugno stretto lungo il fianco, ed attesi, mordendomi le labbra bagnate di pioggia, sull'attenti, pronta a girare i tacchi e non tornare mai più se non avessi ottenuto risposto.
Trattenni il fiato immaginando il prevedibile ed ogni più insano pensiero illogico, e solo quando udii lo scricchiolio della porta ripresi a respirare, a fatica, rimanendo immobile nell'attesa che lo spiraglio tra la porta e lo stipite aumentasse il proprio raggio, mostrandomi la verità.

“Oscar...?”
la tua voce mi parve così diversa da come la ricordavo, forse perché uscì dalla tua gola come un soffio, incredula.
Mi osservasti come fossi stata un fantasma, lasciandomi sull'uscio, sotto la pioggia battente, e a me non riuscì di dir nulla, mi limitai a rimanerti dinnanzi, dritta come un fuso.
Non eri cambiato affatto, i due anni passati sembravano non averti sfiorato, eri lo stesso bellissimo uomo che avevo lasciato.
Tentai di dir qualcosa ma le labbra cominciarono a tremarmi, come il resto del corpo, infreddolita dalla pioggia che mi aveva bagnata completamente, e dal vento che non fece che peggiorare la situazione, rendendo gelata la pelle e gli indumenti fradici che avevo indosso.
Mi posasti una mano sul braccio e mi condussi in casa senza dire una parola, e a me pareva di poter sentire solo il rumore acquoso che producevano le mie scarpe bagnate sul pavimento, e mi sorpresi a pensare a quanto fosse bizzarra la mente umana, capace di soffermarsi sulle cose più insignificanti ed inutili nei momenti meno opportuni.
Poi senza quasi rendermene conto mi ritrovai seduta, mentre tu eri chinato davanti a me, così dolorosamente vicino, troppo vicino.

“Con questa dovresti sentire meno freddo.”
mi dicesti a pochi centimetri dal volto, posandomi una coperta sulle spalle, che mi strinsi addosso continuando a guardarti negli occhi.
I tuoi occhi, li avevo quasi dimenticati, o con più probabilità avevo smesso di farlo per poter andare avanti senza ostacoli che mi avrebbero soltanto riportato indietro, ad un passato che non mi sarebbe stato d'aiuto per il percorso che dovevo compiere.
Ti sorrisi debolmente, incapace di dirti qualcosa di sensato o di domandarti quei quesiti che temevo con tutta me stessa.
Mi avevi dimenticata?
Dividevi la tua esistenza con qualcuno?
Ti guardai sederti accanto a me ed osservarmi a tua volta, e rimasi stupita quando vidi la tua mano sollevarsi verso il mio viso e poi ritrarsi, colpevole.
Sentii una ciocca di capelli bagnati sul viso e capii il tuo gesto, volevi semplicemente scostarmela dalla guancia, ma quell'azione naturale ti parve azzardata dopo due lunghi anni di lontananza, così lo fece io cercando di non dar peso a ciò che era appena accaduto.

“Vuoi qualcosa da bere? Posso prepararti qualcosa di caldo.”
mi domandasti con fare cortese ed io declinai l'offerta scuotendo il capo da un lato all'altro, lievemente, in segno di diniego, e mi resi conto di non aver ancora pronunziato parola.
Cosa mi stava accadendo? Avevo deciso di tornare a Parigi per vederti, eppure non ero più in grado di mettere insieme una frase di senso compiuto.
Presi coraggio e sputai fuori la prima banalità che mi passò per la testa.

“Ti trovo bene. Come vanno le cose qui a Parigi? Ho sentito dire che la gente si lamenta per la mancanza di cibo, sicuramente la colpa è stata dell'insolita estate che abbiamo avuto, e della mancanza di sole che non ha favorito il...”
parlai a ruota libera, con un sorriso stucchevole sul volto, ma non giunsi mai alla fine di quel discorso perché tu me lo impedisti, posandomi i palmi delle mani sulle guance.

“Dove sei stata?”
mi soffiasti sulla bocca quella domanda che certamente avevi avuto sulla lingua da che mi vedesti sull'uscio di casa.

“Lontano da qui.”
risposi abbassando lo sguardo.

“Guardami.”
mi ordinasti con decisione, ed io incrociai i miei occhi con i tuoi.

“Ho creduto che non saresti tornata mai più. Perché sei qui?”
mi chiedesti aumentando la stretta attorno alle mie guance.

“Ho sempre pensato che il destino fosse qualcosa di correggibile, e che in qualche modo si potesse cambiare il corso della propria esistenza scegliendo di percorrere un bivio piuttosto che un altro, ma mi sono resa conto, in questi anni, che le scelte e il caso camminano sulla medesima strada. Forse sarei stata una persona diversa se fossi venuta al mondo in un altro paese, o se fossi cresciuta in povertà, ma forse avrei potuto essere ugualmente ciò che ero se avessi trovato il modo di studiare e di entrare a far parte di un mondo differente. Ho visto molte cortigiane, povere di natali, avere i favori del Re, e questo solo grazie ai mutamenti che hanno apportato al loro destino. Ma all'opposto, io che ho tentato di modificare il destino, oggi, venendo da te, mi sarei potuta scontrare col caso che avrebbe potuto non farti essere in questo luogo, a quest'ora. Eppure ho voluto tentare, a mio rischio e pericolo, sfidando il destino e il caso, perché ho finalmente compreso chi sono e ciò che sono diventata ha capito che eri tu ciò che volevo.”
feci scivolare parole su parole, sostenendo il tuo sguardo, fin quando non ebbi più nulla da dire e mi sentii libera, di rinascere o di morire.
Percepii le tue dita allentare la presa sulle mie gote e spostarsi verso la nuca, dove si insinuarono tra i miei capelli bagnati di pioggia e le tue labbra avvicinarsi alle mie, scaldandole col tuo respiro bollente.

“Non ti permetterò più di andartene.”
mi sussurrasti sulla bocca prima di baciarmi con una tale passione da farmi perdere la ragione.
Ed eccomi qui, a raccontarti una storia che in parte conosci, poiché ne sei stato uno dei protagonisti, ma di cui molti fatti ti sono rimasti oscuri, fino ad oggi.
Da ore ti sto narrando quella che mi pare, ora, una bizzarra favola, e tu sembri rapito parola dopo parola, come se l'ascoltassi per la prima volta.
Abbiamo fatto l'amore, poco fa, in realtà non abbiamo fatto altro da quando sono tornata nella tua vita.
Ti osservo, seduto sul letto con la schiena poggiata alla testata di legno, carpire ogni singolo verbo che precipita dalla mia lingua.
E ti ascolto, mentre mi dici che questa storia sarà la tua opera migliore, quella che potrebbe diventare il libro del secolo.
Rido della tua follia e dell'infinita passione che ti ho visto mettere in ogni cosa, fin dal giorno in cui ti incontrai nei giardini di Versailles.
Ti racconto anche questo mio pensiero, e continuo a guardarti mentre ti esibisci nel tuo ruolo di commediante, ricalcando i gesti e le parole di quel giorno di quasi quattro anni fa.

“Posso sapere il vostro nome Madamigella, o debbo domandarlo al Re in persona?”
mi domandi osservandomi, distesa a pancia in sotto sul materasso.

“Oscar... Oscar Francoise De Jarjayes.”
ti rispondo seguendoti in questo gioco.

“Un nome alquanto bizzarro per una donna, ma non per una donna che tira di scherma, immagino... Il mio è Lucien Benoit Moreau, al vostro servizio!”
pronunci le esatte parole che mi dicesti quel giorno, con la stessa sfrontatezza di allora ed io non posso trattenere il sorriso, che mi incurva le labbra.
Tu non lo fai, sei serio, e lo sei anche di più quando ti chini sul letto e ti vedo avvicinarti.

“Ti amo. E avrei continuato a farlo anche se non fossi più tornata.”
mi sussurri inaspettatamente all'orecchio, e tutto quel che è stato assume un significato ben preciso.
Oscar, Justine, il passato, il presente, il dolore e le lacrime, ogni cosa aveva un senso se mi ha condotta fin qui.
Ti sorrido, in silenzio, trascinandoti sul mio corpo, pelle contro pelle, ringraziando il destino, il caso, e qualsivoglia evento ancestrale.
Parlo nella tua bocca, confessandoti il mio amore e predicendoti che saremo noi, la tua opera migliore.


(1)  Casa delle muse... una piccola citazione sull'origine del nome Montparnasse, che fu dato da alcuni studenti  che andarono a declamare dei versi su una collina formata da degli argini, in riferimento al monte Parnasso, casa delle Muse nella mitologia Greca.

  
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