Finalmente sono riuscita a scrivere questo terzo capitolo!
Che fatica, tra le vacanze e tutto il resto non ho proprio avuto tempo! Primo
di tutto voglio ringraziare chi ha recensito: Vi adorooo!
Per me è importante sapere che c’è qualcuno che legge e apprezza, disposto a
darmi consigli e incoraggiarmi! (*///*)
Ad ogni modo, spero che qualcuno troverà interessante anche questo capitolo,
dove il personaggio di Martino comincerà ad acquisire importanza. Finalmente la
trama si svilupperà verso l’idea noir del prologo, ma sarà un processo lento e
infimo, d’altronde non ci si accorge di essere caduti nell’oblio finché non è
ormai troppo tardi…
Baciotti a tutti e buona lettura, oh coraggiosi
avventurieri!
´¯`°¤.¸(¯`...´¯)¸.¤°´¯` Capitolo III´¯`°¤.¸(¯`...´¯)¸.¤°´¯`
I have seen birth. I have seen death.
Lived to see a lover's final breath.
Do
you see my guilt? Should I feel fright?
-“Cry” by James Blunt-
Agnese
era letteralmente saltata in braccio all’uomo con il completo blu e, da come lo
stringeva, non sembrava intenzionata a lasciarlo. Ma neppure l’uomo pareva
voler il contrario. Se ne stavano lì, ai piedi di quella lunga scala, stretti
in un dolcissimo abbraccio, accarezzandosi le rispettive schiene con nostalgia
e sprofondando con tenerezza nei capelli dell’altro quasi a perdersi nel loro
conosciuto profumo.
Martino,
appena sceso dalla carrozza, osservava ora l’affettuoso abbraccio dei due con
crescente soddisfazione. Sapeva che la sorellina aveva atteso quel momento fin
dal primo giorno di separazione dall’uomo ed ora si sentiva in obbligo verso
entrambi nel provare sentimenti di sola gioia per quel momento magico. In
fondo, per quanto Agnese
fosse insopportabile alle volte, capricciosa, altezzosa, irremovibile e persino
selvaggia di temperamento, Martino aveva per lei il più tenero sentimento di
affetto fraterno, quell’amore così puro e incondizionato che spingeva a
desiderare per ella solo il meglio possibile. Eppure, in quel momento, mentre
egli se ne stava in disparte ad osservare quella tenera scena, escluso
involontariamente a prendervi parte, non riusciva a soffocare un altro
sentimento che implacabile gli percuoteva l’anima gentile. Tristezza? Sì,
certo. Quella era tristezza. Ma non era sola, la signora degli animi inquieti.
Con lei turbinavo violentemente nostalgia, rimpianto, dolore e…sì, anche
invidia. L’invidia di non poter avere anch’egli un abbraccio tanto dolce quanto
sincero come quello per la sorella, unito alla consapevolezza che ciò che era
stato un giorno oramai era tramontato per sempre. Quel sentimento che era
desiderio e profondo dolore, quella malinconia perennemente presente nei suoi
occhi chiari, erano per lui un oscuro male che gli lambiva la coscienza e
tormentava nei sogni.
“Sono
cresciuto, adesso. L’ho superato.” si diceva continuamente, quasi che quella nenia riuscisse a
convincere il suo inconscio recalcitrante.
Ma non
era così. Assopito, ma mai estirpato, quel covo di sentimenti che erano serpi nel
suo cuore balzava fuori ad ogni momento favorevole per distruggere ciò che lui,
povera anima dispersa nella sua stessa guerra contro quel passato amaro,
annaspando aveva cercato di eliminare.
Non
bastava l’affetto verso quella strana creatura che era sua sorella, un affetto
che in egual misura veniva contraccambiato, per dissipare l’ombra
nell’anima sua che lo stava portando alla pazzia, né l’affetto dei suoi cari,
né l’amore illimitato delle sue molti amanti, fugaci passioni di una notte, né
il prestigio di una carriera fulgida e promettente o un titolo nobiliare
valorosamente conquistato.
Un baratro oscuro si era aperto molti anni prima ed ora lui ci
stava affogando senza possibilità di salvezza. Gli effetti che il passato stava
facendo alla sua mente, debole verso i suoi attacchi infimi e subdoli, oramai
sarebbero diventati evidenti ed egli non avrebbe più avuto modo di nasconderli.
Tutti avrebbero visto chi era in realtà il vero Conte Martino Ristori.
E Martino lo sapeva, e tremava:
in quel momento tutti avrebbero sussultato di stupore e sdegno. Alcuni
avrebbero avuto pietà di lui, altri lo avrebbero disprezzato con onore. Ma
niente di questo cambiava le cose. Il passato era lì, in agguato vicino al suo
volto, pronto a far trasparire da quel avvenente volto un segno del profondo
tormento interiore.
Ciò che è stato resta indelebile e prima o poi i suoi segni
traspariranno.
«Tesoro, mia selvaggia
creaturina, avevo così tanta voglia di rivederti!»
Martino sussultò, scuotendosi dal
torpore in cui la sua inquietudine l’aveva fatto sprofondare. Volse lo sguardo,
finora perso nella cieca contemplazione del delicato giardinetto, verso la
coppia abbracciata ai piedi della scalinata. Si impose di sorridere, mentre
vedeva i due scambiarsi i saluti dopo il legittimo contraccambio di effusioni
d’affetto.
«Non pensavo che avrei avuto una
così forte nostalgia del tuo chiasso e delle tue bizze!» stava dicendo l’uomo mentre con un dito tracciava
il delicato profilo della figlia.
«E io non credevo che avrei
rimpianto le vostre prediche sull’onore e la lealtà!» rispose Agnese con
sguardo adorante dando un bacino sul naso all’uomo.
«Possiamo dire in conclusione che
la distanza ha fatto apprezzare meglio all’altro anche gli aspetti che consuetamente
reputiamo peggiori. Un bel guadagno, non trovi?»
«Non credo, visto che subito
tutto tornerà alla normalità: io che sfurio praticamente sempre e voi che mi
ricordate come dovrebbe essere una fanciulla ammodo figlia del principe di
Montefalco e della Contessa Ristori. Ma questo non ha importanza, visto che
presto voi ripartire e io resterò qui a crogiolarmi nella nostalgia dei vostri
rimproveri.»
Agnese e il padre restarono un
attimo a contemplarsi in silenzio, riflettendo uno sulle parole dell’altro, per
scoppiare in una sonora risata subito dopo.
«Vi voglio bene, papà!»
«Ti voglio bene anch’io, Agnese.»
Quelle parole furono come una
stilettata nel costato per il giovane Conte Ristori. Il male oscuro gli si fece
vicino tanto che il giovane uomo fu quasi in grado di sentire il suo fetido
odore di menzogna aleggiargli sul collo. Doveva intervenire subito per evitare
che si facesse troppo vicino.
«Avete visto, ve lo riportata
sana e salva la vostra Agnesina!» esclamò con ostentata sicurezza il giovane
avvicinandosi alla coppia che ora lo osservava stralunata come resasi
improvvisamente conto anche della sua presenza.
«Non ne avevo alcun dubbio
Martino. Ero sicuro che solo mandando te
avresti portato via la mia bambina ad un orario decente per permettere a noi
poveri vecchi parenti di vederla come Parigi l’ha trasformata.» rispose il principe di Montefalco
con un largo sorriso verso il giovane.
«D’altronde, Martino è sempre al
primo posto nel mio cuore a pari merito con voi, papà.» aggiunse
subito Agnese sorridendo raggiante ai suoi uomini preferiti, diciamo anche gli
unici che riuscisse a sopportare di tutta la specie maschile.
«Ma siamo sicuri che ci siamo
solo noi due nel tuo pazzo cuoricino, piccola tigre? O Parigi ha portato con sé
anche un bel giovanotto, oltre a begli abiti e un aspetto…ehm…femminile?»
rimbrottò subito l’uomo strizzando l’occhio a entrambi i suoi ragazzi.
«Nessuno, papà! Come potete
pensare che in così pochi mesi abbia trovato qualcuno di decente quando
sono oramai cinque anni che voi e la mamma vi affannate per farmi conoscere un
giovane capace di farmi perdere la testa? Non è possibile, io sono intoccabile,
non ho bisogno di nessuno. Diavolo, anche Martino ha tirato fuori prima la
stessa storia! Ma che avete tutti? Fretta di avermi fuori dai piedi, eh? Indegni parenti che siete!»
esclamò esasperata la fanciulla mentre saliva con padre e fratello la scalinata
verso il portone d’entrata.
Entrambi gli uomini irruppero in
un’argentina risata divertita e presero la fanciulla sottobraccio per scortarla
lungo gli ultimi scalini che portavano al portone.
Agnese era fatta così…strana.
Probabilmente per compensare quella bellezza prepotente, a dir poco sfacciata,
troppo perfetta e travolgente, il suo carattere si era sviluppato verso una
strada opposta al suo aspetto. Ella era un’anima inquieta, incapace di starsene
tranquilla per dieci minuti di seguito, ribelle, di indole passionale e
selvaggia, capace di buttarsi in una situazione solo per puro istinto,
sostanzialmente allegra e ottimista. Non c’era pericolo di annoiarsi con una
creatura come Agnese, Martino lo sapeva bene. Ella era una delle rare persone
completamente indifferenti all’opinione altrui, capace di essere felice per il
semplice fatto di avere un’alta considerazione di se stessa, dotata di una
brillante intelligenza al di sopra della media, superiore ai
problemi della gente ma in grado di dannarsi l’anima
per risolvere una situazione in disaccordo con i suoi ferrei principi. Con lei
non potevi combattere, e nemmeno patteggiare. Con Agnese o tutto o niente.
Sì, un po’ estrema lo era, ma
anche incredibilmente tenace e irruenta, un po’ come
quei temporali estivi capaci di placarsi dopo pochi istanti senza lasciare il
minimo segno della loro venuta.
Un piccolo fenomeno della natura,
la
Contessa Agnese Ristori, ma
Martino l’adorava proprio perché in lei vedeva molte delle qualità che avrebbe
voluto possedere lui ma che il fato, o il
passato per essere precisi, gli avevano negato.
Non avere rimpianti, sarebbe come smettere di vivere.
Il terzetto era arrivato davanti
al portone di mogano laccato e si era arrestato. Martino guardò la sorella:
vibrava di eccitazione, facendo risplendere in modo inconsapevole quegli occhi
azzurri così simili ai suoi ma, chissà perché, dotati di una vitalità
largamente maggiore.
«Forza, ragazzina, stendili tutti.» sussurrò
il principe di Montefalco con tono incoraggiante verso la figlia.
Questa, preso un lungo respiro,
alzò dritta la testa d’oro ed entrò.
Il Principe e il Conte rimasero un attimo immobili a vederla
entrare nella villetta.
«E’ davvero cresciuta, Martino.» mormorò il
Principe quasi più a se stesso che al giovane uomo. «La mia bambina…»
«Sì, è cresciuta, e continuerà a
farlo.» rispose
con un soffio il Conte, lo sguardo perso nella luce della porta aperta davanti
a loro. «Ma resterà sempre la vostra bambina.»
Il Principe portò lo sguardo sul
giovane uomo, sorridendo e lasciando trapelare una gioia sincera.
«Ti ringrazio, Martino. Non sai
quanto sia importante per me
sentirti dire questo.»
Il Conte fece un cenno educato
con il capo, nascondendo un certo disagio.
«E’ ora di entrare.» assentì
poi aprendo meglio il portale massiccio. «Prima voi, Cristiano.»
E così, quell’uomo che non era suo padre, quell’uomo che aveva sposato
la moglie di suo padre che non era però sua madre, quel Principe
che aveva cresciuto la sua sorellina come
figlia sua, quel Principe che era il centro del suo male oscuro, lo precedette
all’interno dell’abitazione signorile.
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Quando
Martino varcò la porta della grande sala dei ricevimenti, nervoso suo malgrado,
non ricevette alcuna occhiata curiosa. Tutta l’attenzione era incentrata su
Agnese che, fulgida e fiera come una amazzone, sedeva tra la folla di
parenti rispondendo senza incertezze alle loro continue domande curiose. Era bellissima, si trovò a
constatare il giovane con un sorriso divertito, tanto bella che un’aura di orgoglio e forza
la circondava donandole un aspetto quasi divino.
Sei una valchiria, Agnese. La mia valchiria.
Quasi avesse udito i pensieri del fratello, la
bionda fanciulla alzò lo sguardo e gli sorrise con una spontaneità disarmante.
Martino rispose al sorriso, deliziato, mentre andava a prendere posto in una
poltrona lasciata libera. Adorava che la sorella gli sorridesse così, perché sapeva che c’erano
solo due persone con cui si permetteva di lasciar uscire il suo lato tenero e
romantico. Uno era lui: il suo fratellone, il suo
compagno di giochi, il suo confidente, il suo migliore amico. O semplicemente
Martino. L’altro era Cristiano.
Il
Conte rivolse un’occhiata verso l’elegante figura del patrigno, seduto accanto
alla figlia e assorto nella sua contemplazione. Era ancora prestante e
affascinante, nonostante avesse superato i quaranta. Un’infanzia funesta e
un’adolescenza nella marina britannica gli avevano reso lo sguardo cupo e i
tratti duri, ma l’incontro con Elisa, la madre di Agnese, e il successivo loro
matrimonio gli avevano donato una luce negli occhi e una forza carismatica nei
gesti che ormai le tenebre parevano averlo lasciato per sempre. Il che certo
non poteva dirsi del giovane Conte Martino Ristori. Anche lui aveva avuto un’infanzia non proprio delle migliori. Fino all’età di
dieci anni era stato sicuro che la sua vita non gli avrebbe riservato alcuna
gioia: era nato da una prostituta, abbandonato in fasce nel bordello in cui
questa lavorava e cresciuto dalla vecchia strega che lo gestiva. Del padre non
aveva avuto mai alcuna notizia. Seppur la vita avrebbe dovuto disgustarlo e
piegarlo, lui era sempre stato un bimbo energico e vitale, insofferente verso
la sua vita nel bordello come lavapiatti e desideroso di scappare verso nuovi
orizzonti. Veniva picchiato e assisteva a scena cui mai un bambino dovrebbe
assistere, ma resisteva. Resisteva perché c’era Elisa.
Elisa
era una dipendente a Villa Rivombrosa, una splendida magione di proprietà del
Conte Ristori poco lontana dal paese cui lui viveva, bellissima e corteggiata a
quel tempo. Lei era come un raggio di sole nella sua tetra vita, un’anima buona
e generosa che con ogni sua visita gli donava un po’ di gioia. Davvero bella e
virtuosa doveva essere, perché tempo qualche mese e il Conte Ristori si invaghì
di lei, premendo per renderla la sua amante. Ma Elisa era orgogliosa e tanto
fece che riuscì a sposarsi il suo bel conte, rompendo le regole sociali e
divenendo ella stessa la Contessa Ristori.
Per
Martino fu una vera gioia e un gran dolore al tempo stesso: vedeva i sogni
dell’amica avverarsi ma la perdeva proprio per questi.
Per la prima volta, però, il destino s’impietosì del povero bambino, donandogli
qualcosa di inestimabile: un’identità.
Si
scoprì che il Conte Ristori, durante un buio periodo della giovinezza, aveva avuto
rapporti molto “stretti” con una delle ragazze del bordello dov’era nato
Martino nove mesi dopo. Una voglia uguale sulla spalle e un cipiglio identico tra i
due, fecero così di Martino il figlio legittimo del Conte Fabrizio Ristori.
Quale gioia per lui, passare dal bordello a Rivombrosa per stare con la sua
amata Elisa e il suo nuovo papà, il quale si rivelò un uomo valoroso e un
genitore attento!
A
rendere il tutto ancora più luminoso, fu l’arrivo di Agnese, una bambina
piccola e vitale che avrebbe potuto chiamare sorella e proteggere contro ogni sofferenza.
Ah,
quale periodo meraviglioso fu quello che seguì la sua adozione e la nascita di
Agnese! Il padre Fabrizio era per lui un mentore incredibile, abile tanto con
la spada che con le parole. Gli insegnò tutto quello che sapeva: la scherma, la
lotta, le armi da fuoco, l’onore, la lealtà, l’abilità con le parole e
l’eloquenza dei gesti. Gli donò sicurezza e forza, amandolo e punendolo in pari
misura per temprare la sua indole focosa. Fu per Martino il primo uomo degno di
ricevere fiducia, il primo meritevole di punirlo e l’unico capace di renderlo
parte della famiglia.
Sì, il
conte Fabrizio fu la luce per lui, una luce che per la prima volta poteva
chiamare padre.
Ma si
sa, purtroppo il destino dà e toglie in egual misura.
Fabrizio, il suo venerato padre, cadde vittima di un’imboscata e lo lasciò solo
ad occuparsi dell’affranta e sconvolta vedova Elisa e di Rivombrosa. Ma
soprattutto, da quella perdita Martino si prese la tacita responsabilità di
vegliare sempre sulla piccola sorellina, da poco nata al momento della
scomparsa.
Passarono
gli anni, ma il dolore non cessò. Si fece forte e si radicò nel suo animo come
una pianta nociva che gli avvelenava la mente e il cuore. Aveva avuto il tempo
per assaggiare appena la dolcezza del calore famigliare che già il fato gliene
aveva privato. Si sentiva ferito, molto amareggiato e pieno di rabbia verso un
qualcosa di ignoto che non poteva sconfiggere. Solo Agnese era ora la luce. Ogni volta che
la vedeva giocare e ridere spensierata, pensava a suo padre e alla promessa che
gli aveva fatto di occuparsi di tutto. Sentiva il dovere gravargli sulla spalle, così giovani ancora, ma se ne
piegava con coraggio pensando costantemente che lo avrebbe reso fiero di lui.
Dovevano esserci solo Rivombrosa, Elisa e Agnese nei sui pensieri.
Tutte
queste responsabilità e tutta questa tristezza lo resero dal bambino pestifero
e ridente un giovanotto serio e fiero, con uno sguardo impenetrabile e un onore
immacolato. Aveva solo quattordici anni.
Fu però con un viaggio a Napoli che tutto cambiò. Elisa conobbe
Cristiano, valoroso capitano della marina britannica celante un passato oscuro.
Sebbene la sua matrigna fosse ancora addolorata per la perdita del marito e
certa di restare vedova per il resto della sua esistenza, il furbo Cupido ci
mise il suo zampino e i due giovani si trovarono follemente innamorati l’uno
dell’altro. Elisa scoprì inoltre che il suo amato era in realtà il Principe di
Montefalco e che quindi per sposarlo non avrebbe dovuto nemmeno lottare contro
l’aristocrazia per la disparità sociale.
I due
tornarono così insieme a Rivombrosa e si sposarono tra la gioia di tutti. Tutti
a parte Martino. In quell’uomo vedeva un rivale che cercava di portargli via la
sua casa e i suoi affetti. Avrebbe voluto odiarlo, ma come poteva quando vedeva la sua cara Elisa
nuovamente felice e l’adorata sorellina scoprire l’amore paterno? Si fece così
da parte, tornando con ritrosia ad occuparsi di cose consone alla sua età. Ma
dentro di sé urlava la sua rabbia.
Grazie
al cielo il tempo addolcì la sua ira e con gli anni si accorse che era stato un
bene per lui cedere la redini di Rivombrosa a Elisa e Cristiano. Aveva potuto infatti studiare e vivere la sua vita,
uscendo per un poco dal fantasma del padre che altrimenti l’avrebbe soggiogato
e annientato. Anche la sua Agnese era cresciuta meglio grazie alla nuova figura
paterna e Martino gioiva nel vederla felice e immune dalle sue tenebre. Quelle
tenebre che nonostante tutto, non avevano mai smesso di rodergli la coscienza.
Il
Conte Martino tornò violentemente alla realtà. Una mano gli tendeva un
bicchiere di brulé. Era sua cugina e coetanea Emilia, la Duchessa
Guillaume.
«Bevi,
cugino, e dimentica i dispiaceri.» gli disse quella sedendosi stancamente in un sofà lì accanto.
Martino
prese il calice dalla sua mano ingioiellata e le sorrise. Emilia, dopo Agnese,
era la persona cui teneva maggiormente. Era figlia della Contessa Anna, sorella
del suo defunto padre, ed erano cresciuti insieme. Avevano entrambi studiato a
Parigi, lei arte e letteratura, lui arruolandosi nell’esercito francese come il
padre. Caratterialmente erano molto simili, fisicamente non sembravano nemmeno
parenti. Emilia era un bella donna, di media statura e dalle forme
armoniose. Quella sera aveva addosso un aderente abito color panna con pizzi e merletti candidi
che contribuiva a rendere più splendente la sua carnagione mediterranea. Aveva
i lunghi capelli castani acconciati in morbidi boccoli e il viso era cesellato
da un trucco seducente e ardito che una bellezza consapevole come la sua poteva
permettersi.
«E
quali dispiaceri dovrei mai avere questa sera, cara Emilia?» chiese Martino
ridendo verso la cugina.
Quella
si stese meglio sul divanetto e, portando alla bocca la sua coppa di vino, gli
rivolse una smorfia divertita.
«La
tua Agnesina è una donna, Martino. Non fingere che non ti interessi o che non
ti preoccupi.»
Martino
annuì silenzioso, titillando appena con la lingua qualche goccia di vino.
Sorrise.
«Purtroppo
hai ragione e non credo che si possa fare niente per fermare questa sua celere
ascesa.»
«Ma
davvero lo vorresti?»
Martino
fissò la bella cugina pensieroso, poi entrambi si sorrisero con
complicità e tornarono a guardare Agnese che si pavoneggiava teatralmente tra i
parenti.
«E’
sveglia Martino, non si farà ingannare dallo splendore della effimera bellezza
o dal bagliore del lusso.» affermò improvvisamente Emilia tornando a fissare il cugino e
bevendo dell’altro vino.
«Lo so
Amy, lo so.» mormorò Martino con un fugace sorriso. «D’altronde è mia sorella!»
Emilia
rise dolcemente, accarezzandogli con la mano libera il dorso della sua.
«Ci
puoi giurare, cugino! E non dimentichiamo che è cugina anche della
sottoscritta…non so se mi spiego!»
Martino
distese l’espressione nervosa in una più rilassata.
«Ti
spieghi, ti spieghi!» esclamò ridacchiando «Però ora basta parlare di quella
egocentrica della mia sorellina! Cosa mi racconti di te? Insomma, va tutto bene
qui alla Villa?»
La
donna si stiracchiò meglio sul divanetto, apparentemente indifferente e
annoiata.
«Vuoi
sapere una cosa, cugino?» chiese sbuffando come una bambina «Non ti sposare
mai! E’ una situazione davvero seccante essere sposati, oh sì!»
Martino
guardò con sguardo indagatorio la donna. Non riusciva a crederle. Emilia si era
sposata all’età di ventidue anni, dopo essersi laureata e aver soddisfatto tutto i suoi desideri
giovanili viaggiando per mezzo mondo, con un nobile davvero
raccomandabile e onesto, il Duca Bernard Guillaume. Certo, l’uomo aveva dieci
anni più della moglie ed era un serio e garbato signore poco incline a slanci
passionali, ma amava devotamente la moglie e, nei limiti concessi dalla
mentalità del tempo, la rispettava moltissimo lasciandole ampio spazio di
autonomia e peso nelle sue decisioni. Era stata fortunata Emilia, comunque la
pensasse.
«Non
essere severa, Amy. Hai la fortuna di stare con un
uomo che dopo dieci anni di matrimonio ti ama ancora con sincerità e tu ti
lamenti?» esclamò Martino dopo aver riflettuto un attimo.
La
donna fece spallucce, sorseggiando con calma un altro po’ di vino.
«Non
mi lamento, Martino. So bene che sono fortunata ad avere un marito che mi
rispetta e con cui riesco ad andare a letto senza sentirmi disgustata, ma
mettiti nei miei panni: dieci anni!» la donna spalancò gli occhi con enfasi,
provocando al giovane un moto d’ilarità «Ti assicuro che dopo
dieci anni di matrimonio qualche “pensierino” lo faresti pure tu.»
Martino
non rispose, facendo spaziare invece lo sguardo lunga tutta l’area della stanza
alla ricerca di qualcuno. Lo trovò quasi subito, intento a parlare pacatamente
con suo zio Antonio, secondo marito della madre di Emilia. Era un uomo
leggermente canuto, con un preciso pizzetto sul mento, naso dritto su cui
troneggiavano due lenti, occhi azzurri piccoli e infossati, ma un’espressione
gentile e saggia nel volto. Sì, Bernard Guillaume non era proprio da buttare.
«Davvero
non ti senti disgustata?» mormorò nuovamente Martino rivolto alla cugina per
stuzzicarla.
Questa infatti sbuffò e gli diede un piccolo
pugno sulla nuca, non trattenendosi però dal ridere.
«Guarda
che Bernard è bravo a letto, molto più di ciò che tu possa pensare. Ti basti
sapere che in “quell’arte” mette tutta la passione che non riserva nelle
abituali azioni.»
Martino
fece la faccia impressionata.
«Allora
è tutto chiaro: la sua indole è così generosa che si contiene sempre per
riversare poi tutto il suo ardore su di te! E bravo Berny!»
esclamò.
«Martino,
piantala subito di calpestare così l’onore di mio marito! Nessuno può dirgli
che finge pacatezza solo per soddisfare le voglie di una moglie insaziabile e
spudorata! Vergognati!»
Martino
alzò lo sguardo su quello infuocato della cugina che gli brandiva contro la
coppa di vino. Le sorrise con dolcezza.
«Sono
stati davvero pesanti questi dieci anni?» chiese fingendo ingenuità.
La
donna capì subito di essere caduta nel trucco del cugino e tutta la sua furia
si spense con una risata ammirata.
«Eh
sì, anche questa volta me l’hai fatta! Va bene, va bene, lo ammetto: dopo dieci
anni amo ancora mio marito. Contento?»
Martino
annuì con una punta di sfrontatezza.
«Il
vero problema è che mi sento vecchia, così vecchia! Ho appena varcato i trent’anni ed ora mi sembra tutto così grigio e banale. Una
volta la mia vita era avventurosa, eccitante! Quando studiavo qui a Parigi
c’erano frotte di gentiluomini che mi corteggiavano ed io mi sentivo bene,
bella e ammirata. Insomma, ero in pace con me stessa. Poi è arrivato Bernard
con la sua gentilezza e le sue premure e sono caduta ai suoi piedi senza
nemmeno rendermene conto. Lo so, era ora che mi sposassi e non nego che il mio è stato ed è un
matrimonio felice, ma Martino! Sento di volere qualcosa di più…una scossa di
vita…Martino, mi trovi ancora attraente?»
L’uomo
aveva seguito lo sfogo della cugina ascoltandola con calma e gentilezza. Ora
che aveva terminato e lo guardava con quegli occhi nocciola brillanti di
insoddisfazione e preghiera, come una fanciulla davanti ad un esame, si sentì
sciogliere e le si avvicinò per scoccarle un bacio sulla
guancia.
«Ti
trovo molto attraente...figurati che se non ti fossi sposata Guillaume ci avrei
pensato io a portarti all’altare!»
La
donna capì l’esagerazione ma gli sorrise riconoscente.
«Siamo
troppo uguali, cugino: non sarebbe stato un
matrimonio felice. E poi, non credo che avrei accettato la tua proposta…»
Martino
rise annuendo e tornò a guardare la sala. Agnese aveva smesso di parlare al suo
pubblico ed ora girava tra i singoli parenti per i saluti più intimi e
personali. La vide discutere animatamente con il Conte Antonio, patrigno di
Emilia e medico all’avanguardia. Sicuramente stavano parlando di qualche caso
clinico da come gesticolavano e borbottavano. Agnese adorava tutto ciò che era
scienza e vita. E anche morte.
«Martino…»
Emilia
lo aveva richiamato a sé ed ora lo fissava maliziosa.
«Dimmi
un po’, quando mi farai conoscere la tua nuova fiamma, quella duchessa Tureu?»
Martino
spalancò gli occhi, sbigottito.
«Ma
tu…come…?»
La
donna sorrise come chi la sa assai lunga.
«Ho i
miei informatori…non dimenticare che io vivo qui a Parigi ed è ovvio che venga
a conoscenza di tutti i pettegolezzi di ogni significativo evento mondano,
altrimenti non mi chiamerei Emilia Guillaume.» sorrise sorniona «Allora, è bella come
si dice? Si vocifera che più bella di lei ci sia solo la nostra Agnese, ma
d’altronde la figlia di quel…bell’uomo del generale Tureu non poteva essere
altrimenti.»
Martino
scosse la testa rassegnato, deciso però a non rivelare
nessuna nuova informazione alla cugina adorabilmente ficcanaso. Intanto era
arrivata Agnese che, concluso il giro dei parenti, poteva finalmente rilassarsi
tra i suoi amici più intimi.
«Di
chi sono più bella?» esordì ridendo sedendosi in braccio al fratello con un
bicchiere di vino in mano e sorridendo con fare complice verso la cugina.
«Ma di
ogni fanciulla, mia cara cugina!» esclamò Emilia facendo toccare il suo
bicchiere con quello della cugina in un fantomatico brindisi.
Agnese
rise di quell’affermazione e si accoccolò meglio tra le braccia del fratello,
incurante di spiegazzare il bel vestito porpora.
«Stavo
dicendo proprio adesso a tuo fratello che però la signorina Tureu riesce quasi
a tenerti testa, nevvero?» continuò Emilia.
Agnese
annuì con un sorriso divertito bevendo un altro sorso di vino.
«Sì,
Isabelle è molto bella, ma di una bellezza molto diversa dalla mia. Tuttavia
fatti spiegare bene ogni cosa da Martino, lui sì che ha avuto modo di farle un
bell’esame!»
Entrambe
le donne scoppiarono a ridere in direzione del Conte Ristori che, scocciato
leggermente da tutta quella leggerezza, si alzò lasciandole ai loro
pettegolezzi. Non fece però nemmeno tempo a raggiungere la porta del balcone per
prendere una boccata d’aria che quattro manine gli saltarono al collo.
«Mattino!
Mattino! Pottaci sulle spalle!»
Erano
Fabrizio e Clelia, i gemelli di cinque anni nati dal matrimonio tra Elisa e
Cristiano.
Martino
sbuffò divertito e stava già per prendere tra le braccia la piccola e serafica
Clelia, tra le urla del brunetto Fabrizio, quando una
voce lo fermò.
«Afferrali
Martino, ti prego! E’ ora che vadano a letto ma non riesco a bloccarli insieme.
Afferrali!»
Era
Elisa che, con il viso candido arrossato dalla corsa, gli si avvicinava con
lampi minacciosi nello sguardo verso i figlioletti. Era ancora bella, la dolce
Elisa. Il tempo e i dolori le avevano fatto perdere quell’aria angelica ed
eterea, ma ancora poteva dire qualcosa con quei suoi occhi verde acqua e i
biondi capelli. Ovviamente solo per Cristiano.
«Dio
sia lodato nella sua magnificenza!» esclamò la nobildonna una volta arrivata e
presi in braccio i gemelli sovversivi; poi verso Martino «Ben arrivato tesoro!
Scusa se non sono venuta prima ad accoglierti, ma questi due,» diede un tenero buffetto ai
bambini, la furia già svanita; «mi hanno tenuta impegnata tutta la sera! Ora
che Amelia non può più occuparsi da sola di tutto, devo arrangiarmi a vestirli,
nutrirli e tenerli a bada!»
Martino
sorrise verso la madre adottiva, sporgendosi per scoccarle un bacio come faceva
da bambino.
«Non
preoccuparti, Elisa, ci hanno pensato Emilia e Cristiano. Ad ogni modo questa è
la festa di Agnese, non la mia. Hai visto come ha intrattenuto gli ospiti?»
Elisa
annuì sorridendo, lasciando trapelare nel sorriso anche un incontenibile
orgoglio.
«L’ho
vista, l’ho vista. Era così impegnata che non ci siamo ancora salutate. Guardala Martino, non è uguale
a Fabrizio?»
Martino
avvertì una scossa al sentire pronunciare il nome del padre. Guardò di
sottecchi Elisa per vedere se si era accorta di qualcosa, ma notò che questa
non aveva occhi che per la figlia. Spostò anche lui lo sguardo verso la
sorella, ancora intenta a chiacchierare con Emilia. No, veramente Agnese non
assomigliava molto al suo padre naturale. Certo, c’erano gli occhi, di un
azzurro intenso, e l’altezza fuori dalla norma, ma per il resto la fanciulla era uguale alla madre.
Anzi, molto più bella di com’era stata la madre in passato. Ma Martino capì a
cosa alludeva Elisa: Agnese era davvero uguale a Fabrizio. Nella luce che le
illuminava il volto, nell’irrequietezza del suo animo, della lealtà delle sua azioni, nel fiero orgoglio del suo
cuore, nell’indole passionale e selvaggia…in ogni aspetto del carattere
assomigliava al defunto Conte Fabrizio Ristori. C’era da chiedersi se fosse un
bene o un male per un fanciulla che avrebbe dovuto prima o poi
sottomettersi alla regole della buona società.
Martino
sospirò, accorgendosi ancora una volta di come il suo attaccamento per la
sorella fosse dovuto soprattutto alla sua
straordinaria somiglianza con il padre. Probabilmente un attaccamento persino
troppo forte.
«Papino!!»
Era
arrivato anche Cristiano e i gemelli gli erano letteralmente saltati in braccio.
«Eccoli
qua, i miei terremoti ambulanti! Elisa, tesoro, ti hanno fatta arrabbiare? Ma
no, vero? La mia Clelia è un angelo…però tu Fabrizio devi imparare ad essere più uomo…insomma,
alzare le gonne delle zie…» diceva il Principe ora verso i gemelli e la moglie,
dopo aver donato una semplice stretta di mano al giovane.
Martino
si sforzò di sorridere ancora ma, dopo un inchino, sgusciò fuori nell’ampio balcone,
lasciando Elisa e il marito ad occuparsi di quelle pesti dei suoi fratellini.
Li
adorava, ma non potevano minimamente competere con la sua sensuale notte. Quando era immerso in quel silenzio attutito,
circondato da sole tenebre e pallida luce di stelle, sentiva di non aver alcun
timore. Non esisteva più nulla, solo lui e la notte.
Finalmente
l’amato silenzio.
E
anche l’altro suo IO taceva.