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Autore: little_Grainne    31/08/2006    4 recensioni
§*§ TERZO CAPITOLO! §*§ L'oblio non esiste che per se stesso, esso è fatto di fame vorace e insaziabile. E le sue prede lo ripugnano, ma incosciamente lo bramano. Ed esso le svuota di ogni cosa, le fa ancelle di perdizione e nefandezze. Non si può combatterlo. Semplicemente, non si vuole combatterlo...Questa storia parla proprio di lui, di come si nasconda e di come si riveli, di come sia odiato e temuto. Ma soprattuto, di come sia desiderato.
Genere: Azione, Malinconico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
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Finalmente sono riuscita a scrivere questo terzo capitolo! Che fatica, tra le vacanze e tutto il resto non ho proprio avuto tempo! Primo di tutto voglio ringraziare chi ha recensito: Vi adorooo! Per me è importante sapere che c’è qualcuno che legge e apprezza, disposto a darmi consigli e incoraggiarmi! (*///*) Ad ogni modo, spero che qualcuno troverà interessante anche questo capitolo, dove il personaggio di Martino comincerà ad acquisire importanza. Finalmente la trama si svilupperà verso l’idea noir del prologo, ma sarà un processo lento e infimo, d’altronde non ci si accorge di essere caduti nell’oblio finché non è ormai troppo tardi…

 

Baciotti a tutti e buona lettura, oh coraggiosi avventurieri!

 

 

´¯`°¤.¸(¯`...´¯)¸.¤°´¯` Capitolo III´¯`°¤.¸(¯`...´¯)¸.¤°´¯`

 

I have seen birth. I have seen death.

            Lived to see a lover's final breath.

            Do you see my guilt? Should I feel fright?

-“Cry” by James Blunt-

 

Agnese era letteralmente saltata in braccio all’uomo con il completo blu e, da come lo stringeva, non sembrava intenzionata a lasciarlo. Ma neppure l’uomo pareva voler il contrario. Se ne stavano lì, ai piedi di quella lunga scala, stretti in un dolcissimo abbraccio, accarezzandosi le rispettive schiene con nostalgia e sprofondando con tenerezza nei capelli dell’altro quasi a perdersi nel loro conosciuto profumo.

Martino, appena sceso dalla carrozza, osservava ora l’affettuoso abbraccio dei due con crescente soddisfazione. Sapeva che la sorellina aveva atteso quel momento fin dal primo giorno di separazione dall’uomo ed ora si sentiva in obbligo verso entrambi nel provare sentimenti di sola gioia per quel momento magico. In fondo, per quanto Agnese fosse insopportabile alle volte, capricciosa, altezzosa, irremovibile e persino selvaggia di temperamento, Martino aveva per lei il più tenero sentimento di affetto fraterno, quell’amore così puro e incondizionato che spingeva a desiderare per ella solo il meglio possibile. Eppure, in quel momento, mentre egli se ne stava in disparte ad osservare quella tenera scena, escluso involontariamente a prendervi parte, non riusciva a soffocare un altro sentimento che implacabile gli percuoteva l’anima gentile. Tristezza? Sì, certo. Quella era tristezza. Ma non era sola, la signora degli animi inquieti. Con lei turbinavo violentemente nostalgia, rimpianto, dolore e…sì, anche invidia. L’invidia di non poter avere anch’egli un abbraccio tanto dolce quanto sincero come quello per la sorella, unito alla consapevolezza che ciò che era stato un giorno oramai era tramontato per sempre. Quel sentimento che era desiderio e profondo dolore, quella malinconia perennemente presente nei suoi occhi chiari, erano per lui un oscuro male che gli lambiva la coscienza e tormentava nei sogni.

“Sono cresciuto, adesso. L’ho superato.” si diceva continuamente, quasi che quella nenia riuscisse a convincere il suo inconscio recalcitrante.  

Ma non era così. Assopito, ma mai estirpato, quel covo di sentimenti che erano serpi nel suo cuore balzava fuori ad ogni momento favorevole per distruggere ciò che lui, povera anima dispersa nella sua stessa guerra contro quel passato amaro, annaspando aveva cercato di eliminare.

Non bastava l’affetto verso quella strana creatura che era sua sorella, un affetto che in egual misura veniva contraccambiato, per dissipare l’ombra nell’anima sua che lo stava portando alla pazzia, né l’affetto dei suoi cari, né l’amore illimitato delle sue molti amanti, fugaci passioni di una notte, né il prestigio di una carriera fulgida e promettente o un titolo nobiliare valorosamente conquistato.

Un baratro oscuro si era aperto molti anni prima ed ora lui ci stava affogando senza possibilità di salvezza. Gli effetti che il passato stava facendo alla sua mente, debole verso i suoi attacchi infimi e subdoli, oramai sarebbero diventati evidenti ed egli non avrebbe più avuto modo di nasconderli. Tutti avrebbero visto chi era in realtà il vero Conte Martino Ristori.

E Martino lo sapeva, e tremava: in quel momento tutti avrebbero sussultato di stupore e sdegno. Alcuni avrebbero avuto pietà di lui, altri lo avrebbero disprezzato con onore. Ma niente di questo cambiava le cose. Il passato era lì, in agguato vicino al suo volto, pronto a far trasparire da quel avvenente volto un segno del profondo tormento interiore.

 

Ciò che è stato resta indelebile e prima o poi i suoi segni traspariranno.

 

«Tesoro, mia selvaggia creaturina, avevo così tanta voglia di rivederti!»

Martino sussultò, scuotendosi dal torpore in cui la sua inquietudine l’aveva fatto sprofondare. Volse lo sguardo, finora perso nella cieca contemplazione del delicato giardinetto, verso la coppia abbracciata ai piedi della scalinata. Si impose di sorridere, mentre vedeva i due scambiarsi i saluti dopo il legittimo contraccambio di effusioni d’affetto.

«Non pensavo che avrei avuto una così forte nostalgia del tuo chiasso e delle tue bizze!» stava dicendo l’uomo mentre con un dito tracciava il delicato profilo della figlia.

«E io non credevo che avrei rimpianto le vostre prediche sull’onore e la lealtà!» rispose Agnese con sguardo adorante dando un bacino sul naso all’uomo.

«Possiamo dire in conclusione che la distanza ha fatto apprezzare meglio all’altro anche gli aspetti che consuetamente reputiamo peggiori. Un bel guadagno, non trovi?»

«Non credo, visto che subito tutto tornerà alla normalità: io che sfurio praticamente sempre e voi che mi ricordate come dovrebbe essere una fanciulla ammodo figlia del principe di Montefalco e della Contessa Ristori. Ma questo non ha importanza, visto che presto voi ripartire e io resterò qui a crogiolarmi nella nostalgia dei vostri rimproveri.»

Agnese e il padre restarono un attimo a contemplarsi in silenzio, riflettendo uno sulle parole dell’altro, per scoppiare in una sonora risata subito dopo.

«Vi voglio bene, papà!»

«Ti voglio bene anch’io, Agnese.»

Quelle parole furono come una stilettata nel costato per il giovane Conte Ristori. Il male oscuro gli si fece vicino tanto che il giovane uomo fu quasi in grado di sentire il suo fetido odore di menzogna aleggiargli sul collo. Doveva intervenire subito per evitare che si facesse troppo vicino.

«Avete visto, ve lo riportata sana e salva la vostra Agnesina!» esclamò con ostentata sicurezza il giovane avvicinandosi alla coppia che ora lo osservava stralunata come resasi improvvisamente conto anche della sua presenza.

«Non ne avevo alcun dubbio Martino. Ero sicuro che solo mandando te avresti portato via la mia bambina ad un orario decente per permettere a noi poveri vecchi parenti di vederla come Parigi l’ha trasformata.» rispose il principe di Montefalco con un largo sorriso verso il giovane.

«D’altronde, Martino è sempre al primo posto nel mio cuore a pari merito con voi, papà.» aggiunse subito Agnese sorridendo raggiante ai suoi uomini preferiti, diciamo anche gli unici che riuscisse a sopportare di tutta la specie maschile.

«Ma siamo sicuri che ci siamo solo noi due nel tuo pazzo cuoricino, piccola tigre? O Parigi ha portato con sé anche un bel giovanotto, oltre a begli abiti e un aspetto…ehm…femminile?» rimbrottò subito l’uomo strizzando l’occhio a entrambi i suoi ragazzi.

«Nessuno, papà! Come potete pensare che in così pochi mesi abbia trovato qualcuno di decente quando sono oramai cinque anni che voi e la mamma vi affannate per farmi conoscere un giovane capace di farmi perdere la testa? Non è possibile, io sono intoccabile, non ho bisogno di nessuno. Diavolo, anche Martino ha tirato fuori prima la stessa storia! Ma che avete tutti? Fretta di avermi fuori dai piedi, eh? Indegni parenti che siete!» esclamò esasperata la fanciulla mentre saliva con padre e fratello la scalinata verso il portone d’entrata.

Entrambi gli uomini irruppero in un’argentina risata divertita e presero la fanciulla sottobraccio per scortarla lungo gli ultimi scalini che portavano al portone.

Agnese era fatta così…strana. Probabilmente per compensare quella bellezza prepotente, a dir poco sfacciata, troppo perfetta e travolgente, il suo carattere si era sviluppato verso una strada opposta al suo aspetto. Ella era un’anima inquieta, incapace di starsene tranquilla per dieci minuti di seguito, ribelle, di indole passionale e selvaggia, capace di buttarsi in una situazione solo per puro istinto, sostanzialmente allegra e ottimista. Non c’era pericolo di annoiarsi con una creatura come Agnese, Martino lo sapeva bene. Ella era una delle rare persone completamente indifferenti all’opinione altrui, capace di essere felice per il semplice fatto di avere un’alta considerazione di se stessa, dotata di una brillante intelligenza al di sopra della media,  superiore ai problemi della gente ma in grado di dannarsi l’anima per risolvere una situazione in disaccordo con i suoi ferrei principi. Con lei non potevi combattere, e nemmeno patteggiare. Con Agnese o tutto o niente.

Sì, un po’ estrema lo era, ma anche incredibilmente tenace e irruenta, un po’ come quei temporali estivi capaci di placarsi dopo pochi istanti senza lasciare il minimo segno della loro venuta.

Un piccolo fenomeno della natura, la Contessa Agnese Ristori, ma Martino l’adorava proprio perché in lei vedeva molte delle qualità che avrebbe voluto possedere lui ma che il fato, o il passato per essere precisi, gli avevano negato.

 

Non avere rimpianti, sarebbe come smettere di vivere.

 

Il terzetto era arrivato davanti al portone di mogano laccato e si era arrestato. Martino guardò la sorella: vibrava di eccitazione, facendo risplendere in modo inconsapevole quegli occhi azzurri così simili ai suoi ma, chissà perché, dotati di una vitalità largamente maggiore.

«Forza, ragazzina, stendili tutti.» sussurrò il principe di Montefalco con tono incoraggiante verso la figlia.

Questa, preso un lungo respiro, alzò dritta la testa d’oro ed entrò.

Il Principe e il Conte rimasero un attimo immobili a vederla entrare nella villetta.

«E’ davvero cresciuta, Martino.» mormorò il Principe quasi più a se stesso che al giovane uomo. «La mia bambina…»

«Sì, è cresciuta, e continuerà a farlo.» rispose con un soffio il Conte, lo sguardo perso nella luce della porta aperta davanti a loro. «Ma resterà sempre la vostra bambina.»

Il Principe portò lo sguardo sul giovane uomo, sorridendo e lasciando trapelare una gioia sincera.

«Ti ringrazio, Martino. Non sai quanto sia importante per me sentirti dire questo.»

Il Conte fece un cenno educato con il capo, nascondendo un certo disagio.

«E’ ora di entrare.» assentì poi aprendo meglio il portale massiccio. «Prima voi, Cristiano.»

E così, quell’uomo che non era suo padre, quell’uomo che aveva sposato la moglie di suo padre che non era però sua madre, quel Principe che aveva cresciuto la sua sorellina come figlia sua, quel Principe che era il centro del suo male oscuro, lo precedette all’interno dell’abitazione signorile.

 

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Quando Martino varcò la porta della grande sala dei ricevimenti, nervoso suo malgrado, non ricevette alcuna occhiata curiosa. Tutta l’attenzione era incentrata su Agnese che, fulgida e fiera come una amazzone, sedeva tra la folla di parenti rispondendo senza incertezze alle loro continue  domande curiose. Era bellissima, si trovò a constatare il giovane con un sorriso divertito, tanto bella che un’aura di orgoglio e forza la circondava donandole un aspetto quasi divino.

 

Sei una valchiria, Agnese. La mia valchiria.

 

Quasi avesse udito i pensieri del fratello, la bionda fanciulla alzò lo sguardo e gli sorrise con una spontaneità disarmante. Martino rispose al sorriso, deliziato, mentre andava a prendere posto in una poltrona lasciata libera. Adorava che la sorella gli sorridesse così, perché sapeva che c’erano solo due persone con cui si permetteva di lasciar uscire il suo lato tenero e romantico. Uno era lui: il suo fratellone, il suo compagno di giochi, il suo confidente, il suo migliore amico. O semplicemente Martino. L’altro era Cristiano.

Il Conte rivolse un’occhiata verso l’elegante figura del patrigno, seduto accanto alla figlia e assorto nella sua contemplazione. Era ancora prestante e affascinante, nonostante avesse superato i quaranta. Un’infanzia funesta e un’adolescenza nella marina britannica gli avevano reso lo sguardo cupo e i tratti duri, ma l’incontro con Elisa, la madre di Agnese, e il successivo loro matrimonio gli avevano donato una luce negli occhi e una forza carismatica nei gesti che ormai le tenebre parevano averlo lasciato per sempre. Il che certo non poteva dirsi del giovane Conte Martino Ristori. Anche lui aveva avuto un’infanzia non proprio delle migliori. Fino all’età di dieci anni era stato sicuro che la sua vita non gli avrebbe riservato alcuna gioia: era nato da una prostituta, abbandonato in fasce nel bordello in cui questa lavorava e cresciuto dalla vecchia strega che lo gestiva. Del padre non aveva avuto mai alcuna notizia. Seppur la vita avrebbe dovuto disgustarlo e piegarlo, lui era sempre stato un bimbo energico e vitale, insofferente verso la sua vita nel bordello come lavapiatti e desideroso di scappare verso nuovi orizzonti. Veniva picchiato e assisteva a scena cui mai un bambino dovrebbe assistere, ma resisteva. Resisteva perché c’era Elisa.

Elisa era una dipendente a Villa Rivombrosa, una splendida magione di proprietà del Conte Ristori poco lontana dal paese cui lui viveva, bellissima e corteggiata a quel tempo. Lei era come un raggio di sole nella sua tetra vita, un’anima buona e generosa che con ogni sua visita gli donava un po’ di gioia. Davvero bella e virtuosa doveva essere, perché tempo qualche mese e il Conte Ristori si invaghì di lei, premendo per renderla la sua amante. Ma Elisa era orgogliosa e tanto fece che riuscì a sposarsi il suo bel conte, rompendo le regole sociali e divenendo ella stessa la Contessa Ristori.

Per Martino fu una vera gioia e un gran dolore al tempo stesso: vedeva i sogni dell’amica avverarsi ma la perdeva proprio per questi. Per la prima volta, però, il destino s’impietosì del povero bambino, donandogli qualcosa di inestimabile: un’identità.

Si scoprì che il Conte Ristori, durante un buio periodo della giovinezza, aveva avuto rapporti molto “stretti” con una delle ragazze del bordello dov’era nato Martino nove mesi dopo. Una voglia uguale sulla spalle e un cipiglio identico tra i due, fecero così di Martino il figlio legittimo del Conte Fabrizio Ristori. Quale gioia per lui, passare dal bordello a Rivombrosa per stare con la sua amata Elisa e il suo nuovo papà, il quale si rivelò un uomo valoroso e un genitore attento!

A rendere il tutto ancora più luminoso, fu l’arrivo di Agnese, una bambina piccola e vitale che avrebbe potuto chiamare sorella e proteggere contro ogni sofferenza.

Ah, quale periodo meraviglioso fu quello che seguì la sua adozione e la nascita di Agnese! Il padre Fabrizio era per lui un mentore incredibile, abile tanto con la spada che con le parole. Gli insegnò tutto quello che sapeva: la scherma, la lotta, le armi da fuoco, l’onore, la lealtà, l’abilità con le parole e l’eloquenza dei gesti. Gli donò sicurezza e forza, amandolo e punendolo in pari misura per temprare la sua indole focosa. Fu per Martino il primo uomo degno di ricevere fiducia, il primo meritevole di punirlo e l’unico capace di renderlo parte della famiglia.

Sì, il conte Fabrizio fu la luce per lui, una luce che per la prima volta poteva chiamare padre.

Ma si sa, purtroppo il destino dà e toglie in egual misura. Fabrizio, il suo venerato padre, cadde vittima di un’imboscata e lo lasciò solo ad occuparsi dell’affranta e sconvolta vedova Elisa e di Rivombrosa. Ma soprattutto, da quella perdita Martino si prese la tacita responsabilità di vegliare sempre sulla piccola sorellina, da poco nata al momento della scomparsa.

Passarono gli anni, ma il dolore non cessò. Si fece forte e si radicò nel suo animo come una pianta nociva che gli avvelenava la mente e il cuore. Aveva avuto il tempo per assaggiare appena la dolcezza del calore famigliare che già il fato gliene aveva privato. Si sentiva ferito, molto amareggiato e pieno di rabbia verso un qualcosa di ignoto che non poteva sconfiggere. Solo Agnese era ora la luce. Ogni volta che la vedeva giocare e ridere spensierata, pensava a suo padre e alla promessa che gli aveva fatto di occuparsi di tutto. Sentiva il dovere gravargli sulla spalle, così giovani ancora, ma se ne piegava con coraggio pensando costantemente che lo avrebbe reso fiero di lui. Dovevano esserci solo Rivombrosa, Elisa e Agnese nei sui pensieri.

Tutte queste responsabilità e tutta questa tristezza lo resero dal bambino pestifero e ridente un giovanotto serio e fiero, con uno sguardo impenetrabile e un onore immacolato. Aveva solo quattordici anni.

Fu però con un viaggio a Napoli che tutto cambiò. Elisa conobbe Cristiano, valoroso capitano della marina britannica celante un passato oscuro. Sebbene la sua matrigna fosse ancora addolorata per la perdita del marito e certa di restare vedova per il resto della sua esistenza, il furbo Cupido ci mise il suo zampino e i due giovani si trovarono follemente innamorati l’uno dell’altro. Elisa scoprì inoltre che il suo amato era in realtà il Principe di Montefalco e che quindi per sposarlo non avrebbe dovuto nemmeno lottare contro l’aristocrazia per la disparità sociale.

I due tornarono così insieme a Rivombrosa e si sposarono tra la gioia di tutti. Tutti a parte Martino. In quell’uomo vedeva un rivale che cercava di portargli via la sua casa e i suoi affetti. Avrebbe voluto odiarlo, ma come poteva quando vedeva la sua cara Elisa nuovamente felice e l’adorata sorellina scoprire l’amore paterno? Si fece così da parte, tornando con ritrosia ad occuparsi di cose consone alla sua età. Ma dentro di sé urlava la sua rabbia.

Grazie al cielo il tempo addolcì la sua ira e con gli anni si accorse che era stato un bene per lui cedere la redini di Rivombrosa a Elisa e Cristiano. Aveva potuto infatti studiare e vivere la sua vita, uscendo per un poco dal fantasma del padre che altrimenti l’avrebbe soggiogato e annientato. Anche la sua Agnese era cresciuta meglio grazie alla nuova figura paterna e Martino gioiva nel vederla felice e immune dalle sue tenebre. Quelle tenebre che nonostante tutto, non avevano mai smesso di rodergli la coscienza.

Il Conte Martino tornò violentemente alla realtà. Una mano gli tendeva un bicchiere di brulé. Era sua cugina e coetanea Emilia, la Duchessa Guillaume.

«Bevi, cugino, e dimentica i dispiaceri.» gli disse quella sedendosi stancamente in un sofà lì accanto.

Martino prese il calice dalla sua mano ingioiellata e le sorrise. Emilia, dopo Agnese, era la persona cui teneva maggiormente. Era figlia della Contessa Anna, sorella del suo defunto padre, ed erano cresciuti insieme. Avevano entrambi studiato a Parigi, lei arte e letteratura, lui arruolandosi nell’esercito francese come il padre. Caratterialmente erano molto simili, fisicamente non sembravano nemmeno parenti. Emilia era un bella donna, di media statura e dalle forme armoniose. Quella sera aveva addosso un aderente abito color panna con pizzi e merletti candidi che contribuiva a rendere più splendente la sua carnagione mediterranea. Aveva i lunghi capelli castani acconciati in morbidi boccoli e il viso era cesellato da un trucco seducente e ardito che una bellezza consapevole come la sua poteva permettersi.

«E quali dispiaceri dovrei mai avere questa sera, cara Emilia?» chiese Martino ridendo verso la cugina.

Quella si stese meglio sul divanetto e, portando alla bocca la sua coppa di vino, gli rivolse una smorfia divertita.

«La tua Agnesina è una donna, Martino. Non fingere che non ti interessi o che non ti preoccupi.»

Martino annuì silenzioso, titillando appena con la lingua qualche goccia di vino. Sorrise.

«Purtroppo hai ragione e non credo che si possa fare niente per fermare questa sua celere ascesa.»

«Ma davvero lo vorresti?»

Martino fissò la bella cugina pensieroso, poi entrambi si sorrisero con complicità e tornarono a guardare Agnese che si pavoneggiava teatralmente tra i parenti.

«E’ sveglia Martino, non si farà ingannare dallo splendore della effimera bellezza o dal bagliore del lusso.» affermò improvvisamente Emilia tornando a fissare il cugino e bevendo dell’altro vino.

«Lo so Amy, lo so.» mormorò Martino con un fugace sorriso. «D’altronde è mia sorella!»

Emilia rise dolcemente, accarezzandogli con la mano libera il dorso della sua.

«Ci puoi giurare, cugino! E non dimentichiamo che è cugina anche della sottoscritta…non so se mi spiego!»

Martino distese l’espressione nervosa in una più rilassata.

«Ti spieghi, ti spieghi!» esclamò ridacchiando «Però ora basta parlare di quella egocentrica della mia sorellina! Cosa mi racconti di te? Insomma, va tutto bene qui alla Villa?»

La donna si stiracchiò meglio sul divanetto, apparentemente indifferente e annoiata.

«Vuoi sapere una cosa, cugino?» chiese sbuffando come una bambina «Non ti sposare mai! E’ una situazione davvero seccante essere sposati, oh sì!»

Martino guardò con sguardo indagatorio la donna. Non riusciva a crederle. Emilia si era sposata all’età di ventidue anni, dopo essersi laureata e aver soddisfatto tutto i suoi desideri giovanili viaggiando per mezzo mondo, con un nobile davvero raccomandabile e onesto, il Duca Bernard Guillaume. Certo, l’uomo aveva dieci anni più della moglie ed era un serio e garbato signore poco incline a slanci passionali, ma amava devotamente la moglie e, nei limiti concessi dalla mentalità del tempo, la rispettava moltissimo lasciandole ampio spazio di autonomia e peso nelle sue decisioni. Era stata fortunata Emilia, comunque la pensasse.

«Non essere severa, Amy. Hai la fortuna di stare con un uomo che dopo dieci anni di matrimonio ti ama ancora con sincerità e tu ti lamenti?» esclamò Martino dopo aver riflettuto un attimo.

La donna fece spallucce, sorseggiando con calma un altro po’ di vino.

«Non mi lamento, Martino. So bene che sono fortunata ad avere un marito che mi rispetta e con cui riesco ad andare a letto senza sentirmi disgustata, ma mettiti nei miei panni: dieci anni!» la donna spalancò gli occhi con enfasi, provocando al giovane un moto d’ilarità «Ti assicuro che dopo dieci anni di matrimonio qualche “pensierino” lo faresti pure tu.»

Martino non rispose, facendo spaziare invece lo sguardo lunga tutta l’area della stanza alla ricerca di qualcuno. Lo trovò quasi subito, intento a parlare pacatamente con suo zio Antonio, secondo marito della madre di Emilia. Era un uomo leggermente canuto, con un preciso pizzetto sul mento, naso dritto su cui troneggiavano due lenti, occhi azzurri piccoli e infossati, ma un’espressione gentile e saggia nel volto. Sì, Bernard Guillaume non era proprio da buttare.

«Davvero non ti senti disgustata?» mormorò nuovamente Martino rivolto alla cugina per stuzzicarla.

Questa infatti sbuffò e gli diede un piccolo pugno sulla nuca, non trattenendosi però dal ridere.

«Guarda che Bernard è bravo a letto, molto più di ciò che tu possa pensare. Ti basti sapere che in “quell’arte” mette tutta la passione che non riserva nelle abituali azioni.»

Martino fece la faccia impressionata.

«Allora è tutto chiaro: la sua indole è così generosa che si contiene sempre per riversare poi tutto il suo ardore su di te! E bravo Berny!» esclamò.

«Martino, piantala subito di calpestare così l’onore di mio marito! Nessuno può dirgli che finge pacatezza solo per soddisfare le voglie di una moglie insaziabile e spudorata! Vergognati!»

Martino alzò lo sguardo su quello infuocato della cugina che gli brandiva contro la coppa di vino. Le sorrise con dolcezza.

«Sono stati davvero pesanti questi dieci anni?» chiese fingendo ingenuità.

La donna capì subito di essere caduta nel trucco del cugino e tutta la sua furia si spense con una risata ammirata.

«Eh sì, anche questa volta me l’hai fatta! Va bene, va bene, lo ammetto: dopo dieci anni amo ancora mio marito. Contento?»

Martino annuì con una punta di sfrontatezza.

«Il vero problema è che mi sento vecchia, così vecchia! Ho appena varcato i trent’anni ed ora mi sembra tutto così grigio e banale. Una volta la mia vita era avventurosa, eccitante! Quando studiavo qui a Parigi c’erano frotte di gentiluomini che mi corteggiavano ed io mi sentivo bene, bella e ammirata. Insomma, ero in pace con me stessa. Poi è arrivato Bernard con la sua gentilezza e le sue premure e sono caduta ai suoi piedi senza nemmeno rendermene conto. Lo so, era ora che mi sposassi e non nego che il mio è stato ed è un matrimonio felice, ma Martino! Sento di volere qualcosa di più…una scossa di vita…Martino, mi trovi ancora attraente?»

L’uomo aveva seguito lo sfogo della cugina ascoltandola con calma e gentilezza. Ora che aveva terminato e lo guardava con quegli occhi nocciola brillanti di insoddisfazione e preghiera, come una fanciulla davanti ad un esame, si sentì sciogliere e le si avvicinò per scoccarle un bacio sulla guancia.

«Ti trovo molto attraente...figurati che se non ti fossi sposata Guillaume ci avrei pensato io a portarti all’altare!»

La donna capì l’esagerazione ma gli sorrise riconoscente.

«Siamo troppo uguali, cugino: non sarebbe stato un matrimonio felice. E poi, non credo che avrei accettato la tua proposta…»

Martino rise annuendo e tornò a guardare la sala. Agnese aveva smesso di parlare al suo pubblico ed ora girava tra i singoli parenti per i saluti più intimi e personali. La vide discutere animatamente con il Conte Antonio, patrigno di Emilia e medico all’avanguardia. Sicuramente stavano parlando di qualche caso clinico da come gesticolavano e borbottavano. Agnese adorava tutto ciò che era scienza e vita. E anche morte.

«Martino…»

Emilia lo aveva richiamato a sé ed ora lo fissava maliziosa.

«Dimmi un po’, quando mi farai conoscere la tua nuova fiamma, quella duchessa Tureu?»

Martino spalancò gli occhi, sbigottito.

«Ma tu…come…?»

La donna sorrise come chi la sa assai lunga.

«Ho i miei informatori…non dimenticare che io vivo qui a Parigi ed è ovvio che venga a conoscenza di tutti i pettegolezzi di ogni significativo evento mondano, altrimenti non mi chiamerei Emilia Guillaume.» sorrise sorniona «Allora, è bella come si dice? Si vocifera che più bella di lei ci sia solo la nostra Agnese, ma d’altronde la figlia di quel…bell’uomo del generale Tureu non poteva essere altrimenti.»

Martino scosse la testa rassegnato, deciso però a non rivelare nessuna nuova informazione alla cugina adorabilmente ficcanaso. Intanto era arrivata Agnese che, concluso il giro dei parenti, poteva finalmente rilassarsi tra i suoi amici più intimi.

«Di chi sono più bella?» esordì ridendo sedendosi in braccio al fratello con un bicchiere di vino in mano e sorridendo con fare complice verso la cugina.

«Ma di ogni fanciulla, mia cara cugina!» esclamò Emilia facendo toccare il suo bicchiere con quello della cugina in un fantomatico brindisi.

Agnese rise di quell’affermazione e si accoccolò meglio tra le braccia del fratello, incurante di spiegazzare il bel vestito porpora.

«Stavo dicendo proprio adesso a tuo fratello che però la signorina Tureu riesce quasi a tenerti testa, nevvero?» continuò Emilia.

Agnese annuì con un sorriso divertito bevendo un altro sorso di vino.

«Sì, Isabelle è molto bella, ma di una bellezza molto diversa dalla mia. Tuttavia fatti spiegare bene ogni cosa da Martino, lui sì che ha avuto modo di farle un bell’esame!»

Entrambe le donne scoppiarono a ridere in direzione del Conte Ristori che, scocciato leggermente da tutta quella leggerezza, si alzò lasciandole ai loro pettegolezzi. Non fece però nemmeno tempo a raggiungere la porta del balcone per prendere una boccata d’aria che quattro manine gli saltarono al collo.

«Mattino! Mattino! Pottaci sulle spalle!»

Erano Fabrizio e Clelia, i gemelli di cinque anni nati dal matrimonio tra Elisa e Cristiano.

Martino sbuffò divertito e stava già per prendere tra le braccia la piccola e serafica Clelia, tra le urla del brunetto Fabrizio, quando una voce lo fermò.

«Afferrali Martino, ti prego! E’ ora che vadano a letto ma non riesco a bloccarli insieme. Afferrali!»

Era Elisa che, con il viso candido arrossato dalla corsa, gli si avvicinava con lampi minacciosi nello sguardo verso i figlioletti. Era ancora bella, la dolce Elisa. Il tempo e i dolori le avevano fatto perdere quell’aria angelica ed eterea, ma ancora poteva dire qualcosa con quei suoi occhi verde acqua e i biondi capelli. Ovviamente solo per Cristiano.

«Dio sia lodato nella sua magnificenza!» esclamò la nobildonna una volta arrivata e presi in braccio i gemelli sovversivi; poi verso Martino «Ben arrivato tesoro! Scusa se non sono venuta prima ad accoglierti, ma questi due,» diede un tenero buffetto ai bambini, la furia già svanita; «mi hanno tenuta impegnata tutta la sera! Ora che Amelia non può più occuparsi da sola di tutto, devo arrangiarmi a vestirli, nutrirli e tenerli a bada!»

Martino sorrise verso la madre adottiva, sporgendosi per scoccarle un bacio come faceva da bambino.

«Non preoccuparti, Elisa, ci hanno pensato Emilia e Cristiano. Ad ogni modo questa è la festa di Agnese, non la mia. Hai visto come ha intrattenuto gli ospiti?»

Elisa annuì sorridendo, lasciando trapelare nel sorriso anche un incontenibile orgoglio.

«L’ho vista, l’ho vista. Era così impegnata che non ci siamo ancora salutate. Guardala Martino, non è uguale a Fabrizio?»

Martino avvertì una scossa al sentire pronunciare il nome del padre. Guardò di sottecchi Elisa per vedere se si era accorta di qualcosa, ma notò che questa non aveva occhi che per la figlia. Spostò anche lui lo sguardo verso la sorella, ancora intenta a chiacchierare con Emilia. No, veramente Agnese non assomigliava molto al suo padre naturale. Certo, c’erano gli occhi, di un azzurro intenso, e l’altezza fuori dalla norma, ma per il resto la fanciulla era uguale alla madre. Anzi, molto più bella di com’era stata la madre in passato. Ma Martino capì a cosa alludeva Elisa: Agnese era davvero uguale a Fabrizio. Nella luce che le illuminava il volto, nell’irrequietezza del suo animo, della lealtà delle sua azioni, nel fiero orgoglio del suo cuore, nell’indole passionale e selvaggia…in ogni aspetto del carattere assomigliava al defunto Conte Fabrizio Ristori. C’era da chiedersi se fosse un bene o un male per un fanciulla che avrebbe dovuto prima o poi sottomettersi alla regole della buona società.

Martino sospirò, accorgendosi ancora una volta di come il suo attaccamento per la sorella fosse dovuto soprattutto alla sua straordinaria somiglianza con il padre. Probabilmente un attaccamento persino troppo forte.

«Papino!!»

Era arrivato anche Cristiano e i gemelli gli erano letteralmente saltati in braccio.

«Eccoli qua, i miei terremoti ambulanti! Elisa, tesoro, ti hanno fatta arrabbiare? Ma no, vero? La mia Clelia è un angelo…però tu Fabrizio devi imparare ad essere più uomo…insomma, alzare le gonne delle zie…» diceva il Principe ora verso i gemelli e la moglie, dopo aver donato una semplice stretta di mano al giovane.

Martino si sforzò di sorridere ancora ma, dopo un inchino, sgusciò fuori nell’ampio balcone, lasciando Elisa e il marito ad occuparsi di quelle pesti dei suoi fratellini.

Li adorava, ma non potevano minimamente competere con la sua sensuale notte. Quando era immerso in quel silenzio attutito, circondato da sole tenebre e pallida luce di stelle, sentiva di non aver alcun timore. Non esisteva più nulla, solo lui e la notte.

Finalmente l’amato silenzio.

E anche l’altro suo IO taceva.

 

  
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