Capitolo
I
Ho
messo il cuore in un cassetto, per non soffrire.
E adesso che sei
forte,
per struccarti
useranno
delle nuvole
cariche di piogge.
Adesso che sei
forte,
che se piangi
ti si
arrugginiscono le
guance.
M'abituerò
a non
trovarti.
Mi
abituerò a
voltarmi e non ci sarai
Mi
abituerò a non
pensarti quasi mai.
Bulma prese tra
le
mani l’ennesima ciocca di capelli turchini nel vano tentativo
di dar loro una
forma compiuta. Quale balenamento malato del suo cervello le aveva
sussurrato
l’allettante idea di andare a dormire con i capelli bagnati
così da recuperare
sulle ore di sonno [erano effettivamente oltre le quattro e mezza del
mattino
quando era uscita dalla doccia, con sveglia preimpostata per le 7.01
del giorno
stesso]? Non lo sapeva, come non sapeva con quale miracolo sarebbe
riuscita a
presentarsi in maniera almeno decorosa alla riunione della mattina.
Odiava
essere in disordine, l’ordine e la compostezza erano una
delle poche cose su
cui aveva puntato tutta la propria costanza [o testardaggine, che dir
si
voglia] e in un
modo o nell’altro era sempre
riuscita a far rientrare tutto sotto il proprio controllo. Tranne
quella
mattina. Sospirò, e si arrese all’idea di doverli
lavare di nuovo e al
conseguente ritardo che questo avrebbe provocato. Afferrò la
cornetta e
schiacciato il primo tasto del palmare vide con leggera fierezza uno
dei propri
prodotti avviare immediatamente la chiamata al numero della segretaria
del
padre.
TUUU.. TUUU..
TUUU..
TUUU.. Pronto?
–Salve
Aiashi sono Bulma, potresti passarmi
mio padre per favore?
La voce grigia,
come
tutto in quella donna del resto, della segretaria rispose
dall’altro capo della
telefonata.
–Certo
Signorina Brief, solo un momento che
verifico la disponibilità della linea. Mentre la musichetta
dell’attesa
iniziava il suo breve –sperando che fosse tale- cicaleccio,
le parve per un
attimo di vedere quella signora bassa, perennemente imbronciata e priva
di
qualsiasi facoltà espressiva sia vocale che facciale alzarsi
e battere due
volte sulla porta dello studio del padre, il quale ovviamente doveva
aver preso
sonno, per poi mugugnare un “C’è sua
figlia sulla due.” Tutto con il medesimo
tono con cui aveva risposto a lei poco prima. Le era capitato di
chiedere più
volte al padre per quale motivo si ostinasse a circondarsi di una
persona tanto
statica, ma aveva ricevuto sempre una risposta che non dava adito ad
ulteriori
polemiche
–E’
l’unica persona su
cui posso scommettere che non avrà un attacco di panico di
fronte ai mille
problemi della giornata e non c’è cosa che
più apprezzi in una persona della
volontà di mantenere l’etica professionale in ogni
ambito.
Cosa che, detta
da un
uomo come suo padre, che vagava per la fabbrica perennemente in
pantofole e
tuta, solo occasionalmente coperti dal camice bianco da laboratorio
risultava
abbastanza fuori luogo. Mentre era aggrovigliata in questi pensieri,
abbastanza
inutili, arrivò alle sue orecchie il tono gracchiante per il
sonnellino appena
interrotto del padre.
–Dimmi
tesoro, come
mai mi chiami così di buon mattino? Un sorriso.
–Buongiorno
papà.
Purtroppo non riuscirò ad arrivare in tempo per la riunione,
potresti
introdurre tu l’argomento e poi io preciso quando arrivo e
gestisco le domande?
Pausa.
–Tesoro,
guarda che la riunione è stata
rimandata alla settimana prossima. Non sei stata avvertita? Eppure
Aiashi ti ha
lasciato più di un messaggio sulla tua posta personale..
Serie confusa di
emozioni: panico, rabbia, furia omicida, rassegnazione, sonno.. sonno..
decisamente sonno, GIORNO LIBERO. Il tutto in un frangente estremamente
breve,
tanto da farle rispondere pacatamente a quella che in altri momenti
poteva
significare l’esplodere di un conflitto silenzioso
all’interno delle mura
domestiche, con grande pena di sua madre.
–Ah,
no non ho più la casella di posta attiva
sul palmare papà. Ti avevo lasciato il nuovo recapito. Un
attimo di silenzio dall’altra
parte. –Eh.. si, ricordo.. devo essermi dimenticato di darlo
ad.. Bulma lo
interruppe prima di dar fondo a quel momentaneo atto caritatevole nei
confronti
della sbadataggine cronica del Signor Brief per le cose che
implicassero
memoria, dato anche dalla prospettiva di avere finalmente un giorno
libero
tutto per se. Mai avrebbe ammesso a se stessa che in parte era colpa
sua,
cosciente com’era di questo difetto del padre, il fatto di
non essersi
accertata personalmente che il nuovo recapito fosse giunto nelle mani
di chi
sapeva l’avrebbe usato in casi come questi.
–Non
preoccuparti
papà, torno a letto. Oggi mi prendo un giorno per me.
Sorriso del padre, non
visto ma chiaramente percepibile, in un misto di sollievo e conforto
per la
carneficina scampata e per la più paterna volontà
di vedere la figlia
finalmente riposarsi un attimo. Da quando lei e Yamcha si erano
lasciati
–all’incirca tre mesi prima- non l’aveva
ancora vista fermarsi un attimo,
buttata nel lavoro e sempre alzata sino a orari improponibili. Si stava
sciupando. E lo si ravvisava in modo ormai impossibile da nascondere,
quindi
quelle parole erano accolte con un profondo respiro di sollievo, per
quanto
momentaneo.
–Va
bene tesoro,
riposati.
CLIK
La chiamata si
interruppe e Bulma ciondolò sino all’ampio letto e
vi si lasciò cadere sopra,
pregando di riprendere sonno immediatamente e di non lasciar andare la
mente a
pensieri che ormai erano diventati la sua ombra, angosciosa, fedele e
sempre
presente come tutte le ombre. Quel giorno però il caso fu
generoso: in pochi
minuti il respiro era di nuovo regolare e pesante, e per un
po’ si sarebbe
potuta godere la piacevole incoscienza di un sonno senza sogni.
Quando
aprì nuovamente
gli occhi, il sole era alto nel cielo e dalla finestra entravano
piacevoli
soffi tiepidi, segno dell’arrivo ormai prossimo di una
primavera inoltrata. Si
stropicciò il viso, non era più abituata a sonni
così lunghi e continui.
Istintivamente, allungò il braccio destro
nell’ampio letto, come in cerca di un
qualcosa –o qualcuno- che avrebbe dovuto trovarsi in quella
direzione; lo
ritrasse dopo un attimo, sospirando forte. Erano mesi che quel gesto
era
sparito dalla sua mente, perché proprio in quel momento
doveva tornare a farle
visita? Non le era concesso un giorno di riposo? Sospirò di
nuovo.
Evidentemente no. Il dolore di una rottura non lascia spazio al riposo,
rimane
costante e presente all’interno del proprio ospitante e ne
contamina ogni
momento, attimo, gesto con il proprio alone di tristezza infinita.
Sentì le lacrime
pungerle gli occhi e per un attimo fu quasi tentata di lasciarle
scivolare
lungo le guance, ma quell’idea fu scacciata con la stessa
rapidità con cui era
affiorata. Si tirò su di scatto, fiondandosi dentro il bagno
come aveva fatto
ore prima a passo di carica, aprì il getto d’acqua
del lavandino e vi fiondò il
volto di scatto. Sobbalzò per il freddo, ma dopo qualche
attimo di stordimento
percepì la piacevole sensazione di una ritrovata
razionalità. Fece dietro
front, lanciandosi nuovamente nel letto sfatto con il preciso intento
di
rimanervi almeno per un’altra ora. Sarebbe passata. Bastava
trovare qualcosa da
fare per riempire la giornata ed evitare i momenti vuoti. Avrebbe letto
tutti i
manuali di meccatronica in casa pur di evitare al proprio cervello
qualsiasi
escursione nella zona ‘sentimento’. Erano mesi che
l’aveva chiusa e sigillata a
dovere, di certo non avrebbe buttato in quel modo tutti i suoi sforzi.
Non
senza una strenua resistenza.
Stanno
urlando da ormai quasi un’ora, senza giungere ad alcuna
conclusione degna di questo nome. Yamcha le è a pochi
centimetri e ha un tono
di voce dannatamente alto, come se stessero in stanze diverse. Su piani
diversi. Questo è il prezzo da pagare quando ci si trascina
dietro una
relazione morta da tempo e si fa di tutto per auto convincersi che non
sia
vero. Può funzionare per i primi mesi, e per i precedenti
otto pareva dare i
suoi frutti, ma si sa, queste cose sono destinate ad arrivare al punto
di
collasso.
Soprattutto
se ci sono questioni che permangono in sordina ad
avvelenare il cuore di entrambi. problemi, incomprensioni, cose non
dette.
Tante, tantissime cose non dette. Troppe per poter semplicemente
svanire nello
scorrere dei giorni.
-IO
NON TI HO MAI DETTO DI NON VOLERE UN FIGLIO NOSTRO!
Questo
è il primo tasto dolente. Un bambino, lei ne vuole uno
ormai da almeno un anno, ma nel momento in cui avevano provato a
discuterne,
lui si era tirato indietro dicendo di non sentirsi ancora pronto. Cosa
che,
dopo più di dieci anni assieme, le era parsa davvero
assurda. Non l’ha mandata
giù, anzi, ne soffre giornalmente quando sfila dalla
scatoletta di cartone la
lastra di latta e ne estrae la piccola capsula con stampato sopra i
nomi dei
giorni della settimana, cosa che evita che qualche imprevisto possa
succedere,
anche solo per sbaglio.
Quelle
parole le fanno salire il sangue al cervello. Di lì la
discussione, lo sa benissimo, prenderà la tremenda china
della catastrofe. Ma
non è contemplabile per lei l’idea di accantonare.
Yamcha sa benissimo che
quello è un tasto che tassativamente non va toccato o
l’epilogo rasenterà i
cori delle tragedie greche dopo gli omicidi più efferati, se
l’ha fatto l’ha
fatto di proposito. Quindi, ora ne pagherà le conseguenze.
Se c’è qualcosa a
cui la donna tiene di più della loro relazione in quel
momento è il suo
orgoglio, e per quanto si senta intimamente legata alla persona che ha
di
fronte, non ha nessuna intenzione di lasciarselo calpestare. Mai.
-TU
MI HAI DETTO DI VOLERLO FORSE E UN GIORNO!
La
voce si alza di parecchi toni sulle parole “forse”
e “un
giorno”. Le scandisce con cura. Le sillaba quasi. Vede
chiaramente balenare
negli occhi del ragazzo una nota ferita, segno tangibile di averlo
punto sul
vivo. O forse sarebbe più opportuno dire lì dove
fa più male.
-E
CREDO CHE ANDARE A LETTO UN GIORNO SI’ E UNO NO CON ALTRE
NON SIA ESATTAMENTE UNA PROVA D’INTENTI!!
L’infedeltà.
L’ha perdonata tante volte, alcune facendogliela
scontare con purghe fatte di silenzi e ripicche, anche se mai
abbastanza, altre
–la maggior parte- ha lasciato che passassero sotto i suoi
occhi chiusi per un
amore che credeva ancora di poter difendere, barricandosi dietro alle
parole
ripetute quasi come un disco rotto “Un giorno
cambierà.” Inutile dire che non è
mai cambiato e che forse la cosa è andata anzi peggiorando.
Ora lei non può
nemmeno più far finta di non vedere.
Da
lì in poi è tutto un rinfacciarsi cose vere e
false,
alcune inventate sul momento solo per ferire l’altro e per
far sì che la sua
voce si abbassi il tanto necessario per poterlo sopraffare con la
propria. È
una scena di una tristezza infinita. Tanto per loro, che anche se
immersi nei
reciproci bagni di bile nera riescono a percepirne chiaramente
l’intrinseco
significato, quanto per chi di volta in volta vi si è
trovato presente.
Non
è infatti la prima volta. Solo l’ultima di una
lunga,
interminabile, straziante serie.
Eppure
si sono amati davvero tanto, in un passato non
temporalmente troppo lontano, ma ora, tra le urla, è come se
fossero passati
secoli, ere geologiche.. o, forse, solo troppo tempo.
-E
TU ALLORA?! TU HAI ACCOLTO IN CASA QUELL’ESSERE
RIPUGNANTE!
Ecco
il secondo tabù che viene incautamente scoperchiato.
Ormai il fiume ha rotto gli argini e sta trascinando con se ogni cosa
trovi
sulla sua strada, siano essi ricordi, paure, rancori antichi,
aspettative
deluse. Nemmeno quel poco che ancora resta di positivo viene
risparmiato. Sanno
entrambi dove andranno a parare, a cosa li porterà
quell’ennesima scenata,
quindi ormai non ha più senso tenere dentro le cose. Tanto
vale dirsele una volta
per tutte.
Si
stiracchiò
indolenzita nelle lenzuola, lasciando che i muscoli rilasciassero parte
della
tensione accumulata in quei lunghi mesi di lavoro forzato a cui si era
costretta, rimanendo in quella posizione per alcuni minuti. Percepiva
chiaramente la gratitudine che ogni cellula del suo corpo stava
rilasciando a
quegli attimi di insperato relax, un toccasana che mancava nella
quotidianità
di Bulma da molto,troppo tempo. Un lieve mugolio di piacere si fece
strada
attraverso le labbra, quasi senza che se ne accorgesse, come se la sua
parte
inconscia volesse ringraziarla per quei preziosi attimi di stand by.
Lasciò
che il torpore
delle coperte la avvolgesse ancora per un po’, concentrando
la propria mente
solo sulla frequenza regolare del respiro. Era il suo metodo per
evitare di
pensare troppo, e doveva ammettere che si rivelava sempre estremamente
efficace. Il tutto stava solo nel rimanere abbastanza concentrata, e su
quello
ormai era diventata un’esperta.
Un lungo
sbadiglio,
poi obbligò il proprio corpo a sollevarsi dal materasso per
una rapida seduta di
fronte allo specchio posizionato accano alla finestra, con tanto di
postazione
trucco e puff ricamato su cui posare il suo ben curato fondoschiena.
Non
dovendo andare a lavorare, quel giorno poteva anche semplicemente
raccogliere i
capelli in una qualche crocchia evitando loro la consueta routine di
tentativi
di acconciatura sempre insoddisfacenti. Secondo
i suoi canoni.
Afferrò
un’ampia felpa
grigia con disegnato sopra un grosso gufo e la infilò in
malo modo, incurante
di come potesse caderle addosso –cosa che di solito aveva il
primo posto nella
scelta del vestiario- poi fu il turno di un paio di leggins crema,
calzettoni
pesanti da casa, ciabatte. Si voltò a guardare la propria
immagine riflessa e
una smorfia a metà tra lo stupore e il disgusto le comparve
sul volto pallido.
Era la classica tenuta che il suo ex –chiamarlo con
quell’epiteto era stato il
suo metodo per allontanare ogni contatto della mente e del cuore con
lui,
privandolo del nome proprio e quindi teoricamente di un volto- avrebbe
definito
“tenuta antistupro”. Sbuffò, infastidita
dall’aria sciatta che lo specchio le
restituiva ma visto il programma della giornata –un nulla
totale- poteva anche
starsene comoda in quel travestimento che di lei non aveva nulla e
gustarsi
l’abbrutimento che la rottura di una storia importante aveva
come periodo
dovuto e che non si era ancora concessa. Tanto con i genitori fuori
casa –suo
padre era in ufficio, sua madre aveva preso la giornata per fare una
gita alle
terme- poteva regalarsi un aspetto orribile almeno per quel giorno di
solitudine.
Più o
meno.
In effetti non
pensava
al fatto che in quell’enorme casa ci fosse anche un altro inquilino non annoverabile tra i membri
della sua famiglia. Un non
calcolato quarto elemento che la ragazza lasciava apposta a lato dei
propri
pensieri, in un luogo ben lontano da quelli ove la sua mente viaggiava
di
solito.
Non sapeva
perché gli
aveva offerto la sua casa, mesi addietro, e nonostante quella domanda
le fosse
stata posta milioni di volte non c’era verso, tanto per gli
altri quanto per se
stessa, di cavar fuori qualcosa di più dei circostanziali
“non aveva un posto
dove stare” oppure “credo che meriti una seconda
possibilità”. Se poi non era
giornata, e quasi mai lo era per questo argomento, si limitava ad uno
scocciato
“E basta, fatevi una vita vostra. Della mia sono affari
miei.”
Il fatto che le
avesse
risparmiato l’esistenza su Namecc, non sottoponendola ad una
serie di torture
atroci o semplicemente staccandole la testa dal corpo con un colpo
secco, non
poteva di certo essere portato come riprova di un ravvedimento o
comunque di un
qualsiasi segno di maturazione in direzione del bene da parte della
scimmia. A
dirla tutta aveva provato a farla passare un paio di volte come scusa,
ben
sapendo della sua intrinseca indifendibilità come
argomentazione e pur stando
sopra la media dei suoi amici come quoziente intellettivo aveva visto
–prevedibile- crollare la sua già di partenza
tremante argomentazione sotto i
colpi della ragione. O così volevano farle
credere/comprendere.
La cosa le aveva
creato non pochi grattacapi, anche perché aveva preso
quell’episodio come una
chiara testimonianza di un errore di fondo nella formula basilare del
suo esperimento “Vediamoquantocimettoaredimereunmostroassassinoinuncorpodiscimmia”
e questo l’aveva inevitabilmente spinta ad un attento riesame
di premessa,
tesi, antitesi, conclusione. Era un scienziata non solo sulla carta.
L’analisi
però non aveva portato grandi miglioramenti
sull’argomento, anzi l’aveva
lanciata in un turbine di crisi, dubbi e domande che dopo un
po’, più per
disperazione che altro, aveva deciso molto autonomamente di abbandonare
chiudendo l’argomento.
Certamente
doveva
esserci stato un motivo, anche decisamente valido per il quale aveva
deciso di
lasciarlo entrare nella sua casa. Non
era il tipo da fare le cose così solo per istinto, da brava
mente geniale
qual’era aveva dalla sua una straordinaria
capacità di razionalizzare qualsiasi
avvenimento e di giungere alle conclusioni mediante processi di
assoluta
logicità che portavano, ovviamente, ad un risultato esatto e
non confutabile.
Eppure, in quel
momento come in tutti quelli che l’avevano preceduto, non le
veniva in mente
qualcosa di abbastanza convincente. Un motivo che fosse talmente
inattaccabile
da svolgere da solo i ruoli di premessa, argomento a sostegno e
conclusione,
senza bisogno di ulteriori spiegazioni poiché completo e
finito in sé. No,
decisamente non c’era nulla al momento.
-Bah.
Scacciò
quel garbuglio
di pensieri con un gesto secco del capo, ordinando a se stessa di
evitare altri
argomenti spinosi per quel giorno e infilatosi in bocca lo spazzolino
da denti
iniziò la pulizia mattutina come se dovesse scrostare una
teglia unta e
lasciata all’incuria per settimane.
Un altro metodo
per
sfogare i propri nervi.
Risciacquò
la bocca con
un sorso preso dal getto d’acqua, dando poi una veloce pulita
al piano in marmo
e riponendo lo spazzolino nel bicchiere rosa accanto al pomello
dell’acqua
calda. Passò l’asciugamano sul viso e dopo averlo
buttato in malo modo sul
lungo ripiano in marmo diresse svogliatamente i passi giù
per le scale.
Vegeta se ne
stava
seduto su uno degli sgabelli della cucina, i gomiti appoggiati sul
ripiano in
marmo accanto al frigorifero, in attesa che qualcuno giungesse a
preparargli la
colazione. Immobile come una statua di granito, era come sempre chiuso
dietro
una barriera nera di pensieri indecifrabili e non captabili per il
resto del
mondo, protetti dallo schermo di un orgoglio ben più duro di
qualsiasi arma che
avesse sino ad allora provato a scalfirlo. Era un orgoglio nero, come
la pece,
come il buio tetro, quello delle notti senza luna né stelle
perché coperte da
un fitto strato di nuvoloni, violento, che si nutriva di superbia
–e di questa
ne aveva a palate, come un carburante inesauribile- e del vedersi causa
di
infinite sofferenze al prossimo. Aveva una sorta di culto di se stesso,
l’aveva
minuziosamente costruito sin dalla più giovane
età anche grazie alle parole
eloquenti che il padre gli aveva ripetuto come un rosario sacro e
inviolabile.
“Sii
forte, non avere
legami, sii spietato. Solo così potrai essere il
migliore.”
E lui lo era, il
migliore. O almeno aveva creduto di esserlo sino al momento in cui
aveva visto
quella terza categoria, quel sottoposto, raggiungere il livello del
Super Saiyan
prima di lui, davanti ai suoi occhi, senza che lui avesse potuto far
niente per
impedirlo.
O superarlo.
Lì
era il problema, il
grosso spinoso bolo di rancore, delusione, odio che faceva su e
giù lungo la
sua laringe da mesi, e che in un momento di totale annebbiamento delle
proprie
capacità raziocinanti lo aveva indotto ad accettare
l’ospitalità di quella
casa.
Strinse i pugni
attorno al vuoto, facendo diventare bianche le nocche.
-Kakaroth.
Fu un sibilo,
presto
coperto dall’assordante rumore di passi strascicati
chiaramente senza ombra di
preoccupazione per il fastidio che quello ciabattare poteva causare a
terzi,
segno dell’arrivo imminente di Lei.
Difatti l’unica in quella casa che sembrava totalmente
dimentica delle regole
della convivenza civile –a parte lui ovviamente- era
quell’oca starnazzante dai
capelli azzurri. Ancora non si capacitava come la sua pazienza, che mai
prima
di allora aveva avuto coscienza di possedere, riuscisse a dilatarsi a
tal punto
da sopportare quei continui affronti da parte sua, e il fatto che
fossero
spesso e volentieri più voluti che non lo mandava ancora
più ai pazzi.
Ma non faceva
nulla,
pur promettendo a se stesso che sarebbe arrivato il giorno in cui
gliele
avrebbe fatte pagare tutte una per una. Magari tra le sofferenze
più atroci. Di
certo non le avrebbe riservato una morte lenta, quella saputella si
meritava
agonie lunghe e crudeli. Eppure, anche in quel momento, sembrava una
prospettiva che continuava ad allontanarsi nel tempo.
Mentre era
immerso in
queste anguste riflessioni, il chiasso si fece sempre più
intenso e dopo pochi
istanti comparve Bulma, facendo capolino dalla porta che dava sulle
scale per i
piani superiori, gli occhi assenti e persi chissà dove. Non
l’aveva notato.
La cosa gli
diede
abbastanza fastidio.
Non era abituato
a
passare inosservato, di solito la sua presenza scatenava il panico
generale,
con urla di terrore e tutti gli altri fronzoli al seguito
–c’è da dire che il
suo arrivo era sempre scandito da una serie di
disastri/carneficine/stragi- a
cui era abituato e di cui amava bearsi, ma in quel momento anche un
grugnito
gli sarebbe bastato per non sentirsi totalmente ignorato.
La terrestre
invece,
intenta a scandagliare i ripiani frigo in cerca di qualcosa che le
sembrasse
abbastanza mangiabile da provocarle i morsi dell’appetito,
pareva proprio non
degnarsi minimamente di lui.
Diede un pugno
sul
tavolo, reclamando così le attenzioni che, secondo lui, gli
erano dovute da
quell’essere petulante.
Bulma
trasalì, come
uscendo momentaneamente dal coma.
-Ah?
Ora finalmente
lo
stava guardando.
-Preparami la
colazione, donna.
Lo
fissò bieca.
-Come prego?
Vegeta
ghignò
interiormente. Aveva ristabilito l’equilibrio.
-Ti ho detto di
farmi
la colazione. Ho fame, devo allenarmi.
Un ringhio
uscì fuori
dalle labbra serrate della ragazza, che aggrottò le
sopracciglia riducendo gli
occhi a due fessure azzurre. Dal canto suo il Saiyan si godeva la scena
immerso
in un brodo di autocelebrazione.
-Dì
un po’, Bulma
cadenzò volutamente ogni parola. Mi hai preso forse per la
tua serva? La voce
era stridula, segno tangibile che la tattica aveva colto nel segno.
Quasi gli
pareva di sentire gli applausi di sottofondo per la propria
interpretazione.
Avrebbe volentieri fatto un inchino, godendosi il tripudio del pubblico.
-Tu mi hai
invitato
qui e Tu devi provvedere al mio nutrimento, quindi datti da fare.
Fece per
ribattere, la
bocca semiaperta pronta a scattare al primo segnale della mente,
impegnata
nella ricerca di un insulto abbastanza tagliente, poi però
di nuovo volò
estremamente lontana, dopo aver inquadrato l’angolo di spazio
effettivamente
occupato dallo scimmione.
Fu un brutto
tiro
quello che la memoria le giocò in quell’istante.
Non era uno
sgabello a
caso, non per lei almeno. Fu come essere di nuovo inghiottiti da una
nebbia
fitta, capace di chiudere al di fuori della propria cortina il resto
del mondo
e lasciare il malcapitato all’interno di una non ben
percepibile realtà
ovattata, dai confini labili e sfaldati, fatti di ricordi dolorosi che
non
colpiscono con la spada, lacerando e dilaniando, ma si mostrano come
echi che
sfiorano appena le orecchie, solleticandole con qualcosa che non
è più ma che
continua ad esistere in un tempo passato che però rimane
immanente. E
vicino, dannatamente vicino.
Ogni insulto,
parolaccia, offesa venne offuscata dalla nebbiolina, così
abbassò lo sguardo e
si limitò a blaterare un semplice “Scimmione da
strapazzo” mentre estraeva dal
frigo il necessario per sfamare quel rozzo.
Vegeta
grugnì. Veniva
di nuovo ignorato. Ma almeno vedeva in arrivo la colazione.
Non che si
fidasse
molto delle capacità culinarie della terrestre
–era una pessima cuoca, come sua
madre gli aveva più volte confidato ridacchiando, confidenza
non richiesta ma
comunque accuratamente registrata e immagazzinata per un secondo
momento- ma
mettere qualcosa sotto i denti era condizione senza la quale non poteva
iniziare alcun genere di allenamento.
La vide
accendere due
fuochi, buttarvi abbondante olio e lasciarvi colare in una 6 uova e
nell’altra
una porzione più che generosa di bacon. Incrociò
le braccia al petto
soddisfatto. Aveva ottenuto –quasi- tutto quello che voleva.
Bulma spense i
fornelli e riempì un grosso piatto da portata porgendolo a
Sua Maestà, per poi
mettere sul fornello più piccolo la moka appena riempita ed
adagiarsi contro il
frigorifero nell’attesa che il caffè fosse pronto.
Distanza di
sicurezza
era la parola d’ordine con lo scimmione, non
perché ne avesse paura ma
piuttosto perché la loro vicinanza tendeva a far scoppiare
guerre di
logoramento dove entrambi si barricavano in trincee di insulti,
sberleffi,
grida. Molte grida. Almeno da parte di lei. Lui urlava solo di
conseguenza, non
sopportando che qualcuno gli parlasse sopra.
Era per questo
motivo
che Bulma alzava ulteriormente la voce, arrivando a toccare livelli mai
raggiunti –e irraggiungibili- dai parametri di una normale
voce umana. Questa
era la parte femminile dei loro deliri di onnipotenza, mattutini serali
o
notturni che fossero, i quali allietavano e ravvivavano
l’enorme casa dei
coniugi Brief, che per un motivo o per l’altro avevano
iniziato a prendere in
simpatia l’ospite ex aspirante distruttore del pianeta Terra
e fautore
dell’azzeramento violento di tutta la sua popolazione. Non
Bulma. Bulma lo
odiava. E la cosa lo gonfiava come elio.
Ovviamente
tralasciando il fatto che pur di salvarlo dall’esplosione
della Gravity Room si
era lanciata tra le macerie. Erano piccolezze. Lei
era una piccolezza. Ovviamente.
Quella mattina
però,
era come se la ragazza di fronte a lui si fosse costruita una barriera
oltre la
quale a lui non era permesso andare. Cosa estremamente fastidiosa.
Irritante.
Irritantissima.
Il
caffè fece capolino
dal beccuccio, andando in parte a rovesciarsi sul piano di cottura: non
si era
accorta del fischio della macchinetta e Vegeta prese la palla al balzo.
Iniziava il secondo round, non le avrebbe permesso di ignorarlo a quel
modo.
-Sei proprio
un’incapace, donna.
L’enfasi
su
quell’epiteto dimostrava quanto godesse nel rimarcare un
qualcosa che sapeva
benissimo irritare la controparte oltremisura. “Si
dà il caso che io abbia un
nome, scimmia pulciosa!” si era sentito rispondere
più di una volta, quindi
credeva di andare abbastanza sul sicuro con quella frecciatina.
Aspettò
baldanzoso il risultato del proprio attacco, ma non arrivò
niente.
-Vegeta,
fa’ un
favore, vai ad allenarti. Te l’ho riparata per un motivo
quella stramaledetta
camera gravitazionale.
Non
c’era nessun
accenno di emozioni nel tono. Stizzito, il Principe lasciò
lì quel poco che
restava della colazione e si diresse verso la Gravity Room.
“Maledetta
donna. Se
spera che io le lasci passare questo affronto si sbaglia di
grosso.” Iniziò a
delinearsi tra i suoi pensieri una vendetta estremamente piacevole.
Ghignò
malignamente nella sua testa, mentre congratulandosi per la seconda
volta nel
giro di pochi minuti con se stesso si diresse a grandi falcate sino
alla GR
pronto per una nuova giornata di sforzi. Avrebbe scovato il motivo di
tanta
sfuggevolezza e l’avrebbe volto a proprio favore
utilizzandolo come arma.
Tagliente e affilata. Spiarla. Il piano era quello. Sarebbe divenuto la
sua
ombra –ovviamente nel più totale silenzio- per
qualche giorno, e una volta
raccolte informazioni sufficienti, le avrebbe sfruttate tutte come
mezzi
indispensabili per il proprio scopo.
Prima
però gli
allenamenti lo attendevano, di certo una rivalsa per il proprio
orgoglio ferito
non lo avrebbe mai distolto dal suo proposito più
incombente. Rise di nuovo,
sempre più fiero di quei meccanismi diabolici che la propria
mente era in grado
di far girare con tanta naturalezza.
Schiacciò
il pulsante
d’accesso alla GR, aprendo il grosso portellone e lasciandosi
inghiottire dalla
sala di addestramento.
Salve a tutti, dopo questo
chilometrico capitolo –saranno tutti più o
meno così, sono una persona totalmente priva del dono della
sintesi- lascio
spazio per qualche commento da parte mia: intanto avverto subito, sono
una
maniaca dei sentimenti e del loro evolversi attraverso il tempo ed
è su questo
che verterà principalmente la storia. Amo il romanticume ma
lo doserò col
contagocce qui, anche perché visto uno dei due protagonisti
[ Vegeta: etciù! ]
lo ritengo abbastanza fuori luogo, se non in modica parte e in
circostanze ben
determinate. Ultimo palloso avvertimento, non abbiatemene
sarò più affabile col
progredire dei capitoli lo prometto :D , l’ho già
messo nell’introduzione ma
trovo giusto ribadirlo qui: non ho mai scritto nulla con Vegeta come
protagonista e vista la complessità estrema del personaggio
può essere che nel
corso della vicenda sfori nell’OOC, pur sforzandomi al
massimo. Per questo e
per mille altri motivi apprezzerò molto le recensioni anche
critiche, in quanto
mi daranno una mano a migliorare la mia capacità di
giostrare una coppia tanto
complessa.
Xoxo
Stella*